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Comunità cristiana e malati psichici: problemi e sfide – Parte 1

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24/10/2012

Luciano Manicardi, monaco di Bose

Guida alla lettura

Quale lezione la debolezza ha da offrire alle comunità cristiane? Le comunità cristiane sono coscienti della ricchezza che le persone con disagi psichici possono costituire per loro? Sono le domande che si pone Luciano Manicardi in questo articolo profondo ed estremamente attuale. La comunità infatti, ripensandosi a partire dal punto di osservazione di questi malati, può ritrovare l’essenziale che la caratterizza e spogliarsi dai tanti elementi che oggi la appesantiscono e la distraggono, lasciandosi alle spalle le configurazioni devianti di “azienda” o di “macchina”.
Jean Vanier – la cui esperienza con persone portatrici di handicap psichici anche molto gravi è preziosa per configurare il rapporto fra comunità cristiana e malato mentale – ha scritto: «Bisogna che la Chiesa sia sempre costruita sul più povero, e non il povero come oggetto di carità, ma il povero che, in quanto presenza di Gesù e fonte di vita, può guarirci» (J. Vanier, «La force de la vulnerabilité», in Christus 178 [1998], p. 195). Eppure, troppo spesso anche nella Chiesa queste persone sono emarginate o temute o giudicate non necessarie o insignificanti, o tutt’al più curate come oggetti di carità. Mentre essere vicini a loro è una grazia e una benedizione.
Nella prima parte dell’articolo, Manicardi riflette dapprima sulla “medicalizzazione dell’esistenziale” che sembra dominare la nostra epoca, mentre è soprattutto la qualità delle relazioni umane ad essere «decisiva per il ritrovamento di un benessere o almeno di un assetto vivibile dell’esistenza». Poi illustra i limiti che le diverse comunità (familiare, sociale, ecclesiale) palesano nel rapportarsi con i malati psichici, e le situazioni in cui possono diventare esse stesse – prime fra tutte la Chiesa – fonte di sofferenza profonda.

(liberamente tratta dalla prefazione di L. Manicardi)
Premessa
Che atteggiamento hanno i cristiani verso le persone sofferenti nella psiche? Che responsabilità si assume la comunità cristiana in quanto tale? Come svolge, se lo svolge, il suo mandato di essere elemento essenziale per un percorso di assunzione e cura del sofferente? Si ha coscienza che la guarigione è anche fatto relazionale, che la qualità buona delle relazioni umane è decisiva per il ritrovamento di un benessere o almeno di un assetto vivibile dell’esistenza? Può essere utile ricordare che lo psichiatra inglese Maxwell Jones cercò di organizzare l’ospedale psichiatrico come una comunità terapeutica [1]. C’è in noi, nelle nostre comunità cristiane la disponibilità all’incontro e alla relazione con il malato e il sofferente psichico? La comunità cristiana ha coscienza di poter sviluppare potenzialità terapeutiche proprio in quanto luogo comunitario, relazionale, schola amoris, secondo l’espressione di san Bernardo?
Già formulare il problema del rapporto fra comunità e persone con handicap o sofferenze psichiche pone il dito su una grave piaga e su una malformazione ecclesiologica: non vi sono malattie che escludano dal far parte del corpo ecclesiale. Sano o malato, un cristiano è membro del corpo ecclesiale, ne è parte essenziale e irrinunciabile. Anzi, è portatore in sé di quella debolezza che lo rende somigliante al Crocifisso. Se dunque si deve affrontare questo rapporto come problema, significa che una malattia certamente c’è: ma si pone sul piano ecclesiale, sulla modalità con cui noi intendiamo e diamo forma concreta alle comunità cristiane.

Presenza dei malati, latitanza della comunità
Il tema propone una polarità: comunità cristiana e sofferenti psichici. I due termini del problema richiedono una riflessione preliminare. La presenza di persone afflitte da disagi, disturbi e malattie mentali è oggi ampiamente documentata e di proporzioni impressionanti. I livelli di gravità sono molto diversi, ma la realtà è di tali dimensioni da interpellare e scuotere le coscienze. Sappiamo bene che oggi le malattie della soggettività sono diffuse. Possiamo parlare di medicalizzazione dell’esistenziale: l’uso e l’abuso crescente di prodotti farmaceutici di sostegno quali sonniferi, tranquillanti, antidepressivi, è lì a mostrarlo. Sembra quasi che vivere sia una malattia. Occorre chiedersi: a chi pensiamo sentendo parlare di “sofferenti psichici”. Sempre e solo ad altri? Ai cosiddetti “matti”? La sofferenza psichica è dimensione che in maniere differenti, anche non patologiche, concerne ciascuno di noi.
Ma la mia domanda, provocatoria, verte invece sull’altro polo del problema: dov’è la comunità? E soprattutto dov’è o qual è la comunità che può aiutare un processo di guarigione? Non mi riferisco solo all’attenzione carente di fronte al problema specifico che stiamo trattando, che pure è indubbia, ma alla presenza e alla configurazione stessa della comunità cristiana come tale. In particolare, come si configura la comunità cristiana locale in rapporto al problema del disagio e della malattia mentale, tra i poli della comunità famigliare (e la cerchia affettiva di conoscenti, parenti, amici), delle istituzioni mediche e terapeutiche (il polo professionale tecnico della cura del malato) e della più ampia comunità civile e politica (il polo della convivenza sociale)? Questa domanda ci suggerisce di porre un’ulteriore riflessione preliminare e urgente per non cadere nei rischi della retorica sulla positività sempre e comunque dell’entità comunitaria e sulla sua possibilità di guarire. E ci dice come la presenza del malato, e del malato mentale, interpelli l’ecclesiologia, ma anche la fede e la spiritualità.

