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La gran meraviglia delle nubi e del cielo

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La gran meraviglia delle nubi e del cielo
07/12/2022

Tratto da: Cesare Pavese, Canzone
In: Poesie del disamore e altre poesie disperse, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1951

Guida alla lettura

Un inno alla vita e al movimento. Così può essere riassunta questa meravigliosa lirica di Cesare Pavese: una musica vibrante di spazio e di luce che tanto più sorprende nel poeta che si toglierà la vita a 42 anni, nella solitudine, in un giorno opprimente d’afa del 1950.
Nei versi ampi e distesi si presentano molti dei temi-immagine cari a Pavese: la terra, la vita, la città, gli alberi, l’amato Po e i suoi affluenti – l’accenno ai torrenti allude con sicurezza al Sangone, altra acqua simbolo per lo scrittore e per generazioni di torinesi, usi un tempo a trascorrere le giornate d’estate lungo le piccole spiagge che lo costeggiano, e a bagnarsi nei suoi flutti, allora limpidissimi. All’incantata enumerazione naturalistica manca solo un motivo narrativo, uno dei più importanti nella poetica dello scrittore: la collina con le sue vigne, che però possiamo immaginare, mossa e ombreggiata, di fronte alle anse dei due fiumi che si incontrano a sud-est di Torino.
Il fraseggio poetico ruota significativamente intorno ad alcuni termini chiave. Il principio generatore della gioia sono le nubi: «Fin che ci saran nuvole sopra Torino / sarà bella la vita». Nei ventidue versi la parola “nuvole” ricorre quattro volte, oltre alle varianti “nubi” (due volte) e “masse bianche” (una volta), alla metafora “grandi veli”, e all’immagine complessiva del “cielo” che le contiene (quattro volte). Questa affascinante realtà atmosferica gioca con il “vento” in un sorridente scenario di “luce” e di “sole” (due termini che compaiono a fine verso, con particolare forza espressiva). L’eco di questa ineffabile euforia si riflette, in terra, sugli “alberi”, le “piante” e le “foreste”. Sullo sfondo la città, con le sue strade strette, la folla e il fragore, che non impediscono a Cesare di assaporare la bellezza che «compare su, su, tra le vie».
Ma le nuvole sono anche il simbolo delle increspature che turbano il sereno della vita. Gli ultimi versi ci avvertono senza ambiguità: «Anche gli alberi soffrono e muoiono sotto le nubi», e come loro «l’uomo sanguina e muore». L’irruzione del reale non potrebbe essere più categorica e brutale. Intanto, però, c’è quella «gran meraviglia», e «tutta la vita / son le nubi e le piante e le vie, perdute nel cielo»: la bellezza del mondo non è un’illusione, e nemmeno un palliativo, ma sorgente di forza per chi la sappia vedere, e stupirsene. Il domani non nasconde le sue minacce: ma nel frattempo il poeta si sarà preparato a «rinchiudersi» fra mura di sofferenza che negheranno il cielo e la luce, e a «stringere i denti» tramutando il sorriso di oggi nella dura smorfia dell’uomo che incontra il dolore.
Noi sappiamo che quelle nuvole, quel sole, quegli alberi, quei fiumi non bastarono a trattenere Pavese al di qua della sua personale linea d’ombra, e che pochi anni dopo egli preferì abbandonarsi alle tenebre piuttosto che continuare a sopravvivere in una luce che si era fatta fredda e indifferente alla sua fatica di esistere. Ma questa lirica ci insegna tanto: ad accorgerci del cielo, ad ascoltare il vento, a sentire il respiro degli «alberi vivi», a contemplare senza fretta le acque tranquille di un fiume, persino a capire che anche una grande città può assomigliare a una foresta da cui la luce non scompare, se la si sa cercare.
Pavese ci addita un’occasione di respiro e di quiete, e con la sua morte rafforza in noi il senso dell’urgenza del lucido appello contenuto nella sua canzone.

Canzone

Le nuvole sono legate alla terra ed al vento.
Fin che ci saran nuvole sopra Torino
sarà bella la vita. Sollevo la testa
e un gran gioco si svolge lassù sotto il sole.
Masse bianche durissime e il vento vi circola
tutto azzurro – talvolta le disfa
e ne fa grandi veli impregnati di luce.
Sopra i tetti, a migliaia le nuvole bianche
copron tutto, la folla, le pietre e il frastuono.
Molte volte levandomi ho visto le nuvole
trasparire nell’acqua limpida di un catino.
Anche gli alberi uniscono il cielo alla terra.
Le città sterminate somiglian foreste
dove il cielo compare su su, tra le vie.
Come gli alberi vivi sul Po, nei torrenti
così vivono i mucchi di case nel sole.
Anche gli alberi soffrono e muoiono sotto le nubi
l’uomo sanguina e muore, – ma canta la gioia
tra la terra ed il cielo, la gran meraviglia
di città e di foreste. Avrò tempo domani
a rinchiudermi e stringere i denti. Ora tutta la vita
son le nubi e le piante e le vie, perdute nel cielo.

