Guida alla lettura
Oltre a Leopardi, il componimento riecheggia molte altre pagine della nostra storia letteraria: l’incantata descrizione dell’aurora ci fa pensare alle liriche di Torquato Tasso (si pensi alla ballata “Ecco sparir le stelle”) e all’identità, in lui perfetta, fra paesaggio e stato d’animo; la descrizione della natura ricorda certi limpidi quadri di Ugo Foscolo; l’amaro accenno al fuggire della giovinezza riprende quasi testualmente il “Trionfo di Bacco e Arianna” di Lorenzo de’ Medici; il fluire ininterrotto delle immagini, rafforzato dai frequenti enjambement, richiama l’onda musicale che caratterizza i raffinatissimi sonetti di Giovanni Della Casa.
La compattezza del dire è rafforzata dal ricorrere di alcune fondamentali parole chiave: “luce”, soprattutto, la cui suggestione visiva è replicata in “riluce” e moltiplicata dai significanti correlati per accordo o per contrasto semantico (bianchi, chiare, luminosi, raggi del sole; oscure, giorni grigi); e dalle iterazioni che spesso producono seducenti effetti di rima: ancora la luce, e poi sole, gioco, volere, manca, vuoto, aspetta, ore lente – sempre parole non neutrali rispetto all’ideologia del componimento. A tratti, l’ossessivo e martellante ritorno di certi termini crea un effetto allucinato da sestina lirica, la mirabile forma poetica creata nel dodicesimo secolo dal trovatore provenzale Arnaut Daniel, ripresa da Dante e Petrarca, e poi da Cino Rinuccini, dal Sannazaro, da Pietro Bembo, dagli stessi Tasso e Magnifico, e infine da Carducci, D’Annunzio, Ungaretti.
Ci troviamo dunque di fronte a un poeta molto giovane, ma dotato di una straordinaria consapevolezza tecnica e storica, capace di una retorica mai puramente esornativa, ma essenziale all’espressione compiuta del pensiero. E ai giovani di ogni tempo parlano i suoi versi immortali: l’adolescenza è una stagione preziosa e sfuggente, nella quale è bello fare spazio all’amore e alla speranza, ma in cui è altresì decisivo imparare a conoscere se stessi, per scegliere con sicurezza la direzione del proprio cammino nel corso rapido della vita, e gioire così di un’esistenza produttiva, autonoma, autentica.
invade la natura senza luce
che per pioggia e per nebbia si dissolve
e delle nubi oscure la continua
trama dirompe, e la diffusa nebbia
leva ed in lembi bianchi la sospinge
giocosamente;
e ride il sole volto ad occidente
ed i monti lontani e le colline
boscose e la pianura
risuscita ugualmente illuminando
nella lor gloria varia
delle ben note forme all’abitante.
Ma splendono più chiare e più serene
festevolmente,
poiché più luminosi si rimandan
i generosi a lor raggi del sole.
Riluce il monte e il piano
e il ciel riluce
di verde luce presso all’orizzonte,
e in alto nell’azzurro
l’ultime nubi fuggono ed il sole
con lieto riso
tinge di rosa gli orli alle fuggenti.
Ahi! come tutta la natura in breve
si rasserena
nella pacata luce,
e la pena passata e il lungo tedio
dei giorni grigi oblia: ché solo a gioco
s’era offuscata: ed or con nuovo gioco
si rinnovella
e rifulge più pura.
Ma il cor mi punge con tristezza amara
che il dì ripensa della gioia
e l’alba luminosa e la speranza
folle e sicura, quando
con lieto viso incontro al nuovo sole
levai il primo canto, e la sua luce
era certa promessa alla mia speme
– e le dolci figure del mio sogno
che appena avvicinate dileguaro
tristi, perch’io ver lor fervidamente
mi protendessi
e in me le volessi, me stesso in loro
tutto esaurire.
Voler e non voler per più volere
mi trattenne sull’orlo della vita
ad angosciarmi in aspettar mia volta
ed ai giuochi d’amore ed alle imprese
giovanili mi fece disdegnoso.
– A qual pro? Ma alla veglia dolorosa
una fiamma splendeva e la nutriva
una speme più forte.
Ché se al lieto commercio e del piacere
al giocondo convito l’imperioso
battere mi togliea del mio volere
impaziente, e mi togliea ’l fatale
precipitar dell’ora, nel futuro
pur m’indicava la mia ferma fede
un giorno ed una gioia senza fine
e l’affrettava.