La comunità che produce sofferenti
La riflessione è questa: la comunità può produrre malattie, disagio psichico. Da un punto di vista sociologico, Marcel Gauchet ha mostrato come nel mondo disincantato, nel mondo che conosce il declino della presenza e dell’influenza degli dei e del divino, nel mondo che fa a meno di Dio, il soggetto sia sottoposto a uno sforzo psichicamente stressante per tentare di essere se stesso: “Il declino della religione si paga in difficoltà di essere se stessi… Siamo ormai costretti a vivere nella nudità e nell’angoscia ciò che ci fu più o meno risparmiato agli inizi dell’avventura umana grazie agli dei” [2]. Una iper-responsabilità di cercare di darsi un senso nella radicale solitudine, nella debolezza e fragilità dei legami, diviene schiacciante per l’uomo. Del resto, anche il ritorno di religiosità, di spiritualità, oggi eclatante, sembra spesso non uscire dalla stessa logica narcisistica, autocentrata, per nulla liberante, in definitiva patologica e, a mio parere, neppure cristiana.
Il clima culturale che traversa il mondo delle relazioni sociali, lavorative è contrassegnato da individualismo radicale, antagonismo, concorrenzialità. Nel mondo tecnologico i criteri di valutazione delle persone, che divengono anche i criteri di autovalutazione (ed eventualmente di svalutazione), sono funzionali ed esaltano la produttività e l’efficienza, non sollecitano la creatività, ma esigono esecutività precisa. È insomma una cultura che seleziona, e perciò esclude, crea primi e ultimi, produce emarginati e malati, deboli e perdenti. Certamente produce frustrati e illusi. Il quadro della comunità famigliare, pure luogo di affetti vitali, appare oggi talmente fragile ed esposto, che spesso manca della robustezza e saldezza necessarie, oltre che delle competenze, per poter aiutare il famigliare che vive un disagio o una malattia psichica. Senza calcolare che spesso deve saper mettere in atto misure di difesa per non essere travolta dall’ingestibilità della malattia. E senza calcolare ancora che spesso proprio la famiglia è l’alveo dell’insorgere di disturbi e malattie psichiche. E lì certo si pone l’esigenza di un rapporto comunità cristiana – famiglie in cui la prima sappia essere sostegno e aiuto concreto alla seconda.
Ma soprattutto anche la comunità cristiana deve sapersi vedere come luogo che sa creare malattia, disagio, sofferenza psichica. Deve dunque operare un’autocritica e saper riconoscere che si può strutturare in maniere tali che aiutano l’insorgere di sofferenze psichiche:
- quando è luogo burocratizzato, efficiente, organizzativo, efficace, ma dimèntico dell’attenzione da dare al piano umano, all’ascolto delle persone, all’educazione alla parola, alla formazione alla libertà e alla responsabilità, alla verità e all’autenticità, anch’essa può produrre esclusioni, e dunque sofferenze, ferite che divengono difficilmente rimarginabili.
- quando la comunicazione all’interno della comunità e i suoi toni non sono evangelici o semplicemente civili, allora possono nascere ferite e sofferenze; quando i rapporti autorità-fedeli sono traversati da logiche di potere e da personalismi, possono avvenire oppressioni e abusi psicologici, fino a suscitare dipendenze o produrre rigetti; quando i rapporti tra le diverse componenti e articolazioni della comunità sono solcati da gelosie e rivalità possono nuovamente insorgere dinamiche di esclusione, di scarto, psicologicamente pesanti; quando la direzione spirituale, la confessione o la predicazione suscitano ingiuste colpevolizzazioni; quando si vive in climi di paura, di libertà a scartamento ridotto, di non limpidezza, quando si verificano casi di abuso spirituale [3] o di abuso fisico e sessuale, allora anche la comunità cristiana crea malattia e disagio psichico.
In particolare mi pare utile ricordare la responsabilità della parola all’interno della comunità (come all’interno di ogni relazione interpersonale e sociale). Può essere espressa con le parole di Hans Georg Gadamer: “Appartiene alla più grande responsabilità del parlare il fatto che la parola pronunciata non possa più essere richiamata indietro. La parola pronunciata appartiene a colui che la ode” [4]. E noi sappiamo bene come la parola può ferire, uccidere, conficcarsi come una dolorosa spina nella memoria e nella mente dell’altro.
La riscoperta della valenza terapeutica della fede deve pertanto accompagnarsi ad una certa compaginazione della comunità cristiana in cui siano al centro alcune dimensioni essenziali che le consentano di essere comunità secondo il vangelo.

Note dell'Autore

1) Cf. H. I. Kaplan – B. J. Sadock, Manuale di psichiatria, EdiSES, Napoli 1993, p. 145
2) M. Gauchet, Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, Einaudi, Torino 1992, p. 303
3) D. Johnson – J. Van Vonderen, Le pouvoir subtil de l’abus spirituel. Comment reconnaître la manipulation et la fausse autorité spirituelle dans l’Église et comment y échapper, Jaspe, Magog (Québec) 1998
4) H.-G. Gadamer, La responsabilità del pensare. Saggi ermeneutici, Vita e Pensiero, Milano 2002, p. 58

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi e, dal 2009, Vice Priore.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.

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