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Shintoismo: stare bene in questa vita, su questa terra

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25/11/2020

Liberamente tratto da:
Rossella Marangoni, Shintoismo, Editrice Bibliografica, 2018

Selezione del brano, guida alla lettura e biografia a cura di Pino Pignatta

Guida alla lettura

«Non sono che una cosa insignificante. Triste constatazione, forse. Ma è proprio questo che rende la mia vita preziosa. Minus habens, certo, ma un insieme di centoventi milioni di feti forma il Giappone. Gettati a terra dai tifoni, fatti a pezzi dai terremoti, sono mille, duemila anni che noi viviamo. Fintanto che la vita è qui, possiamo conoscere innumerevoli istanti luminosi. La bellezza del crepuscolo. La magia dei petali di ciliegio trasportati dal vento. Il valore inestimabile di coloro che ci sono vicini e che scopriamo all’improvviso, per un nonnulla. Il piacere del sole che tramonta in compagnia di amici. L’evocazione dei piaceri della giornata che sta per finire nell’attimo che precede il sonno. Nella mia piccolezza, so bene che questi attimi non conosceranno mai l’eternità ed è proprio questo che li fa brillare ai miei occhi di un lampo sempre più vivo. Questa scintilla è preziosa, senza eguali».
Kawakami Hiromi, aprile 2011