Biografia

Cesare Pavese nasce nel 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo. Il padre, cancelliere del tribunale di Torino, muore nel 1914: questa perdita, e il rigido carattere della madre, incideranno profondamente sull’indole del ragazzo, che crescerà scontroso e introverso, amante dei libri e della natura.
Allievo di Augusto Monti al liceo “D’Azeglio”, il giovane Pavese legge le opere di Gramsci e Gobetti, e frequenta Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Giulio Einaudi, Massimo Mila: ma si trova a suo agio anche nelle trattorie, con la gente comune che un giorno sarà la vera protagonista dei suoi romanzi.
Nel 1930 si laurea con la tesi “Sull’interpretazione della poesia di Walt Whitman”. Inizia a lavorare per la rivista “La cultura” ed esordisce come traduttore: nel corso degli anni affronterà, tra gli altri, Herman Melville, James Joyce, John Steinbeck, Daniel Defoe, Charles Dickens e William Faulkner. Nel 1932, per poter insegnare nelle scuole pubbliche si arrende alle insistenze della sorella e si iscrive al Partito Nazionale Fascista: una scelta che, in seguito, le rimprovererà aspramente.
Nel 1933 viene fondata la casa editrice Einaudi, al cui progetto Pavese partecipa con entusiasmo. Questi sono anche gli anni della tormentata relazione con Tina Pizzardo, la “donna dalla voce rauca”, un’intellettuale impegnata nella lotta antifascista. Con molta imprudenza e per amore suo, lo scrittore accetta di far giungere al proprio domicilio lettere a lei indirizzate e gravemente compromettenti sul piano politico: scoperto, rifiuta di fare il nome della donna e il 15 maggio 1935 viene condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro, poi ridotti a pochi mesi. Al ritorno, scopre che la donna si è sposata: la delusione lo sprofonda in una grave crisi depressiva, che lo terrà a lungo avvinto alla tentazione del suicidio.
Nel 1936 pubblica la prima raccolta di poesie, “Lavorare stanca” e, nel 1941, il primo romanzo, “Paesi tuoi”, cui seguono “La spiaggia” (1942) e “Feria d’agosto (1946). Chiamato alle armi, viene congedato perché malato di asma. Negli anni del conflitto, avverte una ripugnanza quasi fisica per la violenza: si rifugia nel Monferrato, dove vivrà per due anni “recluso tra le colline”, con l’umiliante sensazione di non saper partecipare alla vita attiva dei suoi compagni di ideali.
Al termine della guerra si iscrive al Partito Comunista, ma anche questa scelta si rivelerà priva di conseguenze pratiche. Il suo impegno è e resta letterario: scrive racconti, romanzi, articoli e saggi, contribuisce in misura decisiva alla riorganizzazione dell’Einaudi, si interessa di mitologia, elaborando una teoria sul mito che esprimerà nei “Dialoghi con Leucò” (1947). In quello stesso anno pubblica “Il compagno” (1947); seguiranno, fra gli altri, “La bella estate” (che gli varrà il Premio Strega) e “Prima che il gallo canti” (entrambi del 1949), e “La luna e i falò” (1950). Saranno invece pubblicate postume le “Lettere”, le straordinarie pagine del diario (“Il mestiere di vivere”) e la raccolta di liriche “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, in cui la donna è cantata attraverso i simboli da sempre più eloquenti della sua poetica: la terra, la vigna, il vento, la vita, la morte.
Nel gennaio 1950 conosce a Roma Constance Dowling, una giovane attrice americana di cui si innamora, ma che ben presto lo lascia tornando negli Stati Uniti. A questo nuovo abbandono non riesce a reagire. Scrive sul diario: «Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più». E il 27 agosto si toglie la vita in un albergo di Torino, assumendo una forte dose di sonniferi. Sulla prima pagina dei “Dialoghi con Leucò”, posato sul comodino, annota: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
Poeta, romanziere, traduttore, critico, editore, oggi Pavese è ricordato e studiato come uno degli intellettuali più complessi e completi del Ventesimo secolo.
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