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Affido: come prevenire e curare lacerazioni inutili e dolorose

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28/09/2009

Dott.ssa Carla Forcolin
Presidente dell'associazione "La gabbianella e altri animali – Onlus"

Premessa

Avete mai visto i bambini di pochi mesi in un orfanotrofio del “mondo povero”? Stanno nelle culle, silenziosi, e si rianimano solo quando qualcuno, per nutrirli o cambiarli, li avvicina. Davanti a un sorriso, a una voce umana, i loro occhi si accendono, cambiano luce, ma quando la persona che li ha salutati, anche senza toccarli, se ne va, quando non risponde più ai loro vocalizzi, ridiventano opachi. Quanto soffrono quei bambini? Io credo in maniera indicibile. Non sanno se qualcuno verrà a dar loro da mangiare quando hanno fame, se potranno sopravvivere. Vivono nella paura di morire e in un’ansia di separazione costante. Erano uniti a un’altra vita, in un ventre caldo, e ne sono stati espulsi. La loro fonte di vita non c’è più. Sono rimasti senza la mamma, di cui hanno bisogno per vivere.

Adozione e affidamento

Ai bambini senza mamma la società degli adulti, se e quando può, offre una madre sostitutiva, che svolge le sue stesse funzioni. Di solito, una mamma adottiva. Ma non sempre si può accedere subito all’adozione: nel mondo occidentale in particolare, prima di assegnare una madre adottiva a un bimbo, si vuole essere sicuri che la madre naturale sia morta o non lo voglia proprio più, perché spesso il bambino, prima di essere dichiarato adottabile, l’ha conosciuta e ha fatto in tempo ad attaccarsi a lei. Nell’attesa, un’attesa che può durare anni, specialmente se la madre è affetta da forme di incapacità genitoriale o è tossicodipendente o ha una malattia mentale, si dà al bambino una mamma affidataria o, meglio, una famiglia affidataria. La famiglia adottiva sa di essere divenuta, per decisione delle istituzioni e per sempre, la famiglia del bambino accolto. Quella affidataria sa invece di svolgere un ruolo di sostituto genitoriale a tempo.
E’ impossibile spiegare a un bambino piccolo questa distinzione: egli non sa nulla di istituzioni. Però “sente” quello che c’è nell’anima di chi lo accudisce, avverte se finalmente qualcuno, famiglia adottiva o affidataria che sia, lo accoglie con sé, ascolta i suoi bisogni, gli dà risposte adeguate. Infatti il bambino abbandonato, anche dopo essere stato accolto in una nuova famiglia, è incerto, spaventato, mette alla prova le persone che si occupano di lui, crede di essere privo di valore (perché questo è il messaggio che l’abbandono gli ha trasmesso), e chi lo accoglie deve fargli sentire che un simile abbandono non ci sarà mai più. Ma se i genitori adottivi possono trasmettere un simile messaggio, quelli affidatari non possono.

Ripiombare nella disperazione

Al bambino posto piccolissimo in affidamento vengono trasmessi due messaggi contrapposti: uno verbale e logico (tu non sei nostro figlio, sei solo una persona cara, la tua famiglia è un’altra), uno fisico e analogico (ti teniamo accanto, sei la persona più preziosa di questa casa, qui tutti ti amano). Non è strano che lui privilegi quello analogico, spinto dal suo bisogno e dal suo desiderio di integrazione nella famiglia. Un bimbetto in tale situazione attaccò una sua fotografia a quella della famiglia prima del suo arrivo. E molti piccoli in affidamento si presentano con il cognome della famiglia affidataria ai compagni di scuola materna, specialmente se dal loro aspetto si capisce che sono stranieri.
Un bambino cresciuto in affidamento in una famiglia, e dalla stessa separato – per rientrare nella talora semi-sconosciuta famiglia d’origine o essere posto in adozione – si sente abbandonato di nuovo e ripiomba nella tristezza sconfinata di chi è separato dall’affetto della madre, del padre, dei fratelli. Se poi la scomparsa di quei legami riparatori si accompagna al venir meno di altre persone care, come gli amici e i maestri, e di luoghi noti (anche la “patria” è madre), la disperazione e il disorientamento sono profondissimi. Solo nuovi legami di altissima qualità, duraturi nel tempo, possono rassicurare chi subisce perdite ripetute di questo tipo; talora, però, il ripetersi di tali perdite rende le persone incapaci di abbandono e di fiducia per sempre, da piccole e da grandi.

