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Vivere con dignità anche nell'angoscia e nella paura

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10/11/2010

Tratto da:
Enzo Bianchi, Il fascino quotidiano del bene, La Stampa, 24 ottobre 2010

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

“Uomini di Dio” racconta l’uccisione dei monaci cistercensi del monastero di Tibhirine, in Algeria, durante gli anni della guerra civile. I sette uomini furono rapiti il 26 marzo 1996, e sgozzati il 21 maggio seguente. Ora essi riposano nel piccolo cimitero di Tibhirine, vegliati dagli amici musulmani che essi non avevano voluto abbandonare in quegli anni violenti.  Il film ha vinto il premio Grand Prix Speciale della Giuria durante il Festival di Cannes 2010, e ora sta avendo un grandissimo successo anche presso il pubblico.
Nel 2006 le Edizioni Qiqajon della comunità monastica di Bose hanno dedicato alla vicenda un libro intitolato “Più forti dell’odio”. Nella prefazione del volume, Enzo Bianchi scriveva allora: «Il gesto di chi si lascia sgozzare amando il proprio carnefice è l’estremo rifiuto della logica dell’inimicizia, è l’unico atto che può porre fine alla catena delle rivalse e delle vendette. Con il martirio un cristianesimo che sembra incapace di comunicare agli uomini d’oggi ritrova improvvisamente la forza di suscitare domande e di inquietare le coscienze. Gli scritti dei sette monaci sono dettati da un amore più forte dell’odio, dalla vita più forte della morte: nella loro forza ed essenzialità ci mostrano che solo chi ha una ragione per morire ha anche una ragione per vivere».
In questo articolo di pochi giorni fa, Bianchi ci aiuta invece a capire perché un film così duro e impegnativo, così diverso dalle spettacolari pellicole a cui siamo abituati, possa incontrare tanto favore e suscitare tanta commozione. Nell’angosciata ricerca di senso che caratterizza il nostro tempo, riflette Bianchi, la scelta “umanissima” e “controcultura” della vita monastica, la «semplice testimonianza di chi liberamente decide di tener conto degli altri nel proprio comportamento», suscita una nostalgia profonda e un’immediata simpatia, soprattutto perché non tratteggia figure eroiche, ma uomini come noi, capaci di provare amore e paura, slancio e angoscia. E conclude: «Credo sia proprio questo uno dei messaggi più eloquenti di “Uomini di Dio”: aver saputo mostrare la quotidianità del bene, le normali umanissime potenzialità che ciascuno di noi porta in sé, la capacità di amare e di essere amati senza calcoli, la possibilità di vivere con dignità anche nell’angoscia e nella paura, il faticoso discernimento su come affrontare situazioni drammatiche, cercando non come venirne fuori a tutti i costi, ma piuttosto come poterle attraversare tutti insieme».
Lo straordinario successo di critica e di pubblico che sta avendo il film di Xavier Beauvois sui monaci di Tibhirine merita forse qualche considerazione che scavi un po’ in profondità sulle ragioni di un’accoglienza così favorevole. Come mai la critica è rimasta subito colpita e ora gli spettatori – artefici di un passaparola che dilata le eco positive che si rincorrono ovunque, a partire dalla laicissima Francia, avamposto delle proiezioni per il grande pubblico – paiono commossi e affascinati?
Penso che un elemento tutt’altro che secondario sia stata la capacità del regista di mostrare una vocazione rara e particolare come quella monastica – vissuta da una esigua porzione dei credenti che professano una fede a sua volta non più maggioritaria – sia in realtà una scelta umanissima, fatta di gesti quotidiani, di limiti e di paure, di ritmi e vicende addirittura quasi banali, di non apparizione, di quotidianità ripetitiva. E sia una scelta operata da persone normalissime, magari profondamente diverse tra loro per cultura, formazione, sensibilità, ceto sociale: persone nella quali ciascuno si può riconoscere, a prescindere dalla condivisione della medesima fede.
