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Ogni guerra è una guerra civile

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04/02/2015

Tratto da:
Cesare Pavese, La casa in collina. In: Prima che il gallo canti, Opere, Giulio Einaudi Editore 1968

Guida alla lettura

“La casa in collina” è il secondo di due racconti (l’altro è “Il carcere”) che Cesare Pavese pubblicò congiuntamente nel 1949, sotto il titolo “Prima che il gallo canti”. Il protagonista è Corrado, un professore di Torino che vive con indifferenza e nell’apatia il periodo dei bombardamenti durante la seconda guerra mondiale. Rifugiatosi sulla collina torinese, è ospite di due donne sole – Elvira e la madre – e frequenta un gruppo di persone semplici che si ritrovano, la sera, in una vecchia osteria. Qui ritrova Cate, la donna amata anni addietro e poi lasciata per paura del futuro. Cate ha un figlio, Dino, nel quale Corrado crede di ravvisare i propri lineamenti e con il quale passa gran parte del tempo, rivivendo gli anni spensierati della fanciullezza.
Dopo l’armistizio dell'8 settembre 1943, le truppe tedesche occupano la città e la situazione dei civili si fa sempre più drammatica. Gli amici dell’osteria si impegnano nella Resistenza, e un giorno vengono catturati. Corrado si salva, per un po’ rimane nascosto in casa di Elvira e in seguito si rifugia nel collegio religioso di Chieri. Il giovanissimo Dino, che i tedeschi hanno abbandonato a se stesso la mattina della retata, lo raggiunge più tardi, ma ben presto fugge e si unisce ai partigiani. Corrado decide di tornare al paese natale: proprio nella sua terra, invece di ritrovare la sicurezza di un tempo, aprirà definitivamente gli occhi sull’orrore indicibile della guerra, e chiuderà i propri ricordi con parole dolenti, colme di infinita malinconia, che qui proponiamo.
L’evento decisivo, che scuote Corrado proprio quando sta per raggiungere il paese, è un’imboscata tesa dai partigiani a un convoglio di fascisti che lo aveva appena superato sulla strada polverosa. Nessuno sopravvive. Corrado annota, quasi di sfuggita: «Io rimasi tra i morti, senza osare scavalcarli». E’ quel momento atroce che, entrandogli a poco a poco nell’anima, gli farà dire: «Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso».
Le parole che seguiranno, e che concludono il racconto, sono fra le più alte che Pavese abbia mai scritto, e rivelano non solo uno “scrittore maturo”, come giustamente sottolineò la critica di quegli anni, ma anche un uomo dallo spirito davvero grande, capace di capire – al di là delle opinione politiche mai così radicalmente contrapposte come a quel tempo – che «ogni guerra è una guerra civile», ossia una guerra tra fratelli, in cui «ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione».
Se la guerra è tutto questo, allora è innanzitutto rinnegamento della nostra comune umanità: e capiamo meglio il titolo, di limpida eco evangelica, della raccolta in cui il racconto è inserito. Come conclude amaramente Corrado, un conflitto così non può realmente finire, perché scava dentro di noi, «prende alla gola anche il nostro passato» e ci cambia in profondità. E nessuno, se non forse i morti stessi, può e potrà mai rispondere alla domanda sul “perché”.
Sono a casa da sei mesi, e la guerra continua. Anzi, adesso che il tempo si guasta, sui grossi fronti gli eserciti sono tornati a trincerarsi, e passerà un altro inverno, rivedremo la neve, faremo cerchio intorno al fuoco ascoltando la radio. Qui sulle strade e nelle vigne la fanghiglia di novembre comincia a bloccare le bande; quest’inverno, lo dicono tutti, nessuno avrà voglia di combattere, sarà già duro essere al mondo e aspettarsi di morire in primavera. Se poi, come dicono, verrà molta neve, verrà anche quella dell’anno passato e tapperà porte e finestre, ci sarà da sperare che non disgeli mai più. (…)
Malgrado i tempi, qui nelle cascine si è spannocchiato e vendemmiato. Non c’è stata – si capisce – l’allegria di tanti anni fa: troppa gente manca, qualcuno per sempre. Dei compaesani soltanto i vecchi e i maturi mi conoscono, ma per me la collina resta tuttora un paese d’infanzia, di falò e di scappate, di giochi. Se avessi Dino qui con me potrei passargli le consegne; ma lui se n’è andato, e per fare sul serio. Alla sua età non è difficile. Più difficile è stato per gli altri, che pure l’han fatto e ancora lo fanno. (…)
Se passeggio nei boschi, se a ogni sospetto di rastrellatori mi rifugio nelle forre, se a volte discuto coi partigiani di passaggio (…), non è che non veda come la guerra non è un gioco, questa guerra che è giunta fin qui, che prende alla gola anche il nostro passato. Non so se Cate, Fonso, Dino, e tutti gli altri, torneranno. Certe volte lo spero, e mi fa paura. Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitato sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.
Ci sono giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d’erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi. Può sempre succedere. (…) Parte del giorno la passo in cucina, nell’enorme cucina dal battuto di terra, dove mia madre, mia sorella, le donne di casa, preparano conserve. Mia padre va e viene in cantina… A volte penso se una rappresaglia, un capriccio, un destino folgorasse la casa e ne facesse quattro muri diroccati e anneriti. A molta gente è già toccato. Che farebbe mio padre, che cosa direbbero le donne? Il loro tono è «La smettessero un po’», e per loro la guerriglia, tutta quanta questa guerra, sono risse di ragazzi, di quelle che seguivano un tempo alle feste del santo patrono. Se i partigiani requisiscono farina o bestiame, mio padre dice: «Non è giusto. Non hanno diritto. Lo chiedano piuttosto in regalo». «Chi ha diritto?» gli faccio. «Lascia che tutto sia finito e si vedrà», dice lui.
Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: «E dei caduti che facciamo? perché sono morti?». Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.

