Guida alla lettura
è causata dai mutamenti
e dai conflitti generati
dalle cinque cause della sofferenza».
Questo è uno dei 196 brevi aforismi, divisi in quattro libri, contenuti nello Yoga Sutra, un libro scritto da Patanjali, filosofo indiano vissuto tra il II e il IV secolo a.C. Si tratta di un testo fondamentale per la comprensione dello Yoga, disciplina antichissima, nata in India e che si è ormai affermata in tutto il mondo occidentale come uno degli strumenti più efficaci per garantire salute fisica, mentale e spirituale a donne e uomini di tutte le età.
“Yoga” significa unificazione, unione del corpo con la mente e con lo spirito, del microcosmo con il macrocosmo, della mente individuale con l’infinito universo. Per chi segue la via degli yogi, lo Yoga Sutra è un po’ quello che per un cristiano è la Bibbia, o per un buddhista il Canone Pali: una guida interiore per ogni praticante, un aiuto teorico e pratico per proseguire sul cammino spirituale.
L’aforisma di Patanjali qui riportato è il quindicesimo del secondo libro, dedicato alla pratica dello Yoga come rimedio alla sofferenza. Ciò che va qui compreso, innanzitutto, è il reale significato di “persona saggia”, che non ha la stessa accezione intesa da noi in Occidente, cioè di persona colta, erudita, di esperienza. Nella cultura orientale, il saggio è l’uomo che ha superato l’avidyā, cioè l’ignoranza come mancanza di consapevolezza, di presenza mentale, di lucida percezione della realtà ultima delle cose. Questa ignoranza, per l’intero mondo delle religioni orientali e delle pratiche ascetiche come lo Yoga, è la causa principale della permanenza degli enti nel Saṃsāra (il ciclo di vita, morte e rinascita) e del dispiegarsi della Duḥkha, la sofferenza.
In questo aforisma contenuto nello Yoga Sutra, il “saggio” è dunque l’uomo consapevole, la persona capace di comprendere che tutto arreca infelicità e dolore a causa delle ansie, delle esperienze passate, dei mutamenti che si susseguono nella vita e dai conflitti generati dalle cinque cause della sofferenza.
Si tratta di cinque afflizioni che derivano dalla mente e sono in essa radicate. La prima, come abbiamo già visto, è avidyā, cioè l’ignoranza, la falsa comprensione della vera natura delle cose. La seconda è asmita, la falsa coscienza del proprio sé che provoca egoismo. La terza è raga, l’attaccamento nei confronti delle idee o degli oggetti, o delle persone (ogni attaccamento porta con sé dolore). La quarta è dvesha, pensieri legati a esperienze dolorose vissute nel corso dell’esistenza. La quinta causa è abhinivesha: l’attaccamento istintivo alla vita, al vivere, ma anche la paura della morte.
Lo Yoga, dunque, è una disciplina integrale, di corpo e anima, che attraverso una pratica continua, fisica (asana) e mentale, ci guida a essere più consapevoli e presenti, più capaci di osservare e liberarci della sofferenza. Lo descrive molto bene un articolo che abbiamo tratto dal sito “In quiete” di Gianfranco Bertagni, docente di religioni e filosofie orientali. Eccone alcuni frammenti.
Schematizzando possiamo affermare che le idee-forza della spiritualità indiana sono quattro: Karman, Maya, Nirvana e Yoga:
- il Karman è la legge della causalità universale, che rende l’uomo solidale al cosmo e lo condanna alla trasmigrazione;
- la Maya è l’illusione cosmica che cela la realtà assoluta all’uomo finché è accecato dalla non-conoscenza (avidyā) e scambia per eterno ciò che invece è perituro;
- il Nirvana è la condizione dell’essere puro, assoluto: Brahman, l’incondizionato, il trascendente, l’immortale;
- lo Yoga, ovvero le tecniche per raggiungere l’Essere, è il mezzo per conquistare la liberazione dalle catene karmiche.