Integrare le esperienze positive

Che fare? Rinunciare all’istituto dell’affidamento per non sommare le perdite? Di certo non è questa la soluzione al problema di chi è abbandonato e non è sicuro se andrà in adozione. Meglio essere stati amati a tempo di non esserlo stati affatto, per i primi anni di vita, i più preziosi; meglio aver assaporato l’amore, che non sapere nemmeno che cosa sia la dolcezza. Ma infinitamente meglio prevenire eventuali passaggi da una famiglia all’altra, attuando forme di adozione aperta, o adozioni a rischio giuridico, o comunque facendo in modo che tutti i rapporti positivi di un bambino prima o poi si integrino invece che disseminare la sua vita di lutti e separazioni. Essere separati da ciò che ci è caro è dolorosissimo e la separazione definitiva è una forma di morte, la morte di un rapporto. Se poi quel rapporto è con la madre o il suo sostituto, che della madre non è affatto meno prezioso, esso sorregge la vita interiore del bambino e la separazione forzata è un lutto serissimo. Negli affidamenti ben riusciti di neonati, che si prolungano per anni, succede proprio questo: al momento della separazione dalla famiglia affidataria viene tolto al bambino ciò che per lui più è vitale, e si capisce benissimo come mai gli occhi dei bambini separati d’autorità dai sostituti genitoriali siano simili agli occhi dei neonati orfani. Ma nessuno di coloro che hanno voluto mantenere leggi che permettono questi lutti e che le applicano alla lettera, convinti di fare il bene dei “fanciulli”, va ad osservare quei bambini dopo che hanno cambiato famiglia.

La negazione dei sentimenti

I bambini (e gli adulti) che abbiano subìto la morte reale di un genitore (o di un figlio) vanno rassicurati circa il fatto che il loro dolore è più che mai condivisibile e lecito, e che loro non potevano fare nulla per fermare il decorso di una malattia mortale o il verificarsi di una disgrazia. Vanno cioè sollevati da uno schiacciante senso di colpa, che negli esseri umani si accompagna sempre alla disgrazia. Così andrebbero trattati anche i bambini che hanno subito un distacco definitivo, voluto dalle istituzioni, da una buona famiglia affidataria, scelta in cuor loro come la propria. A questi bambini andrebbe spiegato che non sono stati rifiutati perché indegni di amore.
Ma questa rassicurazione non arriva quasi mai. Poiché l’affidamento non è l’adozione, le istituzioni che non hanno decretato la liceità dell’affetto tra affidato e affidatari negano i sentimenti dell’uno e degli altri con il silenzio. Non si ammette mai che ci possano essere rapporti tenerissimi tra affidatari e affidati; se si creano, si ritiene che gli adulti abbiano sbagliato in qualcosa. Ma che cosa dovrebbero fare, questi adulti? Abbracciare il bambino mettendo fra sé e lui una barriera? Respingere il bambino che ha incubi notturni, quando arriva al loro letto per cercare consolazione? Lavarlo con i guanti di gomma? Con i piccoli non si può agire diversamente da come agirebbe qualsiasi genitore biologico o adottivo. A poco serve che non si insegni al bambino a chiamare mamma e papà gli affidatari, se si adempie ai ruoli materno e paterno.