L’esaltazione della vita e del valore dei rapporti umani, il legame con la natura, la consapevolezza della brevità dell’esistenza e della preziosità degli attimi: questa riflessione della scrittrice Kawakami Hiromi (alla giapponese, il cognome precede sempre il nome), rilasciata subito dopo la tragedia dello tsunami, chiarisce perfettamente la concezione del mondo e della vita presenti nella visione shintoista.
Escludendo i fedeli delle religioni monoteiste o di alcune (poche) scuole buddhiste esclusiviste e gli atei, tutti gli altri giapponesi sono e si dichiarano shintoisti e buddhisti. Alla fine, ci spiega Rossella Marangoni, yamatologa (cioè studiosa della lingua, della letteratura e della civiltà giapponese), che abbiamo intervistato per questa puntata sullo shintoismo, «è proprio vero il verso del drammaturgo Zeami (1363-1443): “Tra un dio shintō e un buddha la differenza è la stessa che tra l’acqua e l’onda”. Nella realtà giapponese l’esperienza del sacro si realizza in modo del tutto estraneo all’ambito culturale legato ai tre grandi monoteismi. In Giappone, infatti, coesistono, in un sincretismo del tutto peculiare, più sistemi di pensiero religioso (shintō, buddhismo, confucianesimo, taoismo) che non sono mutualmente esclusivi, e l’attenzione all’aspetto spirituale dell’esistenza si manifesta in una pluralità di modi. Insomma, il panorama religioso del Giappone è quanto mai ricco».
La parola shintō, ossia “via dei kami”, “via degli dei”, è utilizzata convenzionalmente per definire un insieme di culti, pratiche e riti presenti in Giappone sin dall’antichità, ma organizzati in un sistema religioso istituzionalizzato solo in epoca tarda, ben dopo l’arrivo del Buddhismo nell’arcipelago (metà del VI secolo). Al centro dei culti è la venerazione dei kami, entità e spiriti insiti nella natura, a cui si chiedono benevolenza e benedizioni per la comunità, per la propria vita. Si tratta di una religione ottimistica, che concepisce una stretta connessione fra il divino e l’uomo: kami, uomo e natura fanno parte di un’unica realtà.
«Lo shintoismo – spiega ancora Rossella Marangoni – è una religione della vita, della natura, che vede il sacro nel mondo che ci circonda, non in un essere trascendente. Mi verrebbe da citare un teologo e mistico cristiano, Divo Barsotti, per la sua capacità di cogliere l’essenza della spiritualità giapponese: “L’uomo è sempre in rapporto con la natura; non si sottrae, non si difende, non si protegge. E’ egli stesso elemento di una natura. E questo non al modo induista, che è un dissolversi su un piano metafisico al di là del cosmo, ma come la goccia di rugiada nella luce del mattino, come il canto del cuculo nella sera, come il fiore, come la pietra. La realtà concreta non è perduta, perché tutto è in ogni singola cosa, non al di fuori o al di là di quella”. Insomma, l’esperienza religiosa non è un’esperienza di trascendenza, ma di immanenza: io sono nel tutto e nel tutto io mi dissolvo».
Questa tradizione religiosa aspira a far star bene l’uomo in questa vita, su questa terra. Quella giapponese è stata definita una religiosità che non mira a verità assolute, che è allergica a dogmi e a concettualizzazioni, ma che è tutta tesa alla pacificazione. «Ecco perché – prosegue la studiosa milanese – a mio avviso, ha molto da dire soprattutto in tempi come questi, in cui la vita stessa sulla terra sembra minacciata dal comportamento dissennato dell’uomo, invitandoci a riflettere sulla nostra relazione con il mondo naturale e a guardarlo in modo diverso».
Può essere difficile da comprendere una realtà che veda un’interazione fra diverse tradizioni religiose, a cui si chiede di rispondere a bisogni diversi, ma questa visione meccanica è propria dell’osservatore esterno: «I Giapponesi – osserva Rossella Marangoni – non si preoccupano di questo, per loro è naturale, poiché il sincretismo shintō-buddhista è presente in Giappone sin dal VII secolo. Se può far star bene, si prega davanti al Buddha della Medicina in un tempio buddhista e si acquista un amuleto contro le malattie al santuario shintō. Se si è avuto un lutto, si può cercare il colloquio con una sciamana che ci metta in contatto con chi abbiamo perduto. Non dobbiamo dimenticare, infatti, la forte componente sciamanica nella prospettica religiosa della “via degli dei”. Tutto questo per noi può essere difficile da capire, forse, se partiamo da un’ottica monoteista».
Per complicare ulteriormente il panorama religioso, l’arcipelago conta anche dei cristiani (1,5% della popolazione, stando a una ricerca pubblicata nel 2019). A tutto ciò occorre aggiungere una fioritura di cosiddette “nuove religioni”, nate fra XIX secolo e prima metà del XX, e di matrice shintoista o buddhista. «Se guardiamo a questo panorama complesso – conclude Rossella Marangoni – ci rendiamo conto che si tratta di una realtà non inquadrabile secondo le categorie che ci sono proprie. Nelle società caratterizzate dai tre grandi monoteismi, le categorie religiose funzionano come identità esclusive: se ci si dichiara cristiani non si è ebrei, né musulmani e così via, mentre in Giappone praticare una religione non significa escludere le altre. Così i Giapponesi non si dividono fra Shintō e Buddhismo: sono shintoisti o buddhisti, e lo sono a seconda dei momenti della vita, ossia secondo l’uso sociale che essi fanno delle pratiche religiose. Tenendo conto che lo shintō, culto della vitalità e delle forze della natura, è collegato ai momenti di gioia della vita, mentre al buddhismo e alle profondità della sua metafisica spetta il compito di accompagnare i defunti nell’ultimo viaggio».