Ahi, quanto pur m’illuse la mortal
mia vista che di fuor ci finge certo
quanto ci manca sol perché ci manca –
«vuoto il presente, vuoto nel futuro
senza confini ogni presente, placa
il voler tuo affannoso!
non chieder più che non possa natura!».
Ma il cor vive, e vuole, e chiede e aspetta
pur senza speme, aspetta e giorno ed ora
e giorno ed ora né sa che s’aspetta
e inesorabilmente
passano l’ore lente.
Così è fuggita e fugge giovinezza
ed i miei sogni e la speranza antica
nel mio cupo aspettar ancor ritrovo
insoddisfatti.
Che mi giova o natura luminosa
l’armonia del tuo gioco senza cure?
Ahi, chi il tuo ritmo volle preoccupare
rientrar non può nei tuoi eterni giri
ad ozïare
nel lavoro giocondo ed oblïoso.
E’ suo destino attender senza speme
né mutamento,
vegliando, il passar de l’ore lente.
Dicembre 1909
(antivigilia dell’anno nuovo)
Biografia
Dopo aver ottenuto il diploma allo Staatsgymnasium goriziano nel luglio del 1905, Michelstaedter si reca a Firenze, nell’ottobre seguente, per trascorrervi un periodo da dedicare prima di tutto alla passione per l’arte. A Firenze, però, finirà per trattenersi ben più a lungo del previsto. Frequenta l’Accademia di belle arti e, soprattutto, si iscrive ai corsi di lettere dell’Istituto di studi superiori.
Inizia così, per il giovane Carlo, un quadriennio di intense esperienze intellettuali ed esistenziali, vissute principalmente a Firenze, ma anche a Gorizia e a Pirano, località dell’Istria nella quale trascorre parte delle vacanze estive dal 1908 al 1910.
Da un lato, vi sono le numerose letture e, in particolare, l’incontro con l’opera di alcuni autori che risulteranno decisivi nella sua formazione così come nel determinare taluni orientamenti del suo pensiero. All’iniziale infatuazione per Giosue Carducci e Gabriele D’Annunzio (che contribuiscono ad alimentare in lui un ideale eroico di vita e creazione artistica), fa seguito il più meditato interesse per Giacomo Leopardi, Lev Tolstoj ed Henrik Ibsen (oltre che per i tragediografi greci, i Vangeli e la musica di Ludwig van Beethoven). Sul piano più squisitamente filosofico, profonda è l’influenza dei presocratici (Parmenide, Eraclito, Empedocle) e del Platone “socratico”, mentre controverso è il rapporto con Arthur Schopenhauer: pur essendo, in larga misura, debitore nei confronti della sua filosofia, Michelstaedter prende tuttavia le distanze dal suo “imperfetto” pessimismo.
Dall’altro lato, vanno ricordati diversi momenti che segnano in maniera indelebile l’esistenza di Carlo. Anzitutto, l’ardente amicizia con Nadia Baraden, un’esule russa alla quale dà lezioni di italiano all’inizio del 1907 e che prima di suicidarsi gli scrive lettere il cui contenuto è stato recentemente rivelato da Sergio Campailla in un saggio per l’editore Marsilio. Poi, nella primavera dello stesso anno, l’amore per la compagna di studi Jolanda De Blasi: osteggiato dai genitori, avrà breve durata ma rappresenta comunque, per lui, un passaggio cruciale, dai risvolti non esclusivamente sentimentali. Ancora, la morte del fratello Gino nel febbraio del 1909, che mette a durissima prova il suo equilibrio emotivo. Infine, nell’estate del 1910, la relazione con la goriziana Argia Cassini, che ispira sia “I figli del mare” che “A Senia”, i due capolavori della sua produzione poetica. Né si devono dimenticare gli amici più cari: a Firenze, i compagni di studi Gaetano Chiavacci e Vladimiro Arangio-Ruiz, futuri editori delle sue opere ed esponenti di rilievo della cultura filosofica italiana del Novecento; a Gorizia, Enrico Mreule e Nino Paternolli. Il legame più significativo è senz’altro quello con Mreule, figura dalla personalità assai complessa (su di lui scrive Claudio Magris in “Un altro mare”, 1991), che Michelstaedter vede a un certo punto come colui che ha saputo realizzare l’ideale di vita e di pensiero al quale egli stesso avrebbe desiderato conformarsi.
