EN
Ricerca libera
Cerca nelle pubblicazioni scientifiche
per professionisti
Vai alla ricerca scientifica
Cerca nelle pubblicazioni divulgative
per pazienti
Vai alla ricerca divulgativa

Il sacrificio dei monaci tibetani: reagire al male assorbendolo su di sé

  • Condividi su
  • Condividi su Facebook
  • Condividi su Whatsapp
  • Condividi su Twitter
  • Condividi su Linkedin
16/01/2013

Tratto da:
Enzo Bianchi, Fuoco nonviolento, La Stampa, 16 dicembre 2012

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Esistono azioni da compiere non perché fruttino un vantaggio, ma semplicemente perché è giusto compierle; esistono ingiustizie che vanno denunciate ad ogni costo; esistono valori per cui vale la pena dare la vita, fino alla morte. E’ questa la chiave di lettura che Enzo Bianchi propone del sacrificio dei monaci buddisti che si danno alle fiamme per denunciare l’oppressione cinese sul popolo del Tibet.
Gli interlocutori ideali di questi giovani coraggiosi, sottolinea Bianchi, non sono l’opinione pubblica mondiale o i governi occidentali: troppo distratta e indifferente, la prima; troppo preoccupati, i secondi, di mantenere buoni rapporti con Pechino, soprattutto sul piano strategico ed economico. Il vero destinatario del loro gesto estremo è lo stesso popolo tibetano: al cospetto del quale affermano «la grandezza di una religione e di una cultura che non accetta di piegarsi al male».
Lungi dall’essere un fenomeno moderno, il sacrificio di sé è, in quelle contrade, pratica antichissima che richiede «una lunga prassi di ascesi e purificazione fatta di digiuni e meditazioni». E costituisce, secondo Bianchi, una delle più alte espressioni della nonviolenza, ossia di quella disposizione del cuore e della volontà ad «assumere su di sé la violenza senza replicarvi, senza rispondere alla violenza con la violenza, spezzando così la catena infinita dell’ingiustizia riparata con un’ingiustizia più grande». Parole che riecheggiano la testimonianza di un altro grande uomo spirituale del nostro tempo, Rowan Williams, già arcivescovo di Canterbury e primate della Comunione Anglicana, che alla non violenza della “pura vittima”, capace di assorbire il male senza ritrasmetterlo e di liberare così il mondo «dal continuo oscillare del pendolo fra attacco e vendetta», ha dedicato alcune pagine esemplari nel volume “Resurrezione” (Edizioni Qiqajon, 2004).
Certo, la prassi dei monaci tibetani resta profondamente distante dalla nostra cultura e dalla nostra sensibilità: per noi occidentali il suicidio è una forma di violenza estrema, forse la più drammatica e angosciante, non solo verso se stessi ma anche verso le persone con cui si intessono relazioni e affetti. Cristo e i cristiani non si danno la morte da sé, se mai la accolgono dagli altri senza opporre resistenza. E per la medicina, in particolare, il suicidio rappresenta la frontiera estrema della disperazione, la resa totale di fronte alla fatica di vivere. Ogni azione umana, tuttavia, anche la più radicale e discutibile, va calata nel contesto culturale in cui viene compiuta: solo a questa condizione può essere eventualmente compresa. E così quei gesti inquietanti, una volta inquadrati nella storia e nella cultura che fanno loro da sfondo, possono arrivare a interpellare con forza la nostra capacità di «reazione al male» e la nostra magnanimità: virtù somma per gli Antichi (si pensi all’Etica Nicomachea di Aristotele), che esprime la capacità di stimarsi degni di una grande impresa, di affrontarla e di portarla a termine.
Oggi la “megalothymía”, il saper pensare e agire in grande, non sembra più essere un valore decisivo, schiacciato com’è da un interrogativo diffuso che troppo spesso ha un’immediata risposta negativa: «Ne vale la pena?». Bianchi però ci ricorda uno straordinario aforisma del poeta portoghese Fernando Pessoa: «Tutto vale la pena, se l’anima non è piccola». Quello stesso poeta aggiunse: «Non sono niente. Non sarò mai niente. A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo». L’insegnamento ultimo dei monaci tibetani è l’amore per i propri sogni.
Ormai rischiamo l’assuefazione: una notizia d’agenzia ripresa ogni tanto nelle pagine interne, qualche colonna una volta all’anno nell’apposita “giornata mondiale per il Tibet”, un rapido accenno in margine a una visita del Dalai Lama, un box accostato a un resoconto di incontri diplomatico-commerciali. È tutto quello che giunge a noi della tragedia del popolo tibetano e della testimonianza di quanti non cessano di urlare, con le loro vite e la loro morte, alle nostre orecchie divenute sorde. Certo, il sentimento di rassegnazione prevale quando si misura l’impotenza di fronte alla realpolitik, ma la coscienza ci impedisce di lasciar tacere la provocazione nonviolenta dei monaci tibetani, ormai un centinaio dall’inizio della protesta, che decidono di darsi fuoco per denunciare l’oppressione del loro popolo, della loro cultura, della loro religione.
