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La sepoltura dei morti, misura di una civiltà

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05/10/2016

Tratto da:
Enzo Bianchi, Seppellire i morti, Vita Pastorale, luglio 2016

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Le “opere di misericordia” sono la risposta cristiana alla sofferenza del vivere, prassi di solidarietà che traducono in gesti concreti il comandamento evangelico dell’amore. Oggi Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, riflette su quella forse meno appariscente di tutte, perché non riguarda i vivi ma i defunti: dare ai morti una dignitosa sepoltura, assegnando loro un posto durevole e riconoscibile ove onorarli e ricordarli – per tutti, in nome della comune umanità e, per i credenti, nell’attesa della resurrezione e dell’ingresso nella vita eterna.
Quattro i punti essenziali che emergono dal denso articolo di Bianchi:
1) seppellire i morti rappresenta una svolta nell’evoluzione, uno dei tratti che iniziano a distinguere gli ominidi dagli altri animali: il morto non viene più abbandonato all’aperto, ma nascosto sotto terra o in anfratti, e ben presto viene fatto oggetto di cordoglio, ricordo, omaggio;
2) il mondo antico attribuisce un’importanza cruciale alla sepoltura: chi muore insepolto rimane maledetto da Dio e dagli dei, come insegna la vicenda di Antigone e Polinice magistralmente narrata da Sofocle. Da ciò deriva che ogni morto ha diritto alla sepoltura, in nome di leggi non scritte e immutabili di fronte alle quali gli odi politici e personali devono saper fare un passo indietro;
3) il modo in cui si accompagna il morente e in cui lo si seppellisce dopo il decesso esprime il carattere di una civiltà, la sua capacità di guardare in faccia la vita e il suo mistero, il suo senso di solidarietà, la sua capacità di amare: non a caso la nostra epoca, attraversata da un drammatico degrado dei valori, è contraddistinta anche da un rapporto ambiguo e immaturo con la morte, da un senso poco sapiente dell’accompagnamento dei malati terminali, da un approccio frettoloso e tecnicizzato alle pratiche della sepoltura, non più vissute in prima persona e in famiglia, ma demandate a strutture professionali;
4) la sepoltura dei morti, quando sia vissuta con consapevolezza e partecipazione, «causa un grande bene a chi la compie: lo porta a riflettere sull’interrogativo della morte; a misurare il proprio limite; a discernere ciò che è essenziale alla vita; a riflettere su cosa sono gli altri per noi».
Dai tempi di Antigone, la morte resta un evento doloroso e ineluttabile. Seppellire i morti, e avere cura del loro sepolcro, è una misura di umanità che ci unisce di fronte al mistero dell’ultimo passo e che, rinnovando l’amore nel ricordo, ci aiuta a non arrenderci all’inesorabile fluire del tempo.
È significativo che nel Credo, la professione di fede cristiana, si ricordi che Gesù «morì e fu sepolto» (cf. 1Cor 15,3-4), dove questa seconda parte non indica solo un evento puntuale, conseguenza della morte, ma anche una precisa azione compiuta da alcuni discepoli di Gesù (cf. Mc 15,46-47 e par.; Gv 19,40-42): egli non solo raggiunse la terra, nell’antro di una grotta, ma “«fu sepolto». I vangeli attestano che anche Giovanni il Battista, una volta decapitato, fu posto in un sepolcro dai suoi discepoli (cf. Mc 6,29; Mt 14,12).
In verità tutta la Bibbia dedica molta attenzione al seppellimento e alla tomba, a partire dalla sepoltura di Sara a Ebron nella grotta di Macpela, all’interno della proprietà venduta dagli hittiti ad Abramo, non avendo egli ancora conosciuto la realizzazione della promessa della terra fattagli da Dio (cf. Gen 23). Da quel momento la sepoltura diventa decisiva per i credenti nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, segno della giustizia di chi muore e finisce in una tomba. Chi invece non viene sepolto, appare come castigato da Dio, come un empio che non merita la sepoltura (cf. Dt 28,26; Is 34,3; Ger 16,4-6; 25,33; Sal 79,2-3). Rincresce che i cristiani abbiano accettato con tanta facilità, per ragioni di spazio (che manca, si dice) ed economiche (costa meno), la cremazione del corpo e spesso pratichino la dispersione delle ceneri del defunto in fiumi, mari, boschi… Sono forse senza colpa quanti, ignoranti e inconsapevoli, finiscono per dare ai loro cari la sorte degli empi. Ma va detto con chiarezza: a partire da Abramo i credenti, a causa della loro fede nell’umano che ha vissuto in un corpo (corpo che l’uomo non solo ha, ma è!) e nella resurrezione, devono dare sepoltura ai morti e conservarne un memoriale attraverso la tomba. D’altronde, la paleontologia ci avverte sul fatto che il seppellire i morti segna una svolta nell’evoluzione. I primi umani si distinguono dagli animali proprio a causa del loro dare sepoltura ai morti: non li lasciano abbandonati alle intemperie, preda degli animali, ma li collocano in luoghi appartati, ne ricompongono il cadavere dandogli una posizione significativa e presto li venerano, li onorano con doni, cose preziose e anche cibi, quasi a esprimere il loro desiderio che vivano ancora.