Nel giugno del 1909, dopo avere sostenuto tutti gli esami previsti dal suo corso di studi presso l’Istituto fiorentino, Michelstaedter ritorna a Gorizia per lavorare alla stesura della tesi di laurea (“La persuasione e la rettorica”). La completa nell’autunno dell’anno seguente e, poco dopo averla inviata a Firenze, il 17 ottobre 1910 si toglie la vita sparandosi con una rivoltella.
L’opera di Michelstaedter è, di fatto, interamente postuma. Ed è, questo, un dato che deve essere sempre tenuto presente. Siamo cioè di fronte a un corpus letterario e filosofico che non ha mai assunto una forma definitiva in vista della stampa, ma che è rimasto invece allo stato di annotazione, di scrittura privata, di documento epistolare o, nel caso della tesi di laurea e delle tesine di passaggio d’anno compilate da Michelstaedter nel 1906, nel 1907 e nel 1908, di elaborati da presentare in un contesto accademico. E tuttavia si tratta di testi di una forza e di una densità straordinarie, che anticipano per molti versi alcuni dei momenti più alti della filosofia europea del Novecento. Né, peraltro, il suo contributo si esaurisce nella produzione di carattere specificamente letterario e filosofico. Egli fu anche autore, infatti, di una cospicua serie di dipinti e soprattutto di disegni che costituiscono, a tutti gli effetti, parte integrante della sua opera e sono stati ormai unanimemente riconosciuti in tutto il loro valore.
Ma, certamente, Michelstaedter è anzitutto poeta e filosofo. Sul versante lirico, ha lasciato dei componimenti di varia ispirazione e diverso spessore. Se le poesie dei primi anni risentono in modo evidente di suggestioni petrarchesche, carducciane, dannunziane e – in particolare – leopardiane, quelle dell’ultimo periodo, dal “Canto delle crisalidi” e “Onda per onda batte sullo scoglio” a “I figli del mare” e “A Senia”, raggiungono viceversa un notevole grado di originalità e – ciò che più conta – riescono a tradurre in versi, con esiti di indiscutibile pregio, i contenuti più profondi della riflessione teorica. Sul versante filosofico, vanno sicuramente menzionati sia i taccuini, gli appunti di lavoro, gli scritti narrativi e quelli d’occasione, nei quali compaiono spesso argomenti e motivi che non si ritrovano nei testi maggiori, sia un gruppo di brevi composizioni a struttura dialogica, tra le quali spiccano il “Dialogo tra Carlo e Nadia”, in cui gli spunti di carattere autobiografico si intrecciano con la meditazione sui temi della libertà e del bisogno, e il “Dialogo tra Diogene e Napoleone”, che si risolve in una discussione problematica della prospettiva filosofica dello stoicismo antico. Né si deve dimenticare il ricco epistolario, assai prezioso sia ai fini della ricostruzione biografica, sia perché in molte lettere trovano spazio delle vere e proprie digressioni di natura concettuale.
I testi più importanti sono però, senza alcun dubbio, “Il dialogo della salute” (1910) e “La persuasione e la rettorica” (1910). Il primo, attraverso una conversazione immaginaria tra i personaggi di Rico e Nino (gli amici Mreule e Paternolli, secondo un artificio narrativo di ascendenza umanistica), mette in scena una controversia, di stampo inequivocabilmente socratico-platonico, che ha per oggetto le contraddizioni della condizione umana, costitutivamente sospesa tra la vita e la morte e, al contempo, perennemente in bilico tra il richiamo del piacere, le costrizioni della società e l’anelito a una forma superiore di esistenza. Il secondo è, come abbiamo visto, la tesi di laurea, capolavoro di Michelstaedter, nella quale egli illustra, utilizzando tra l’altro una grande varietà di stili e di moduli espressivi, la propria concezione filosofica, che vede l’uomo di fronte a una drammatica alternativa: l’autenticità della via alla “persuasione” o l’inautenticità del mondo della “rettorica”.
Liberamente tratta da:
Carlo Michelstaedter
di Fabrizio Meroi - Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Filosofia (2012) - Treccani.it
Leggi il profilo completo di Carlo Michelstaedter su Treccani.it