Credo che i monaci stessi sappiano che il loro gesto difficilmente varcherà le frontiere e tanto meno potrà mutare le decisioni del potere. Certo, qualcosa smuove nelle coscienze di chi ne viene a conoscenza, altrimenti non si spiegherebbe perché le autorità cinesi stiano cercando di reprimere il fenomeno, arrivando ad arrestare quanti sostengono e incoraggiano i candidati al martirio, ma non ci si può illudere che una maggiore consapevolezza da parte di pochi possa cambiare la situazione di oppressione del popolo tibetano. Allora, perché ci sono sempre nuovi giovani pronti a darsi alle fiamme? A chi vogliono parlare con quel gesto estremo? Cosa sperano di ottenere? E da parte nostra, se siamo convinti di non poter fare nulla perché le cose cambino, che senso ha continuare a seguire vicende che disturbano la nostra coscienza tranquilla? In realtà, ci siamo talmente abituati a misurare le azioni solo in base al risultato, a breve o lungo termine, che fatichiamo a concepire che qualcuno decida di agire gratuitamente, solo perché così ritiene giusto fare, senza attendersi successi o ricompense. Forse, vale allora la pena lasciarci interrogare da questo monaci disposti a consumare la propria vita tra le fiamme come incenso.
Ora, le persone a cui vogliono parlare non sono i media occidentali, così lontani, distratti e preoccupati come i loro governi di mantenere buone relazioni; non è l’opinione pubblica mondiale, salvo quando qualche evento globale come le Olimpiadi fa da potente cassa di risonanza. No, il destinatario di questo gesto estremo, divenuto ormai quasi quotidiano, è il loro stesso popolo: con la loro vita e la loro morte vogliono affermare la grandezza di una religione e di una cultura che non accetta di piegarsi al male, vogliono testimoniare a chi è scoraggiato dall’oppressione che si compiono azioni perché è giusto farle, che esistono ingiustizie che vanno denunciate a ogni costo, che ci sono valori per cui vale la pena dare la vita fino alla morte. Questo è il messaggio forte che possiamo recepire anche noi in occidente, è l’interrogativo lancinante che ci porta a ripensare le nostre priorità, la nostra capacità di reazione al male, la nostra disponibilità a pagare un prezzo per ciò che per noi non ha prezzo.
E non si creda che questa forma di protesta sia nata negli anni sessanta in Vietnam e sia divenuta così ampia in Cina in questi anni: non è legata al confronto-scontro con un potente nemico esterno, espressione di un ambito etico e culturale diverso. E’ pratica antichissima, attestata fin dalla prima metà del V secolo in Cina, con raccolte di biografie degli asceti buddhisti immolatisi nel fuoco: queste testimonianze – una decisiva la si trova in un capitolo della Sutra del Loto – rivelano che non si è mai di fronte a un gesto impulsivo, ma che invece una lunga prassi di ascesi e purificazione fatta di digiuni e meditazioni ha preparato il sacrificio estremo di donarsi al Buddha per il bene degli altri. Il martire che si nutre e si ricopre di incensi e profumi per poi ardere compie un’offerta libera e totale per la salvezza di tutti: non mira unicamente alla propria rinascita, ma al rinnovamento del mondo. E questo lo fa attraverso un’azione nonviolenta nel senso forte del termine, un’azione cioè che accetta di assumere su di sé la violenza senza replicarvi, senza rispondere alla violenza con la violenza, spezzando così la catena infinita dell’ingiustizia riparata con un’ingiustizia più grande. E’ come se di fronte al male e a chi lo compie il monaco affermasse non solo che il malvagio non potrà avere il suo corpo ma anche, verità ancor più destabilizzante, che non riuscirà a fargli assumere lo stesso atteggiamento malvagio.
Sarebbe improprio tracciare un parallelo con il servo sofferente di cui parla il libro di Isaia, con l’atteggiamento di Gesù di fronte ai suoi persecutori o con i martiri cristiani – che non si danno da sé la morte ma la “accolgono” dagli altri – eppure questa capacità di assumere su di sé la violenza per estinguerla e al contempo per professare ciò che è bene e giusto per tutti interpella cristiani e non cristiani, noi post-moderni sempre tentati di rimuovere la domanda su cosa è giusto per interrogarci solo sull’opportunità del nostro agire: «Vale la pena?» è diventato il nostro unico interrogativo, ormai sempre più accompagnato da un’immediata reazione negativa. Abbiamo dimenticato la fulminante risposta di Pessoa: «Tutto vale la pena, se l’anima non è piccola». La grande anima di questi giovani monaci tibetani ce lo ricorda, se solo vogliamo ascoltare il loro grido silenzioso, lasciandoci illuminare da quel fuoco nonviolento.

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele) e Ostuni (Brindisi).
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Sullo stesso argomento per pazienti

Il dolore e la spiritualità

Il dolore e la cultura

Vuoi far parte della nostra community e non perderti gli aggiornamenti?

Iscriviti alla newsletter