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Non si piange sui caduti eroi

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09/01/2013

Tratto da: Ada Negri, Esilio
In: Project Gutenberg

Guida alla lettura

In questa lirica dolente Ada Negri rievoca la morte del figlio, caduto nel 1911 a Sciara-Sciat, durante la guerra di Libia. Nei versi che si susseguono rapidi e spezzati, come in un delirio febbrile, la critica del passato ha visto il simbolo dell’accorata rassegnazione delle madri d’Italia e di un caldo amor di patria.
La sensibilità estetica e i valori etici di oggi ci consentono forse una lettura diversa: ciò che traspare è allora una sofferenza senza fine, un “morire due morti”, che cerca disperatamente di comprimere le lacrime e farsi obbedienza al superiore volere della Nazione. «Non piango, no», ripete la madre a se stessa. E ancora: «Così volle la Patria, e così sia», e «Madre d’eroe non piange». Ma sono i vaneggiamenti di un’anima inebetita dal dolore; e la verità esplode drammaticamente nella descrizione della guerra, che nei versi centrali della lirica risuona implacabile come una marcia militare, per poi spegnersi in un singhiozzo appena rattenuto: «Passa la guerra, e i giovinetti eroi / nella raffica invola, ed il perché / non dice a noi, pallide madri. Passa / e prende. A rullo di tamburo, a squillo / di tromba, all’ombra ardente del vessillo, / a ritmo d’inni e di mitraglia, ammassa / e lancia a torme i figli nostri, i figli / nostri».
La guerra di Libia fu combattuta tra il regno d’Italia e l’Impero ottomano per il possesso delle regioni Nordafricane della Tripolitania e della Cirenaica, tra il 29 settembre 1911 e il 18 ottobre 1912. Le ambizioni coloniali spinsero l’Italia ad impadronirsi delle due province ottomane, che assieme al Fezzan, nel 1934, avrebbero costituito la Libia, dapprima come colonia italiana, in seguito come stato indipendente. Con la firma del trattato di Losanna nel 1923, la Turchia riconobbe ufficialmente la sovranità italiana sui territori perduti nel conflitto.
Non piango, no. — So ben che tu non vuoi,
figlio. Il cuore impietrò sotto le bende
nere, il tacito cuor che non t’attende
più. Non si piange sui caduti eroi.
Un nome s’incavò nella memoria:
Sciara-Sciat. — Là piombasti, in una pozza
di sangue; e ti fu poi la testa mozza,
figlio!... — Non piango, no. — Questa è la gloria.
Tante madri a quest’ora hanno il mio cuore
di pietra, e la mia faccia d’agonia!....
.... Tacciono. Così volle, — e così sia, —
la Patria
, amor che vince ogni altro amore.
O figlio, io ti creai colla mia carne
giovine, io ti nutrii colle mie rosse
vene, e la forza che per te mi mosse
unica or regge le mie membra scarne.
Arde in te la sostanza di mia vita,
e tu con fibra e fibra ancor t’aggrappi
a me, come nell’ora in cui gli strappi
del tuo corpo al mio corpo eran ferita.
Porto, grondanti sotto la gramaglia,
le piaghe tue: pur io la testa mozza
rotolare mi sento nella sozza
terra, ed il sangue fino a Dio si scaglia.
Muoio due morti, in me agonizzo e in te.
Ma lacrime non ho. Tu non le vuoi.
Passa la guerra, e i giovinetti eroi
nella raffica invola, ed il perché
non dice a noi, pallide madri. Passa
e prende.
A rullo di tamburo, a squillo
di tromba, all’ombra ardente del vessillo,
a ritmo d’inni e di mitraglia, ammassa
e lancia a torme i figli nostri, i figli
nostri,
ove un sol fulgore han vita e morte:
fide vegliammo noi per questa sorte
le culle d’oro e gli umili giacigli.
Fàsciati di silenzio, o bocca pia,
crocifiggiti in petto, o cuor demente:
non invocare Iddio, chè Iddio non sente:
così volle la Patria. — E così sia. —
Che altro io potrei darti, o Patria grande?...
vuota è la casa, spento il focolare:
la cenere io raccolsi sull’alare
e con essa formai le mie ghirlande.
Irrigidii per te la fronte stanca
nella bellezza dell’orgoglio sacro.
Madre d’eroe non piange. — A volte il macro
volto, per aria che al respir le manca,
tende, ed il labbro; e il sangue a goccia a goccia
sgorga dalla ferita che s’incava
nelle profonde viscere, e ne scava
la vita, come fa stilla da roccia;
ma singhiozzar con disperata voce
sul figlio morto, non sarà chi l’oda:

sta, di fronte alla gloria, che l’inchioda
al suo materno amor come a una croce.

Biografia

Ada Negri nasce a Lodi nel 1870, da un famiglia di umili condizioni. All’età di un anno perde il padre, ma grazie ai sacrifici della madre potrà studiare, ottenendo infine il diploma di maestra elementare. Ottiene il suo primo impiego di insegnante nel 1887, in una piccola scuola di provincia. E in quegli anni matura anche la vocazione di poetessa: nel 1892 pubblica la raccolta “Fatalità”, il cui notevole successo le vale il titolo di “docente per chiara fama” presso un istituto superiore di Milano.
Nel capoluogo lombardo entra in contatto con il Partito socialista italiano. Conosce il giornalista Ettore Patrizi, con il quale avrà un’intensa relazione epistolare, Filippo Turati e il giovane Benito Mussolini.
Nel 1894 vince il Premio Milli per la poesia. Nello stesso anno esce la seconda raccolta di poesie, “Tempeste”, centrata sui temi sociali ma stroncata da Luigi Pirandello. Nel 1896 si sposa con Giovanni Garlanda, industriale tessile di Biella, da cui si separerà nel 1913. In questo periodo – contrassegnato dalla perdita di una figlia di un anno e di un figlio nella guerra libica, che la segna profondamente – le sue opere divengono più introspettive e autobiografiche: “Maternità” viene pubblicata nel 1904, “Dal Profondo” nel 1910.
Dopo la separazione si trasferisce a Zurigo, dove rimane fino all’inizio della Prima guerra mondiale: qui scrive “Esilio”, e la raccolta di novelle “Le solitarie”, attenta alle tematiche femminili. L’anno seguente esce “Orazioni”, raccolta di odi alla patria. Ma la corda principale della sua poesia è ormai il sentimento personale, come traspare dalla “Il libro di Mara” e dal romanzo autobiografico “Stella mattutina”, romanzo autobiografico di successo.
Nel 1931 riceve insignita il Premio Mussolini per la carriera, che la consacra come intellettuale di regime. Nel 1940 è la prima donna ammessa all’Accademia d’Italia. I rapporti con il Duce risalivano al periodo di comune militanza socialista, e non ricuserà mai apertamente il regime fascista. Ma ormai la sua vita è permeata dalla solitudine e dal pessimismo. Muore a Milano nel 1945.
La facilità dello stile neoromantico, che Attilio Momigliano giudicò «insignificante nei risultati artistici», lo spiccato sentimentalismo del pensiero e forsanche il rapporto ambiguo con il fascismo le valsero da parte della critica il titolo poco lusinghiero di “maestrina di Lodi”. Ma, ancora oggi, una lettura attenta delle sue liriche può condurre a riconoscervi momenti meno convenzionali e più profondi, piccole gemme anche formali, capaci di colpire il cuore e stimolare una riflessione non scontata sul dolore del mondo.
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