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La vera amicizia: un privilegio e una responsabilità

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La vera amicizia: un privilegio e una responsabilità
14/09/2022

Tratto da:
Emily Dickinson, Poesie, a cura di Barbara Lanati, traduzione di Margherita Guidacci, Bur Rizzoli, 2017

Guida alla lettura

In questa lirica scandita da ripetizioni quasi ossessive, ritmata come uno scongiuro, la poetessa americana Emily Dickinson spiega perché non si deve dimenticare, ferire, tradire un amico. In punto di morte l’amico tradito, ferito, dimenticato rammenterà i tempi della gioia comune, cercherà il nostro sguardo, invocherà il nostro conforto: e se non ci saremo, o arriveremo troppo tardi, meglio sarà per noi esser già morti, perché se il cuore si spezzasse allora, per il rimorso e il rimpianto, sarebbe troppo tardi, sarebbe «vano come il nuovo sole / dove il gelo notturno si è adagiato».
La traduzione in italiano, bellissima ed essenziale, sceglie di non cogliere le iterazioni che scandiscono le parole di Emily (Because - because; That hunted, hunted so; They “noticed” me - they noticed me; So sure I’d come - so sure I’d come; It listening, listening; Since breaking then, since breaking then) e che danno l’idea di una corsa a perdifiato per arrivare in tempo al capezzale del morente, ma anche l’affanno che prende il cuore di fronte a un’ipotesi tanto amara da lasciare sgomenti. Anche la triplice anafora (I should; If I should; If I should) esprime con grande evidenza il no di Emily a tanto dolore, al senso così lacerante del non-più, del troppo-tardi. E l’ultima quartina, implacabile come una sentenza, esprime con forza il sentimento del tempo trascorso invano e ormai irrecuperabile, al punto di rendere preferibile la propria morte a quella dell’antico sodalizio.
Ma questa poesia non ci insegna soltanto che l’amicizia è inviolabile: proprio nel momento in cui si appella alla nostra responsabilità, chiarisce anche che è un sentimento selettivo, esigente. L’amicizia non è uno scherzo, un passatempo passeggero, una scelta priva di conseguenze. Ognuno di noi è chiamato a rispondere dei propri amici ed è tenuto a cercare l’amicizia di coloro che sono capaci di un sentire alto, di una condivisione autentica, di vero amore. Ecco perché le “amicizie” superficiali dei social tracciano non di rado il solco amaro della solitudine; perché il volto di un amico creduto tale può trasformarsi in quello dell’assassino del corpo e dell’anima; perché il gruppo non abitato da empatia e rispetto può diventare il “branco” che artiglia e brutalizza. In un’epoca come la nostra, caratterizzata nonostante tutto da enorme ricchezza di orizzonti e sconcertanti paralisi del cammino, soprattutto fra i giovani, tornare a coltivare l’impareggiabile dono dell’amicizia, nel suo senso autentico, è imperativo morale e urgenza esistenziale: per non lasciare soli, per non restare soli.

Il testo

   Non oserei abbandonare un amico,
perché, se lui morisse
durante la mia assenza e troppo tardi
quel cuore raggiungessi a cui mancai;
   se deludessi gli occhi
che tanto si sforzarono a cercarmi,
e non potevano accettar di chiudersi
prima di avermi vista;
   e se ferissi la paziente fede,
così sicura della mia venuta
che il sonno la sorprese nell’ascolto,
mentre il mio pigro nome pronunziava,
   io vorrei che il mio cuore si fosse già spezzato,
perché spezzarsi allora
sarebbe vano come il nuovo sole
dove il gelo notturno si è adagiato.

   I should not dare to leave my friend,
Because - because if he should die
While I was gone, and I - too late -
Should reach the heart that wanted me;
   If I should disappoint the eyes
That hunted, hunted so, to see,
And could not bear to shut until
They “noticed” me - they noticed me;
   If I should stab the patient faith
So sure I’d come - so sure I’d come,
It listening, listening, went to sleep
Telling my tardy name,
   My heart would wish it broke before,
Since breaking then, since breaking then,
Were useless as next morning’s sun,
Where midnight frosts had lain!