Si diceva in principio che il punto di partenza dello Yoga era la constatazione della sofferenza. Il concetto del dolore universale (duhkha) e del suo superamento per mezzo dello Yoga è il leitmotiv di tutto il pensiero orientale. Ed è proprio il superamento del dolore, più che una generica tendenza al trascendente, che muove tutta la riflessione orientale sulla vita. Esso è connaturato alla natura umana, vuoi perché germina con la vita stessa, vuoi perché, come dicono i buddhisti, è la nostra mente che lo crea, vuoi perché ci viene procurato dagli altri esseri umani.
La ricerca del piacere non è l’antidoto al dolore, anzi lo ravviva, perché genera in continuazione il desiderio di essere raggiunto. E il desiderio contiene sempre una componente dualistica, di separazione tra il soggetto che desidera e l’oggetto che viene desiderato.
Stando a questa diagnosi sulla onnipervadenza del dolore si rende necessario trovare il mezzo per sradicarlo. Tale mezzo è lo Yoga.
Vediamo adesso i tre diversi tipi di sofferenza secondo l'analisi della filosofia Yoga:
a) duhkha-duhkha, la comune sofferenza, che deriva dalla nascita, la malattia, l’invecchiamento, la morte, la vicinanza con ciò che non si apprezza, la lontananza da ciò che si ama e il non riuscire a realizzare tutti i propri desideri;
b) viparinama-duhkha, la sofferenza come effetto del cambiamento, cioè la sofferenza che nasce dal sottile meccanismo per cui un fenomeno piacevole con il tempo tende a divenire spiacevole;
c) samskara-duhkha, la sofferenza che è connessa al nostro dipendere dai cinque aggregati psicofisici: la materia, la sensazione, la percezione, i fattori mentali e la coscienza. Esemplificando, alla maniera buddhista possiamo dire che «paradiso e inferno sono nella nostra mente».
Tuttavia questo universale dolore non sfocia mai in un pessimismo radicale di stampo nichilista, bensì dà il via a un sistema teorico e pratico di affrancamento. Il dolore è in un certo senso la molla che fa scattare nell’uomo un bisogno di crescita e riscatto. E’ assolutamente corretto intendere lo Yoga come una strategia esistenziale che ha come scopo primario quello di rendere la vita più tollerabile. La risposta al dolore, lo ripeto, è lo Yoga di cui, peraltro, il buddhismo è solo la più conosciuta e nobile variante [...] Il punto di partenza è la scoperta del dolore, come angoscia, noia, mancanza di autostima, depressione o perdita del senso della vita, ma anche come malattia, insonnia, mancanza di vitalità, tensione nervosa. Il punto di arrivo corrisponde a un nuovo stato in cui le sofferenze sono lenite e i contrasti ricomposti.
Ma lo Yoga non è una gnosi, non basta conoscere il dolore e gli elementi che lo provocano, per superarlo; ci vuole anche una tecnica. Quindi, accanto a uno sguardo filosofico e psicologico, lo Yoga prospetta anche elaborate tecniche psicofisiche.
Biografia
Si interessa soprattutto di pratica del corpo come luogo di realizzazione, di filosofia comparata, del rapporto fra mistiche orientali e occidentali. Da più di vent’anni si dedica allo studio e alla pratica della meditazione, muovendosi soprattutto tra Vipassana buddhista, Zazen e Yoga tantrico del Kashmir.
Ha seguito seminari di meditazione Zen presso il Temple Zen de la Gendronnière, il Plum Village di Thich Nhat Hanh e il monastero zen Antaiji (Giappone). Ha praticato meditazione Vipassana con John Coleman, Corrado Pensa, Stephen Batchelor, Ajhan Sumedho, ed ha approfondito alcune tradizioni yogiche: lo Yoga Integrale di Sri Aurobindo, il Vedanta Yoga e lo Sivananda Yoga.