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Al tramonto della vita: lo sguardo degli ultimi istanti

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24/07/2019

Tratto da:
Emily Dickinson, Poesie, a cura di Barbara Lanati, traduzione di Margherita Guidacci, Bur Rizzoli, 2017

Guida alla lettura

Questa splendida lirica di Emily Dickinson racconta il dramma della solitudine che spesso accompagna il morente. Si può essere circondati da persone amate, dice la poetessa, ma nulla e nessuno può soddisfare l’affanno che, negli ultimi istanti, anima gli occhi alla ricerca di qualcosa – un oggetto, un volto, un ricordo – che renda ancora una volta felici.
Ma questa ricerca infruttuosa può essere anche metafora della vita. Quante volte desideriamo con tutto il cuore qualcosa che non riusciamo a raggiungere e che gli altri non possono, o non vogliono, darci? Può trattarsi di un amore a lungo sognato, della sete di infinito, della passione per il sapere, della quiete dopo una lunga angoscia: i nostri occhi si volgeranno intorno, per poi chiudersi sull’assenza.
Lo stile della Dickinson, come sempre, è semplice e quotidiano: nessun cultismo, nessun arcaismo intervengono a innalzare un respiro poetico già altissimo, uno dei più grandi del diciannovesimo secolo. Qui però, più che altrove, c’è la descrizione precisa dei gesti che svelano le emozioni, un’operazione di squisito cesello che narra, con precisione quasi clinica, i momenti finali di una vita: gli occhi morenti si volgono, cercano, si velano, si fanno oscuri di nebbia, infine si sigillano. Traspare un’esperienza diretta di quegli attimi finali: «Ho visto…». Il cordoglio per questa creatura poetica, eppure così viva e vera, è inevitabile. E ci assale il rimpianto per ciò che è stato, e non sarà più; per ciò che avrebbe potuto essere, e non potrà più avvenire.
Ho visto occhi morenti
volgersi attorno a una stanza senza
posa, cercando
qualcosa, poi velarsi,

farsi oscuri di nebbia,
e sigillarsi infine
senza avere svelato quale vista
li avrebbe resi felici.

Biografia

«Mi piace il volto dell’agonia perché so che è sincero». Questa affermazione, asciutta e spietata, rende immediatamente cara alle nostre lettrici Emily Dickinson, tra le poetesse più lette dell’Ottocento romantico americano, una vita priva di eventi esteriori, tutta essere e niente apparire, culminata dopo i trent’anni in un volontario isolamento nella casa paterna.
Nata nel dicembre 1830 ad Amherst, Massachusetts, secondogenita di Edward Dickinson, avvocato che diventerà deputato al Congresso di Washington, prende lo stesso nome della madre, Emily Norcross, dalla personalità fragilissima: e ancora oggi i biografi s’interrogano su quanto questa scelta abbia influito nell’elaborazione della personalità della Emily figlia e poetessa, che già a 23 anni inizia a isolarsi.
Compie studi essenzialmente da autodidatta, dopo che il padre l’aveva ritirata da scuola ai tempi delle superiori. Nel 1852 conosce un’altra poetessa, Susan Gilbert, che diventa sua cognata dopo avere sposato il fratello maggiore, Austin. Matrimonio che le farà fare un importante incontro: con Ralph Emerson, tra i più influenti filosofi e scrittori americani.
Grazie a questa “liason” Emily conosce Samuel Bowles, direttore dello Springfield Daily Republican, un quotidiano che nel 1861 – anno in cui in Italia nasce la lira e si proclama l’Unità del Regno, e negli Stati Uniti diventa presidente Abraham Lincoln – pubblica per la prima volta alcune sue poesie. A poco a poco la casa dei Dickinson diventa il centro culturale del piccolo paese, e in questa atmosfera di effervescenza intellettuale Emily inizia a scrivere. Da qui in poi aumenta la produzione letteraria in versi ed esplode l’ispirazione nel senso più romantico del termine, perché stilisticamente parlando è al Romanticismo che la poesia di Emily Dickinson appartiene.
In questi anni compone circa quattrocento liriche, nonostante gran parte dei versi rimangano nel cassetto: la fama – e dunque le riflessioni della critica sul valore della sua poesia – sarà quasi tutta postuma. A questo contribuisce Thomas Wentworth Higginson, giornalista e scrittore, al cui giudizio Emily sottopone un centinaio di poesie, che tuttavia Higginson, pur intuendone il valore, le sconsiglia di pubblicare: il vero motivo non è noto, ma è probabile che nella società americana dell’epoca, segnata dalle rigidità religiose protestanti, risultasse sconveniente che una donna scrivesse in modo così libero e aperto delle proprie inquietudini.
I lutti iniziano a colpire la famiglia: muoiono il padre, la madre, il nipote. Dal 1864 Emily si chiude in modo totale nella sua stanza: rifiuta di vedere estranei, veste solo di bianco, e dà sfogo al suo dolore interiore nelle poesie e nelle lettere. Nel 1885 si ammala. Muore il 15 maggio 1886, a 56 anni, nella casa di Amherst, senza essersi mai allontanata dal paese eccetto brevi viaggi. E’ la sorella Vinnie a scoprire i suoi versi nascosti e a quel punto iniziano varie pubblicazioni, sino all’edizione critica completa del 1955, che comprende 1775 poesie.
L’Enciclopedia Treccani, nella sua essenzialità, ci aiuta a capire il mondo interiore di questa autrice: «La tematica della poesia dickinsoniana è senza zone intermedie: dalle piccolissime cose della vita quotidiana che rappresentano la cornice esterna della sua esistenza, ai grandi temi della vita dell’anima (amore, morte, eternità) che ne rappresentano le angosce essenziali e permanenti e che acquistano effettiva dimensione lirica nel dominante tema della solitudine, che si risolve in stato di sospensione e paura, senso di esclusione ed esasperata consapevolezza della fragilità del reale».
(A cura di Pino Pignatta)
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