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Un grammo di cielo

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29/05/2019

Tratto da:
Emily Dickinson, Tutte le poesie. Testo inglese a fronte, I Meridiani, Mondadori, 2013

Guida alla lettura

Questa aspra e chiusa lirica di Emily Dickinson si compone di due strofe il cui contenuto forma una sorta di chiasmo concettuale. Nella prima, il “sorso di vita” assaporato dalla poetessa è pagato con le sofferenze di una vita intera. Nella seconda, il valore dell’essere viene misurato in un grammo di cielo: fuor di metafora, il contraccambio della sofferenza che patiamo nel corso dei giorni è un breve momento di serenità.
I giudici sono anonimi e senza volto: i loro atti sono meccanici e privi di calore, regolati da una legge inumana e senza appello – «dicevano», «mi pesarono», «bilanciarono», «mi porsero».
Ci troviamo dunque di fronte a un pessimismo senza appello: non vi sarà mai una corrispondenza equa fra patimento e felicità; la giustizia non visiterà le nostre vite. L’ispirazione autobiografica del canto – la Dickinson conobbe un’esistenza tormentata – è malinconica ed evidente.
Lo stile della poetessa, come di consueto, è semplice e asciutto. Il lessico è quotidiano; le strutture sintattiche semplici, con assoluta prevalenza della paratassi asindetica. Il ritmo che ne deriva è simile a quello di un respiro corto e superficiale: specchio efficace, sul piano della scrittura, dell’amaro significato delle parole.
Ciò che Emily non dice, e che sta a noi scoprire e coltivare, è che quel grammo di cielo può crescere grazie alle nostre scelte, alla nostra capacità di lottare contro le avversità della vita: aprendoci a qualcosa che conferisca senso al nostro essere nel mondo, e faccia fruttare in profondità i nostri talenti più preziosi.
Presi un sorso di vita –
Vi dirò quanto l’ho pagato –
Esattamente un’esistenza –
Il prezzo di mercato, dicevano.

Mi pesarono, granello per granello –-
Bilanciarono fibra con fibra,
Poi mi porsero il valore del mio essere –
Un singolo grammo di cielo!

Biografia

«Mi piace il volto dell’agonia perché so che è sincero». Questa affermazione, asciutta e spietata, rende immediatamente cara alle nostre lettrici Emily Dickinson, tra le poetesse più lette dell’Ottocento romantico americano, una vita priva di eventi esteriori, tutta essere e niente apparire, culminata dopo i trent’anni in un volontario isolamento nella casa paterna.
Nata nel dicembre 1830 ad Amherst, Massachusetts, secondogenita di Edward Dickinson, avvocato che diventerà deputato al Congresso di Washington, prende lo stesso nome della madre, Emily Norcross, dalla personalità fragilissima: e ancora oggi i biografi s’interrogano su quanto questa scelta abbia influito nell’elaborazione della personalità della Emily figlia e poetessa, che già a 23 anni inizia a isolarsi.
Compie studi essenzialmente da autodidatta, dopo che il padre l’aveva ritirata da scuola ai tempi delle superiori. Nel 1852 conosce un’altra poetessa, Susan Gilbert, che diventa sua cognata dopo avere sposato il fratello maggiore, Austin. Matrimonio che le farà fare un importante incontro: con Ralph Emerson, tra i più influenti filosofi e scrittori americani.
Grazie a questa “liason” Emily conosce Samuel Bowles, direttore dello Springfield Daily Republican, un quotidiano che nel 1861 – anno in cui in Italia nasce la lira e si proclama l’Unità del Regno, e negli Stati Uniti diventa presidente Abraham Lincoln – pubblica per la prima volta alcune sue poesie. A poco a poco la casa dei Dickinson diventa il centro culturale del piccolo paese, e in questa atmosfera di effervescenza intellettuale Emily inizia a scrivere. Da qui in poi aumenta la produzione letteraria in versi ed esplode l’ispirazione nel senso più romantico del termine, perché stilisticamente parlando è al Romanticismo che la poesia di Emily Dickinson appartiene.
In questi anni compone circa quattrocento liriche, nonostante gran parte dei versi rimangano nel cassetto: la fama – e dunque le riflessioni della critica sul valore della sua poesia – sarà quasi tutta postuma. A questo contribuisce Thomas Wentworth Higginson, giornalista e scrittore, al cui giudizio Emily sottopone un centinaio di poesie, che tuttavia Higginson, pur intuendone il valore, le sconsiglia di pubblicare: il vero motivo non è noto, ma è probabile che nella società americana dell’epoca, segnata dalle rigidità religiose protestanti, risultasse sconveniente che una donna scrivesse in modo così libero e aperto delle proprie inquietudini.
I lutti iniziano a colpire la famiglia: muoiono il padre, la madre, il nipote. Dal 1864 Emily si chiude in modo totale nella sua stanza: rifiuta di vedere estranei, veste solo di bianco, e dà sfogo al suo dolore interiore nelle poesie e nelle lettere. Nel 1885 si ammala. Muore il 15 maggio 1886, a 56 anni, nella casa di Amherst, senza essersi mai allontanata dal paese eccetto brevi viaggi. E’ la sorella Vinnie a scoprire i suoi versi nascosti e a quel punto iniziano varie pubblicazioni, sino all’edizione critica completa del 1955, che comprende 1775 poesie.
L’Enciclopedia Treccani, nella sua essenzialità, ci aiuta a capire il mondo interiore di questa autrice: «La tematica della poesia dickinsoniana è senza zone intermedie: dalle piccolissime cose della vita quotidiana che rappresentano la cornice esterna della sua esistenza, ai grandi temi della vita dell’anima (amore, morte, eternità) che ne rappresentano le angosce essenziali e permanenti e che acquistano effettiva dimensione lirica nel dominante tema della solitudine, che si risolve in stato di sospensione e paura, senso di esclusione ed esasperata consapevolezza della fragilità del reale».
(A cura di Pino Pignatta)
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