Biografia

«Mi piace il volto dell’agonia perché so che è sincero». Questa affermazione, asciutta e spietata, rende immediatamente cara alle nostre lettrici Emily Dickinson, tra le poetesse più lette dell’Ottocento romantico americano, una vita priva di eventi esteriori, tutta essere e niente apparire, culminata dopo i trent’anni in un volontario isolamento nella casa paterna.
Nata nel dicembre 1830 ad Amherst, Massachusetts, secondogenita di Edward Dickinson, avvocato che diventerà deputato al Congresso di Washington, prende lo stesso nome della madre, Emily Norcross, dalla personalità fragilissima: e ancora oggi i biografi s’interrogano su quanto questa scelta abbia influito nell’elaborazione della personalità della Emily figlia e poetessa, che già a 23 anni inizia a isolarsi.
Compie studi essenzialmente da autodidatta, dopo che il padre l’aveva ritirata da scuola ai tempi delle superiori. Nel 1852 conosce un’altra poetessa, Susan Gilbert, che diventa sua cognata dopo avere sposato il fratello maggiore, Austin. Matrimonio che le farà fare un importante incontro: con Ralph Emerson, tra i più influenti filosofi e scrittori americani.
Grazie a questa “liason” Emily conosce Samuel Bowles, direttore dello Springfield Daily Republican, un quotidiano che nel 1861 – anno in cui in Italia nasce la lira e si proclama l’Unità del Regno, e negli Stati Uniti diventa presidente Abraham Lincoln – pubblica per la prima volta alcune sue poesie. A poco a poco la casa dei Dickinson diventa il centro culturale del piccolo paese, e in questa atmosfera di effervescenza intellettuale Emily inizia a scrivere. Da qui in poi aumenta la produzione letteraria in versi ed esplode l’ispirazione nel senso più romantico del termine, perché stilisticamente parlando è al Romanticismo che la poesia di Emily Dickinson appartiene.
In questi anni compone circa quattrocento liriche, nonostante gran parte dei versi rimangano nel cassetto: la fama – e dunque le riflessioni della critica sul valore della sua poesia – sarà quasi tutta postuma. A questo contribuisce Thomas Wentworth Higginson, giornalista e scrittore, al cui giudizio Emily sottopone un centinaio di poesie, che tuttavia Higginson, pur intuendone il valore, le sconsiglia di pubblicare: il vero motivo non è noto, ma è probabile che nella società americana dell’epoca, segnata dalle rigidità religiose protestanti, risultasse sconveniente che una donna scrivesse in modo così libero e aperto delle proprie inquietudini.
I lutti iniziano a colpire la famiglia: muoiono il padre, la madre, il nipote. Dal 1864 Emily si chiude in modo totale nella sua stanza: rifiuta di vedere estranei, veste solo di bianco, e dà sfogo al suo dolore interiore nelle poesie e nelle lettere. Nel 1885 si ammala. Muore il 15 maggio 1886, a 56 anni, nella casa di Amherst, senza essersi mai allontanata dal paese eccetto brevi viaggi. E’ la sorella Vinnie a scoprire i suoi versi nascosti e a quel punto iniziano varie pubblicazioni, sino all’edizione critica completa del 1955, che comprende 1775 poesie.
L’Enciclopedia Treccani, nella sua essenzialità, ci aiuta a capire il mondo interiore di questa autrice: «La tematica della poesia dickinsoniana è senza zone intermedie: dalle piccolissime cose della vita quotidiana che rappresentano la cornice esterna della sua esistenza, ai grandi temi della vita dell’anima (amore, morte, eternità) che ne rappresentano le angosce essenziali e permanenti e che acquistano effettiva dimensione lirica nel dominante tema della solitudine, che si risolve in stato di sospensione e paura, senso di esclusione ed esasperata consapevolezza della fragilità del reale».
(Biografia a cura di Pino Pignatta)
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