Guida alla lettura
Partiamo da un dato di esperienza comune alla vita di molti cristiani: il peccato viene vissuto come la violazione di un regolamento, e il pentimento come una fredda auto-accusa in vista dell’assoluzione impartita da un’autorità istituzionale. Questo, nell’inevitabile riproporsi delle situazioni, può generare stanchezza e frustrazione; e in certi casi, insolubili da un punto di vista rigidamente giuridico, l’impossibilità del perdono e del reintegro nella comunità dei credenti. Il dolore e la solitudine che queste situazioni possono comportare sono noti a chiunque si faccia prossimo alle persone che ne sono vittime.
Schmemann sovverte completamente i termini della questione: il peccato è innanzitutto una contraddizione alla vocazione alla felicità, e il pentimento è un ritorno dall’esilio, in cui il sentimento di lontananza da Dio è di intensità pari alla disponibilità di questi a riaccogliere fra le braccia il figlio un tempo perduto. Nulla di aridamente giuridico in tutto ciò, ma qualcosa di profondamente umano che disarma il potere delle religioni e abbatte gli steccati fra puri e impuri, perfetti e peccatori. Dove, beninteso, purezza e perfezione non hanno alcun fondamento nella realtà delle cose umane, ma esistono solo nello spazio della presunzione religiosa.
Da una visione di questo tipo scaturisce, per il credente, una visione ben più luminosa del nostro essere al mondo – siamo chiamati alla gioia, all’amore e alla conoscenza – e del nostro rapportarci alla Realtà che ci ha chiamati alla vita. Ma anche per chi non crede, quella vocazione alla gioia, all’amore e alla conoscenza rappresenta un’istanza forte, una base sicura su cui costruire la propria esistenza e le relazioni che le conferiscono senso e sapore, contro la potenza sempre minacciosa del “paese lontano” in cui si annidano le nostre paure e le ferite del nostro cuore.
Il pentimento è spesso identificato semplicemente con un’enumerazione fredda e “oggettiva” di peccati e trasgressioni, con la “confessione di colpevolezza” dinanzi a un’accusa legale. Confessione e assoluzione sono visti come atti di natura giuridica. Ma si dimentica una cosa essenziale, senza la quale né la confessione né l’assoluzione hanno il minimo significato reale o la minima efficacia: il sentimento di alienazione da Dio, dalla gioia della comunione con lui, dalla vera vita che è creata e donata da lui. E’ facile, in effetti, confessare che non ho digiunato nei giorni prescritti, che ho dimenticato le mie preghiere o che mi sono arrabbiato. Tutt’altra cosa, invece, il rendermi improvvisamente conto che ho deturpato e perduto la mia bellezza spirituale, che sono ben lontano dalla mia vera dimora, dalla mia vera vita, e che qualcosa di prezioso, di puro e di bello è stato irrimediabilmente rotto nella trama stessa della mia esistenza. Eppure questo, e solo questo, è il pentimento, e perciò esso è anche un desiderio profondo di ritornare, di operare un’inversione di marcia, di ritrovare la casa perduta. Ho ricevuto da Dio ricchezze meravigliose: innanzitutto la vita e la possibilità di goderne, di darle un senso, di riempirla di amore e di conoscenza; poi, nel battesimo, la vita nuova di Cristo stesso, il dono dello Spirito santo, la pace e la gioia del regno eterno. Ho ricevuto la conoscenza di Dio, e in lui la conoscenza di ogni altra cosa e il potere di essere un figlio di Dio. E tutto questo, io l’ho perso: tutto questo lo perdo continuamente, non solo nei “peccati” e nelle “trasgressioni” particolari, ma nel peccato di tutti i peccati: sviando il mio amore da Dio, preferendo il “paese lontano” alla bellezza della casa del Padre.
Nella liturgia della Chiesa d’oriente, nel mattutino della domenica del figlio prodigo si canta il salmo 137, triste e nostalgico, il salmo dell’esilio. Gli ebrei lo cantavano durante la loro prigionia a Babilonia, pensando a Gerusalemme, la loro città santa. E’ diventato per sempre il canto dell’uomo che si rende conto del suo esilio lontano da Dio e che, rendendosene conto, ridiventa uomo: un essere che non può sentirsi pienamente appagato da nessuna cosa in questo mondo decaduto, perché è, per natura e vocazione, un pellegrino dell’Assoluto.