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La conversione nasce dalla speranza

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05/08/2009

Tratto da:
Jürgen Moltmann, Esperienze di Dio, Queriniana, Brescia 1981, pag. 38-39; 43-44
in: Comunità Monastica di Bose (a cura di), Letture dei giorni, Piemme, Casale Monferrato 1994, pag. 115-116

Guida alla lettura

Questo splendido brano di Jürgen Moltmann ci invita alla speranza come alla sola forza capace di cambiare in profondità la nostra esistenza: una forza che ci permette di uscire dalle situazioni di non-vita, in cui il dolore fisico, la sofferenza psicologica e, talora, la colpa morale sembrano trascinarci in un abisso senza fine.
La riflessione di Moltmann, teologo protestante fra i più brillanti del Ventesimo secolo, si sviluppa a partire dal presupposto della fede in Dio, e più precisamente nel Dio di Gesù Cristo: il rabbi vissuto in Palestina duemila anni fa, e che secondo i cristiani ha narrato in termini definitivi il volto di Dio (cf. Gv 1,18), ci ha mostrato anche il vero volto dell’uomo, e come tale è modello di ogni vita riuscita e sorgente di ogni speranza non effimera. In questo senso, il brano parla innanzitutto ai credenti, chiarendo fra l’altro con estrema forza quanto la vera conversione sia lontana dall’idea di una penitenza implacabile, alimentata dai sensi di colpa e parossisticamente ripiegata sugli errori del passato: un’idea perversa e sempre in agguato, per liberarsi della quale è essenziale capire che la legge di Dio è per la vita, non per la mortificazione dell’uomo.
Ma anche per chi non crede in questo Dio, o in nessun altro Dio, le parole di Moltmann aprono orizzonti inediti e potenzialmente sconfinati: chi riconosce il proprio passato e lo accetta senza autogiustificarsi, è già sulla strada che porta alla sconfitta di «tutte le potenze che distruggono la vita». Pensiamo al dramma della solitudine, al dolore del lutto non superato, alla sofferenza silenziosa dell’amore ferito, alla prigione dell’alcol o della droga: in tutte queste situazioni, laici e credenti possono trovare nella speranza una forza che ci trascende e ci guida, una forza esigente ma capace di vincere la morte che ci opprime e di aprirci «un nuovo tempo, una nuova possibilità e una nuova libertà».
La fede che apre al futuro è innanzitutto una fede che rende possibile la conversione. E la conversione è la prassi della speranza vitale. Chi non ha speranza, chi non vede davanti a sé un futuro, non può convertirsi. Prima, invece che di conversione, si parlava di penitenza. Ma nella nostra lingua questo termine ha un sapore di punizione: chi fa penitenza si punisce finché non ha rimediato agli errori del passato. Per la Bibbia, invece, penitenza è conversione, e conversione è conversione al futuro: conversione al Dio vivente e quindi rinuncia alla morte e a tutte le potenze che distruggono la vita.
La speranza nel futuro è possibile solo quando si riconosce onestamente il passato e lo si accetta senza autogiustificarsi. Senza dubbio ogni rinuncia, anche quella alle vie che portano alla morte, è dolorosa, perché significa congedarsi da abitudini ormai inveterate, diventateci familiari. Ma la gioia per il futuro della vita è incomparabilmente maggiore. Conversione è gioia di Dio e degli uomini, come ci attesta il Vangelo di Luca (cf. Lc 15,10: «C’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte»). Con il movimento della conversione la speranza ritorna alla vita. Soltanto attraverso la conversione noi siamo nuovamente certi del futuro.
La conversione afferra la nostra vita intera. Non le basta un cambiamento del modo di sentire, ma esige una nuova prassi di vita. Né sono sufficienti le buone intenzioni. Tutto ciò che viene inserito nel movimento della conversione diventa ricolmo di speranza. Tutto ciò che le rimane al di fuori resta morto e privo di senso. Per questo esiste anche una conversione politica ed economica al futuro. Chi nel movimento della conversione vuol fermarsi a mezza strada e la comprende in modo puramente interiore, religioso o spirituale, blocca il suo futuro e distrugge la sua speranza...
Chi prova angoscia per il futuro non può convertirsi, anche se lo vuole. Chi crede in una fine catastrofica del mondo non si convertirà, perché non avrebbe senso. Chi davanti a sé non vede alcun futuro continua ad andare avanti come sempre, finché cadrà all’indietro, nella buca che lui stesso si è scavato. Per convertirsi bisognerà avere la forza di una speranza che trasforma la vita e vince il mondo. Ma noi scopriamo la forza di una simile speranza soltanto quando troviamo e riconosciamo chiaramente il fondamento della speranza stessa. Qui non intendo riferirmi a delle argomentazioni che, pesate e ripesate, ci offrirebbero la speranza stessa. Intendo invece la sorgente vitale da cui questa forza promana. E la sorgente vitale della speranza sta in un futuro dal quale ci vengono continuamente un nuovo tempo, una nuova possibilità e una nuova libertà. E’ il futuro che troviamo in Gesù Cristo. E’ lui il nostro futuro. E’ lui la nostra speranza. Nella conversione che la fede ci rende possibile noi troviamo lui, il nostro futuro e la nostra speranza.

Biografia

Jürgen Moltmann, nato ad Amburgo nel 1926, è docente emerito di teologia sistematica alla Facoltà Evangelica dell’Università di Tubinga (Germania), e uno dei teologi più acuti, creativi e apprezzati del nostro tempo. È considerato l’iniziatore della “teologia della speranza”, una corrente di rinnovamento del pensiero teologico tradizionale che ha trovato risonanza soprattutto in America. Negli ultimi anni la sua riflessione si è orientata sempre più verso quella ch’egli ha definito “teologia della croce”. In questo contesto, sono suoi interlocutori la dialettica negativa e la teoria critica di Theodor Wiesengrund Adorno e Max Horkheimer, la prima teologia dialettica, la filosofia esistenziale e le teologia ebraica dell’Olocausto: tutte le moderne riflessioni sulla sofferenza del mondo.
Nato e cresciuto in una famiglia laica, durante la seconda guerra mondiale fu aggregato alle forze aeree ausiliarie tedesche. Si consegnò agli inglesi nel 1945. Durante i tre anni di prigionia, venne a conoscenza di Auschwitz, un’esperienza che lo colpì profondamente e lo avvicinò alla fede. Molti anni più tardi dirà: «Non fui io a incontrare Cristo, ma Cristo a incontrare me».
Fra le opere tradotte in italiano, spiccano “Il Dio crocifisso” (Queriniana, 2005) e “La provocazione del discorso su Dio”, scritto con Joseph Ratzinger (Benedetto XVI) e Jean Baptist Metz (Queriniana, 2005).
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