La sapienza di Israele chiede: «Il tuo amore (cháris) si estenda a ogni vivente, ma anche al morto non negare il tuo amore (cháris)» (Sir 7,33); e ancora: «Figlio, versa lacrime sul morto, e come uno che soffre profondamente inizia il lamento; poi seppelliscine il corpo secondo le sue volontà e non trascurare la sua tomba» (Sir 38,16). Ispiratore della settima e ultima azione di misericordia corporale (aggiunta alle sei indicate in Mt 25,31-46) è certamente il libro biblico di Tobia, nel quale la sepoltura degli uccisi dalla violenza degli Assiri è presentata come azione gradita a Dio quanto la preghiera innalzata a lui (cf. Tb 1,17-19; 2,1-8; 12,12). Nel Nuovo Testamento il seppellimento e la tomba sono anche espressione della fede nella resurrezione della carne, dei corpi dei credenti, oltre che onore e segno d’amore verso chi ha compiuto l’esodo da questa vita al Padre. Accompagnare il morto fino alla tomba è deporlo là dove, seppur andando in corruzione e ritornando a essere terra, ascolterà la voce del Signore che lo richiamerà alla vita eterna (cf. Gv 5,25.28-29) e lo farà rivivere non come cadavere rianimato, non come terra ritornata a essere cenere, ma come corpo animato dalla vita dello Spirito santo, vita eterna donata da Dio agli umani da lui creati e voluti quali figli. E’ noto che le catacombe, luogo sotterraneo in cui i primi cristiani seppellivano i loro morti, erano anche luogo di preghiera e di celebrazione eucaristica, luogo di venerazione dei corpi o di ciò che restava (le reliquie) dei martiri, testimoni di Cristo fino al sangue, al dono della vita.
In tali pratiche era all’opera la fede biblica, ma anche, soprattutto nel Mediterraneo, la pietas che prevedeva attenzione e riti particolari nei confronti dei morti. Si pensi, per esempio, ad Antigone, l’eroina che contesta il potere e le leggi vigenti, in nome di «leggi non scritte e non mutabili» (Sofocle, Antigone 454-455): in tutta la cultura greco-romana la sua figura è esemplare per la misericordia usata verso chi è nostro fratello in umanità, qualunque colpa abbia commesso. Di fronte all’evento della separazione noi umani vogliamo affermare la forza della comunione vissuta e, sfidando la morte, osiamo sperare che tale comunione sarà ritrovata, perché non può andare perduta. Ciò che dà valore all’aver vissuto – lo sappiamo bene – è l’amore, la comunione: se questi fossero perduti per sempre, che senso avrebbe la vita? Ecco ciò che ispira l’azione del seppellire i morti, del porre un segno nello spazio, anche nel piccolo spazio della tomba, che una persona ha vissuto tra noi e che nella tomba vi sono i suoi resti; è un luogo che ce la ricorda, che diventa un tramite per continuare a dirle il nostro amore, la nostra cura, la nostra volontà che il legame continui, sebbene in forma diversa.
Non posso scrivere di quest’opera di misericordia corporale senza manifestare ciò che mi abita per le esperienze vissute in prima persona nell’infanzia, nella giovinezza e ancora oggi. Cosa significava, soprattutto un tempo, seppellire un morto? Innanzitutto il morto era uno che era stato da noi accompagnato fino alla sua fine. Se la morte non giungeva improvvisa («A subitanea et improvisa morte libera nos, Domine», si pregava nelle litanie), si aveva cura del malato per alleviargli il dolore e perché non si sentisse solo e abbandonato. Chi era legato al morente da parentela o affetto, mostrava proprio nell’accompagnarlo verso la morte la qualità di tale relazione. Si trovava il tempo necessario, non si abbandonava il malato ai medici e all’ospedale, e anche la chiesa aveva la possibilità di farsi “traghettatrice” tra questo mondo e il Regno. Vi erano preti in numero sufficiente, capaci di andare al capezzale del morente, di amministrargli i sacramenti che infondevano forza di fronte all’enigma e ridavano pace, con la remissione dei peccati, a chi sapeva di incontrare il temibile e misericordioso Giudice della propria vita. Sovente il prete e il chierichetto (quest’ultimo ero io) restavano al capezzale del morente fino all’ultimo respiro, quando con autorevolezza la voce ferma proclamava: «Parti, anima cristiana, da questo mondo, nel nome del Padre che ti ha creato, del Figlio che ti ha redento, dello Spirito santo che ti ha santificato». A chi è morto a Bose ho avuto finora la grazia di essere accanto a lui/lei, di mettere la mia mano nella sua e di poter dire queste parole, vedendo poi il morente spirare in una grande pace. Questo accompagnamento è decisivo, perché la morte è la prova più grande che ci attende ed essere accompagnati è ciò che più ci aiuta a fare della morte stessa un atto, non a subirla, a ridare puntualmente a Dio la vita, non a lasciare passivamente che ci venga strappata.