La storia di Monica

Monica arrivò nella famiglia affidataria a sei mesi, un periodo durante il quale non era quasi mai stata sollevata dalla culla, al punto che non aveva capelli sulla nuca. I suoi genitori erano tossicodipendenti e a loro erano già stati tolti altri figli, poi posti in adozione. Con mamma, papà e fratello affidatari visse il tempo necessario per imparare a camminare, a parlare e a giocare. Quando sentiva il cane abbaiare alla sera diceva sorridendo “mamma” (era la mamma che tornava dal lavoro). Poi venne dichiarata adottabile. La coppia adottiva individuata dal Tribunale per accoglierla gradualmente fu mandata nella casa degli affidatari, ma non volle prendere Monica con sé: troppo dolorosa era per quella coppia la sensazione di appropriarsi di una bimba che aveva già una famiglia negli affetti. La bimba venne allora portata all’Istituto degl’Innocenti e posta nuovamente in adozione, perché la nuova coppia adottiva non potesse vedere la sua reale situazione e la bambina non percepisse la nuova famiglia come causa della perdita della vecchia. Quando la famiglia affidataria, che l’aveva cresciuta per circa un anno, chiedeva sue notizie all’assistente sociale, la risposta era sempre “sta bene”.

La storia di Beatrice

Beatrice rimase 20 mesi nella famiglia affidataria, con una sorella ormai ventenne, un fratello di dieci anni che l’adorava e genitori affettuosi. Aveva passato i primi 40 giorni di vita in ospedale, in incubatrice, poi era approdata alla famiglia affidataria grazie all’associazione che aveva aiutato anche sua madre. Qui si era perfettamente integrata: giocava e rideva con il fratello maggiore, civettava con il papà, si aggrappava alla mamma se non stava bene. Venne portata nella famiglia adottiva poco prima delle vacanze di Natale, dopo due soli incontri di preparazione. Di lei si seppe che aveva avuto un periodo di profonda depressione, da cui si era ripresa grazie alle cure affettuose dei genitori adottivi, sostenuti a loro volta da psicologi. Il ricorso degli affidatari alla Corte d’appello del Tribunale dei Minorenni di competenza portò a una sentenza rivoluzionaria: era stato sbagliato, cioè contrario all’interesse della bambina, toglierla dalla famiglia in cui si trovava. Ma i tempi per portare a termine il ricorso erano stati tali che pareva ormai inopportuno farla tornare indietro, dopo che si era faticosamente inserita nella nuova casa. Beatrice rimase così nella famiglia adottiva.

La storia di Paolo

Paolo giunse nella famiglia affidataria già grandicello, dopo aver subito maltrattamenti, percosse e traumi da parte della madre. Non aveva mai avuto un vero padre e qui lo trovò. Metteva la famiglia affidataria sempre alla prova, combinava ogni sorta di guai, finché l’affettuosa fermezza dei genitori non lo convinse ad “arrendersi”. L’assistente sociale, che aveva individuato la famiglia affidataria, si era preoccupata del suo futuro e la famiglia che lo aveva accolto aveva già adottato una bimba. Avrebbe potuto adottare anche lui e questi furono in effetti gli accordi iniziali: ma poi il bambino cambiò assistente sociale e la seconda operatrice aveva opinioni diverse dalla prima. Non volle nemmeno considerare l’opportunità che il piccolo restasse dov’era (considerava forse che una simile ipotesi costituisse una violazione della legge?). Paolo era appena diventato un bambino sereno e affettuoso con i genitori e la sorella, che dovette lasciarli per andare in adozione presso un’altra famiglia: regredì nello sviluppo e divenne violento nei comportamenti.

Un triste bilancio

In tutti questi casi le famiglie affidatarie avrebbero voluto adottare i bambini che avevano accolto e che nel corso dell’affidamento erano divenuti adottabili. Monica, Beatrice, Paolo e mille altri non avrebbero dovuto essere separati dalle loro famiglie nell’affetto, avrebbero dovuto essere adottati nelle famiglie in cui già si trovavano, applicando semplicemente le possibilità che la legge sull’adozione consente (art. 44 della legge 184/83, ora art. 25 della legge 149/01). Così non è stato. Questi bambini – e tanti altri come loro o peggio di loro (una bimba, Maria, rimase in affidamento per nove anni, prima di ritornare nella famiglia d’origine) – hanno dovuto subire per legge la perdita di coloro che ai loro occhi erano ormai diventati genitori amatissimi, che avevano saputo curare le loro ferite e ridare loro fiducia in sé e nella vita.

