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Il coraggio di ricominciare: riflessione su Giovanni 5, 1-9a

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16/05/2018

Liberamente tratto da:
Emanuele di Bose, Il rischio di ricominciare, monasterodibose.it/preghiera/vangelo-del-giorno/12238-il-rischio-di-ricominciare

Guida alla lettura

Questa meditazione di fratel Emanuele, monaco di Bose, ci accompagna ancora una volta alla scoperta della vera essenza della compassione e della solidarietà, e lascia un importante messaggio di speranza a tutti noi, donne e uomini spesso gravati dalla fatica di vivere. Il breve ma densissimo brano contiene quattro quadri che chiariscono in modo limpido il senso di questo episodio della vita di Cristo.
Primo: la sofferenza non è solo dolore, ma anche durata del dolore – una durata talvolta apparentemente senza fine – e solitudine nel dolore. L’uomo che Gesù guarisce era paralizzato da trentotto anni, e nessuno lo aiutava a immergersi nella piscina che il popolo credeva miracolosa. Non era solo un malato: era un escluso, un essere dimenticato da tutti.
Secondo: la cura inizia quindi sempre dall’attenzione, dal saper vedere l’altro, e dal coraggio di chinarsi sulla sua fragilità. La tecnica, l’organizzazione, le risorse vengono dopo: prima di tutto conta la relazione che si viene a creare fra due soggettività distinte, ma legate dalla comune esperienza del dolore.
Terzo: il recupero della salute, paradossalmente, ci espone al rischio di ricominciare. Per questo Gesù fa al paralitico quella strana domanda: «Vuoi guarire?». Chi si sognerebbe di rispondere di no? Eppure la guarigione sollecita anche la nostra responsabilità, ci obbliga a uscire da un copione che a volte può diventare rassicurante: lo sperimenta soprattutto chi esce da un tunnel di sofferenza psicologica, quando la vita gli si riapre davanti seducente ed esigente. Chi guarisce deve ricostruire il proprio mondo, deve tornare a camminare con le proprie gambe, non può più dipendere passivamente dagli altri. Come sempre il vangelo, se letto con intelligenza spirituale, ci mostra una visione del mondo tutt’altro che edulcorata.
Quarto: «Voglio guarire?» è la domanda che ciascuno di noi può porsi e a cui è chiamato a dare risposta, per lasciarsi alle spalle la paralisi del dolore e dell’incompiutezza, per andare finalmente «incontro alla vita». E se la nostra vecchia barella resta accanto a noi, non è per limitare la ritrovata libertà, ma per mantenere vivo in noi il ricordo del dolore patito e far sì che si trasformi in attenzione per gli altri, in solidarietà attiva e discreta.
La presenza di Gesù e la sua parola costituiscono un’interruzione nel continuum di una vita e di una biografia segnata per anni dalla malattia.
La paralisi immobilizza un’esistenza, la pietrifica, facendo del malato quasi una concrezione scultorea inglobata al porticato della piscina del tempio. Nel contempo, la solitudine dell’infermo – che non ha chi lo aiuti ad immergersi in quelle acque, ritenute risananti a motivo della discesa di un angelo che vi imprimeva un movimento salvifico per chi vi si bagnava per primo – ne fa un marginale, un escluso, un mendicante.
Gesù ha occhi per scorgere la condizione di umiliata impotenza di quel paralitico, vede l’isolamento di quell’uomo e ha coscienza della durata logorante di un male che sembra destinato a non avere fine. La cura inizia sempre dall’attenzione, dal saper vedere, dal lasciarsi toccare dalla ferita dell’altro e dal coraggio di chinarsi su quella fragilità.
«Vuoi guarire?»: Gesù pone una domanda, affinché l’anelito alla salvezza di quel paralitico si faccia voce e ammissione esplicita, come a ricordarci che, a volte, indugiamo in una passività seducente, nel non voler guarire, perché in fondo il nostro malessere è divenuto – in un certo senso – “rassicurante”, nella dipendenza da altri, nell’accudimento: la guarigione, paradossalmente, ci espone al rischio di ricominciare, alla necessità di gestire la nostra autonomia, di uscire dalla dipendenza, di impegnarci in prima persona in un lavoro. Cristo risveglia la nostra collaborazione, il nostro coraggio di ricominciare, di osare, di inaugurare un nuovo inizio. Poi Gesù dà compimento a quel desiderio, superando anche l’ostacolo del “primato” dell’immersione: senza bisogno che l’infermo entri nelle acque della piscina, con l’istantaneità di una parola efficace, Gesù richiama quel malato alla postura eretta, gli ridona la capacità di camminare e gli restituisce una dignità perduta.
«Àlzati, prendi la tua barella e cammina». “Àlzati!” (égheire) è un verbo pasquale, che ricolloca quell’uomo nella compagnia dei sani, di quanti sono nel vigore delle forze e godono della possibilità di un agire autonomo, di camminare sulle proprie gambe. (…)
Così, nella luce pasquale, ciascuno di noi vorrebbe sentirsi ripetere quell’invito a risorgere: «Àlzati e cammina!», per destarci dei nostri torpori, dalle nostre trame di paura, di sconfitta, di paralisi, di sofferenza, per ricominciare a camminare, per riscoprire il senso e la direzione dei nostri passi, per uscire dalla nostra immobilità, per andare incontro alla vita, trascinando dietro di noi la nostra barella, memoria del nostro passato di infermità, ormai inutile.

Il brano del Vangelo di Giovanni

In quel tempo ricorreva una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, vi è una piscina, chiamata in ebraico Betzatà, con cinque portici, sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. Si trovava lì un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: «Vuoi guarire?». Gli rispose il malato: «Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me». Gesù gli disse: «Àlzati, prendi la tua barella e cammina». E all'istante quell’uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare.

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