Biografia

Cesare Pavese nasce nel 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo. Il padre, cancelliere del tribunale di Torino, muore nel 1914: questa perdita, e il rigido carattere della madre, incideranno profondamente sull’indole del ragazzo, che crescerà scontroso e introverso, amante dei libri e della natura.
Allievo di Augusto Monti al liceo “D’Azeglio”, il giovane Pavese legge le opere di Gramsci e Gobetti, e frequenta Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Giulio Einaudi, Massimo Mila: ma si trova a suo agio anche nelle trattorie, con la gente comune che un giorno sarà la vera protagonista dei suoi romanzi.
Nel 1930 si laurea con la tesi “Sull’interpretazione della poesia di Walt Whitman”. Inizia a lavorare per la rivista “La cultura” ed esordisce come traduttore: nel corso degli anni affronterà, tra gli altri, Herman Melville, James Joyce, John Steinbeck, Daniel Defoe, Charles Dickens e William Faulkner. Nel 1932, per poter insegnare nelle scuole pubbliche si arrende alle insistenze della sorella e si iscrive al Partito Nazionale Fascista: una scelta che, in seguito, le rimprovererà aspramente.
Nel 1933 viene fondata la casa editrice Einaudi, al cui progetto Pavese partecipa con entusiasmo. Questi sono anche gli anni della tormentata relazione con Tina Pizzardo, la “donna dalla voce rauca”, un’intellettuale impegnata nella lotta antifascista. Con molta imprudenza e per amore suo, lo scrittore accetta di far giungere al proprio domicilio lettere a lei indirizzate e gravemente compromettenti sul piano politico: scoperto, rifiuta di fare il nome della donna e il 15 maggio 1935 viene condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro, poi ridotti a pochi mesi. Al ritorno, scopre che la donna si è sposata: la delusione lo sprofonda in una grave crisi depressiva, che lo terrà a lungo avvinto alla tentazione del suicidio.
Nel 1936 pubblica la prima raccolta di poesie, “Lavorare stanca” e, nel 1941, il primo romanzo, “Paesi tuoi”, cui seguono “La spiaggia” (1942) e “Feria d’agosto” (1946). Chiamato alle armi, viene congedato perché malato di asma. Negli anni del conflitto, avverte una ripugnanza quasi fisica per la violenza: si rifugia nel Monferrato, dove vivrà per due anni “recluso tra le colline”, con l’umiliante sensazione di non saper partecipare alla vita attiva dei suoi compagni di ideali.
Al termine della guerra si iscrive al Partito Comunista, ma anche questa scelta si rivelerà priva di conseguenze pratiche. Il suo impegno è e resta letterario: scrive racconti, romanzi, articoli e saggi, contribuisce alla riorganizzazione dell’Einaudi, si interessa di mitologia, elaborando una teoria sul mito che esprimerà nei “Dialoghi con Leucò” (1947). In quello stesso anno pubblica “Il compagno” (1947); seguiranno, fra gli altri, “La bella estate” e “Prima che il gallo canti” (entrambi del 1949) e “La luna e i falò” (1950). Saranno invece pubblicate postume le “Lettere”, le straordinarie pagine del diario (“Il mestiere di vivere”) e la raccolta di liriche “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, in cui la donna è cantata attraverso i simboli da sempre più eloquenti della sua poetica: la terra, la vigna, il vento, la vita, la morte.
Nel gennaio 1950 conosce a Roma Constance Dowling, una giovane attrice americana di cui si innamora, ma che ben presto lo lascia tornando negli Stati Uniti. A questo nuovo abbandono non riesce a reagire. Scrive sul diario: «Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più». E il 27 agosto si toglie la vita in un albergo di Torino, assumendo una forte dose di sonniferi. Sulla prima pagina dei “Dialoghi con Leucò”, posato sul comodino, annota: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
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