Shintō, ossia “via dei kami”: la denominazione contiene già in sé l’oggetto della venerazione. Non esiste una teoria etimologica sull’origine della parola kami su cui tutti gli autori concordino. Esistono, quindi, una pluralità di ipotesi, ma nessuna più accreditata dell’altra. [...] Il filologo Fujiwara Akira riconduce la parola a ookami (lupo), derivato dal paleodravidico “karum”, un’entità del selvaggio con connotazioni sacre. Alcuni reputano interessante l’affinità con il termine kamui con cui gli Ainu indicano le loro divinità, altri fanno riferimento ai culti degli alberi più elevati. Certo è che tradurre il termine kami con “dèi” o, addirittura, “Dio” è una scelta che rivela tutta la sua inadeguatezza. Il sostantivo plurale rimanda immediatamente, nel nostro immaginario, alla rappresentazione del pantheon greco-romano con tutto il suo corredo di riferimenti mitologici e artistici, mentre il concetto di Dio come è inteso nei tre monoteismi (creatore, unico, trascendente, onnipotente, onnisciente, assoluto) è quanto di più lontano dalla natura del sacro – plurale, cangiante, polimorfa – intesa nel mondo giapponese.
Il termine kami è concettualmente fluido, variamente definito, oggetto di infinite speculazioni da parte degli studiosi. Semplificando si potrebbero definire i kami quali manifestazioni del divino insite nella natura e collegate al suo eterno divenire, ma questa definizione probabilmente non troverebbe l’accordo di tutti gli specialisti. Nella definizione del maggior esponente della scuola nativista (kokugaku), Motoori Norinaga, kami è «qualsiasi cosa che esce dall’ordinario, che possiede un potere superiore e straordinario, che provoca timore», quindi, sintetizza Kamata Tōji, «qualunque cosa che è venerata con timore e rispetto è un kami». Il fatto è che, nel corso della storia, i kami sono stati variamente intesi e concettualizzati, obbligandoci a un’applicazione articolata, flessibile e cangiante dell’opposizione sacro-profano. Occorre inoltre tener presente che la concezione di kami ha subìto un’evoluzione nel corso del tempo [...]
La credenza più antica nei kami, affine a credenze osservabili nell’Asia sudorientale, deriverebbe dal culto degli alberi più alti e strani: più visibili dal cielo e a esso più vicini, erano ritenuti luogo privilegiato della discesa degli spiriti. Questa teoria spiegherebbe l’ubicazione dei villaggi, costruiti sempre vicino ai boschi, così come quella dei luoghi di culto shintō (jinja), immersi in una fitta boscaglia anche quando sono in pieno contesto urbano. Il termine kami si applica a tutto ciò che esce dal comune o che ispira rispetto, stupore o timore per essere arcano, straordinario: sia esseri animati che cose, ogni entità o oggetto che susciti un’emozione, che richiami al senso del mistero. Qualcosa di tremendo e di sublime. “Timore” è il termine più utilizzato dagli studiosi. E forse non sarebbe così azzardato riprendere – certo, con la dovuta cautela – la teoria di Rudolf Otto sul numinoso. E’ plausibile ipotizzare, anche da un’ottica antropologica, che la venerazione di un’entità temuta nasca da una necessità di controllo simbolico di una realtà inspiegabile, inafferrabile. I kami possono essere gli spiriti di un luogo particolare o forze naturali come venti, fiumi e montagne. Kami come questi non sono né considerati antropomorficamente né visti come incarnazioni di principi morali. Alcuni sono minacciosi e non tutti sono benevoli verso gli umani.
Solo sotto l’influenza del buddhismo i kami vennero concettualizzati antropomorficamente. Figure del mito, come la dea del sole Amaterasu Ōmikami, sono comprese in un diverso gruppo di kami. Altri kami, come Inari, associati all’agricoltura o al successo commerciale, provengono da tradizioni comuni e non hanno basi testuali. Alcuni kami sono stati originati come spiriti deificati di esseri umani, come il cortigiano di periodo Heian Sugawara no Michizane (845-903), divinizzato come Tenjn. Nella prima era moderna, signori feudali, contadini martiri e fondatori di nuovi movimenti religiosi furono deificati come kami. Nel periodo moderno, gli spiriti dei caduti in guerra furono divinizzati e l’idea della divinità dell’imperatore fu promossa non solo dallo Shintō, ma anche da alcune istituzioni influenti come le scuole e l’esercito [...]
Lo shintō attribuisce grande importanza alle affinità tra uomo, natura e kami, affermando la sostanziale continuità ontologica fra mondo degli dei, mondo degli uomini e natura. Ne consegue un grande rispetto per le sostanze, le forme e i processi semplici e spontanei, che si manifesta in campo estetico con la predilezione per carta, legno e corde nell’architettura dei santuari e nel campo delle pratiche con una ritualità scarna, priva di ornamenti. Lo stato auspicabile per l’uomo è quello di totale armonia con le forze della natura. L’uomo, infatti, non è che un elemento della natura, non diverso da un animale o da un albero. Suggestive restano le considerazioni di Fosco Maraini: mentre, in regime di creazione, Dio, la natura e l’uomo costituiscono i tre vertici del triangolo ideale, non mescolabili tra di loro (l’uomo non diventerà mai Dio né fiore: ciascuno è legato in eterno al suo destino specifico), nel regime generativo dello shintō si ha, almeno potenzialmente, una circolazione ontologica dinamica che apparenta ogni fase dell’essere nel tempo. L’uomo può farsi kami come il kami può farsi nuvola, delfino, albero, stella.

Biografia

Rossella Marangoni, yamatologa milanese, laureata in Lingua e Letteratura Giapponese presso l’Università di Torino, è membro dell’Associazione Italiana per gli Studi Giapponesi e vicepresidente di AsiaTeatro. Tiene conferenze, corsi e seminari sull’esperienza del sacro in Giappone e sulla cultura teatrale ed estetica di periodo Edo (1603-1858), collaborando con numerose istituzioni culturali pubbliche e private. Attualmente è docente presso il Centro di Cultura Giapponese di Milano. E’ autrice del “Dizionario iconografico dello Zen” (Electa Mondadori, 2008), opera tradotta in più lingue, “Buddhismo” (Editrice Bibliografica, 2017), “Shintoismo” (Editrice Bibliografica, 2018) e “Zen” (Editrice Bibliografica, 2019).
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