Il monachesimo, nelle sue espressioni più genuine, è sempre stato una scelta di controcultura, di volontaria e libera marginalità: non nel senso di un’opzione elitaria, di un consesso esclusivo di puri e duri, ma nel suo voler cercare il senso di ciò che si vive, nell’anelare a tradurre in scelte quotidiane nella loro ordinarietà le convinzioni più profonde che lo animano, nel non lasciarsi condizionare dai comportamenti della maggioranza quando questi si discostassero dalle esigenze evangeliche. Un fenomeno marginale, dunque, sovente periferico persino rispetto alla chiesa stessa – non si dimentichi la sua natura fondamentalmente non clericale – ma non autoescludentesi: un modo “altro” per essere al cuore dell’umanità, là dove pulsano le energie vitali di ogni convivenza.
Oggi, in una società in cui dimensioni come il silenzio, l’interiorità, la discrezione, la condivisione, l’obbedienza a istanze etiche, la ricerca della pace e della solidarietà paiono ignorate se non addirittura irrise, la semplice vita quotidiana di un pugno di uomini può destare nei cuori di chi li incontra – anche solo attraverso lo strumento della finzione cinematografica – una spontanea “simpatia”, può richiamare alla memoria desideri sopiti, aneliti a una vita più umana e pacata. Nel devastante dominio dell’apparire, della ricerca ossessiva dell’interesse personale a scapito degli altri e della collettività, della soddisfazione degli impulsi più incontrollati può suonare come una salutare boccata d’aria fresca la semplice testimonianza di chi liberamente decide di tener conto degli altri nel proprio comportamento, di chi accetta di condividere i doni – materiali come intellettuali e spirituali – che possiede, di chi affronta la sofferenza, il dolore e la morte come parti integranti di una vita che vale la pena di essere vissuta.
Sovente nasce così una paradossale “simpatia” verso chi si comporta in modo tanto diverso da noi: il suo semplice restare lì, fedele nel poco, fa sorgere una nostalgia profonda per i piccoli gesti quotidiani, il ricordo di come a volte basta uno sguardo, un tocco delicato, una parola sommessa, un pasto preparato con cura per farci riscoprire la grandezza delle nostre vite, l’umile bellezza di vivere non solo gli uni accanto agli altri, ma gli uni con gli altri, solidali nel condividere la comune umanità. Non abbiamo forse bisogno – oggi come sempre, e forse più che mai – di riscoprire l’antico senso della fedeltà alla parola data, dell’onorare gli impegni assunti, dell’alimentare incessantemente di senso i gesti più banali che compiamo ogni giorno per sottrarli all’asfissiante monotonia della routine?
Apparentemente saldezza e perseveranza non godono oggi di molto credito eppure, se ci interroghiamo in sincerità, cos’altro ci attendiamo dalle persone che ci stanno accanto? Cos’altro desideriamo se non che le persone amate restino fedeli a se stesse e a noi nel mutare di eventi e stagioni? Forse ci manca la consapevolezza che affinché questo sia possibile è necessaria una dinamica molto più profonda della volubilità cui siamo abituati, dell’affannoso rincorrere nuove prospettive, dell’infantile inseguire l’ultima emozione di un momento: la fedeltà infatti esige una capacità di mutare atteggiamento, di adattarsi alle situazioni che cambiano, di adeguarsi all’altro che accanto a me cresce, cambia, lavora, riposa, soffre, si rallegra, invecchia, muore, in una parola: vive.
Credo sia proprio questo uno dei messaggi più eloquenti di “Uomini di Dio”, un messaggio non riservato ai monaci, né ai cristiani o ai credenti: aver saputo mostrare la quotidianità del bene, le normali umanissime potenzialità che ciascuno di noi porta in sé, la capacità di amare e di essere amati senza calcoli, la possibilità di vivere con dignità anche nell’angoscia e nella paura, il faticoso discernimento su come affrontare situazioni drammatiche, cercando non come venirne fuori a tutti i costi, ma piuttosto come poterle attraversare tutti insieme.

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele) e Ostuni (Brindisi).
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2008 è stato invitato, in qualità di “esperto”, alla XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.
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