Dopo la morte, il seppellimento: lo si sa ancora fare oppure si chiamano gli addetti specializzati a compiere azioni che addirittura ci ripugnano, tanto ormai abbiamo rimosso e negato la morte? Il morto va lavato, prima dell’irrigidimento cadaverico, va rivestito in modo che risplenda la sua dignità, va composto in una postura che gli dia onore e lo renda il più possibile eloquente, come è stato in vita. Anche in questo noi umani ci distinguiamo dagli animali, che non seppelliscono i loro morti. I riti che abbiamo elaborato hanno un profondo significato per noi che restiamo e per le generazioni dopo di noi, che dovranno anch’esse imparare a morire e a seppellire i morti. Purtroppo oggi molte morti sono anonime, i parenti stessi non sanno né vogliono più fare il lutto, né affrontare ciò che è necessario per seppellire i loro cari. Tutto è demandato alle imprese di pompe funebri, affinché dispongano loro ciò che noi non sappiamo fare, privandoci di esperienze che sarebbero utili e fonte di insegnamento, nonché di relazioni sociali. Così anche i nostri morti non sono più il nostro prossimo e il rapporto con loro è lasciato in mano ad altri…
Al contrario, non posso dimenticare che, quando ero piccolo, dopo aver accompagnato il morto in chiesa e poi al cimitero, tornati a casa si celebrava con un pranzo la comunione che il morto aveva vissuto con tutti quelli che erano a tavola insieme. Il pasto era preparato non dalla famiglia del defunto, che non ne aveva il tempo, ma dagli amici, che contribuivano ciascuno con una portata. Che comunione umana, che celebrazione, che ringraziamento! La morte era un’occasione di rinnovamento degli affetti e della comunione: a tavola si ricordava il morto, narrando gli uni agli altri l’affetto che si era vissuto con lui, a volte anche tutti insieme, come suoi amici.
Tornando all’oggi, va detto che, oltre alle imprese funebri, le altre azioni verso il morto sono delegate alla chiesa oppure, sempre più, ad agenzie incaricate di apprestare camere ardenti, di predisporre musiche, di organizzare un rito che preveda interventi e parole di parenti o amici, non secondo una forma che scaturisca dalla vita (come nei riti religiosi tradizionali), ma secondo un copione mutuato da film o fiction…
Va riconosciuto che, tra tutte le azioni di misericordia corporale, la sepoltura dei morti è quella di cui meno ci si preoccupa; anzi, oggi è diventata quasi impossibile da viversi con consapevolezza e sentimenti umani. La compassione, la misericordia anche verso i morti appartengono a quelle “leggi non scritte e non mutabili” che emergono, o dovrebbero emergere, dal cuore di ogni persona e che richiedono per chi muore un luogo, il cimitero, in cui si dorme e si riposa; in cui, per la fede cristiana, c’è il segno di una vita che non può andare perduta e che al di là della morte riceve una nuova forma, quella della vita eterna. Dal modo di seppellire i morti si misura il livello di umanizzazione di una società o di una generazione umana, come affermava già Pericle. E quando così non avviene, ecco apparire le fosse comuni delle stragi e dei genocidi, le tombe violate dal fanatismo razzista, i corpi abbandonati perché non c’è più umanità. Sì, il modo in cui si muore e in cui si seppelliscono i morti dicono la qualità umana di una società e anche la qualità della fede nella resurrezione della carne.
Infine, non si dimentichi che anche questa azione di misericordia corporale causa un grande bene a chi la compie: lo porta a riflettere sull’interrogativo della morte, su ciò che la morte è come enigma/mistero per ciascuno; a misurare il proprio limite; a discernere ciò che è essenziale alla vita; a riflettere su cosa sono gli altri per noi; a misurare se il nostro amore dura finché l’altro ci è utile oppure se resta anche quando l’altro non c’è più. La fede cristiana ci rivela che, con il battesimo, siamo stati con-morti con Cristo e siamo stati con-sepolti con lui, per rinascere con lui nella resurrezione (cf. Rm 6,3-5; Col 2,12). Siamo dunque stati con-sepolti con Cristo, e praticare questa azione verso gli altri è dire “amen” al nostro cammino insieme a Gesù verso il Padre, Dio.

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele), Ostuni (Brindisi), Assisi e San Gimignano.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
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