Un dolore che riguarda tutti

E’ giunta l’ora che si prenda coscienza dei danni che si provocano nel mantenere adozione e affidamento separati a tutti i costi. Chi predispone affidamenti deve far presente ai propri superiori le situazioni drammatiche che si creano quando l’affidamento funziona bene e, ciononostante, lo si vuole interrompere perché il bambino è diventato adottabile, come se una convivenza di anni fra adulti e bambini non costituisse un rapporto di vera intimità, importante e non meno significativo della relazione con i genitori biologici.
Inoltre è giunta l’ora che, se e quando le separazioni sono inevitabili, qualcuno – nei servizi, nei tribunali e nelle associazioni di volontariato – si ponga il problema di curare la sofferenza inferta a grandi e piccoli con l’interruzione forzata del rapporto. E il dolore si cura divenendone consapevoli e condividendolo. Si cura liberandolo da pesanti sensi di colpa e inadeguatezza, senza minimizzarlo. Dobbiamo pensare che alcuni bambini sono stati costretti a cambiare relazioni primarie e secondarie, ambienti e abitudini, talora persino la lingua madre. E che certi lutti vengono percepiti già in anticipo dai bambini, che colgono l’imminente separazione prima ancora che venga loro comunicata, attraverso l’intuizione dei sentimenti dei grandi.

Piangerai quando me ne andrò?

I bambini non si vergognano di esprimere i propri sentimenti a chi li ha sempre capiti. E si preoccupano per sé e per il vuoto che lasceranno in chi li ama.
Chi è stato separato dalle persone con cui viveva e a cui voleva bene, ha bisogno almeno di qualche telefonata, di qualche incontro con chi è rimasto nel suo cuore. Ma forme di rapporto tra le famiglie che abbiano successivamente accolto un bambino non sono previste per legge, e sono poco attuate nei fatti. Anzi, sono spesso viste come un ostacolo all’attaccamento fra il bambino e la famiglia che lo ha accolto per ultima, specialmente se si tratta di una famiglia adottiva. Così i piccoli sono lasciati soli, con la fantasia di essere stati ancora una volta abbandonati, con i loro sensi di inadeguatezza e di colpa, e gli ex-affidatari rimangono a chiedersi se abbiano omesso di fare qualcosa per proteggere i bambini.

Una nuova prospettiva

La separazione obbligatoria, senza il diritto di frequentare chi si è cresciuto, non favorisce l’affidamento e addirittura porta la gente ad identificarlo con la sua triste ed aspra conclusione, anche se ci sono molti affidamenti che si concludono bene, con il rientro a casa dei bambini che sono stati per un breve periodo in una famiglia “amica”, che tale rimane.
Affidamento e separazione forzata dalle persone care a molti appaiono sinonimi: non dimentichiamo che spesso è dolorosissimo anche il distacco iniziale del bambino dalla famiglia d’origine e soprattutto dalla mamma, perfino quando la stessa lo maltratta. Per evitare nell’immaginario comune tale sovrapposizione, servizi e tribunali si devono porre il problema di evitare di costellare la vita dei bambini più sfortunati con rapporti affettivi interrotti, sia attualmente, a legislazione invariata, sia nell’ipotesi di auspicabilissime circolari applicative della legge 149/01.
Già si è detto come anche ora, con la semplice attuazione dell’art. 44, sia possibile trasformare affidamenti ben riusciti in adozioni all’interno della stessa famiglia in cui il bambino si trova; non si è ancora detto invece quanto sia necessario, per evitare comportamenti diametralmente opposti tra gli operatori, che la legge diventi meno ambigua. Benché non ci siano due affidi uguali fra loro sotto il cielo, la legge o le sue circolari applicative dovrebbero indicare con chiarezza la volontà del legislatore: se è preferibile tenere i due istituti rigidamente separati, per timore di aggiramenti della legge sull’adozione, o se è preferibile tutelare la continuità degli affetti.
A mio avviso la preoccupazione degli aggiramenti della legge è eccessiva ed è comunque superabile: basterebbe che i requisiti per adottare o prendere in affidamento un bambino venissero equiparati e il problema sarebbe risolto. Ma la questione dei requisiti è più delicata di quanto sembri e prevede scelte politiche che dividerebbero il fronte laico da quello cattolico. In alternativa si potrebbe decidere, per lasciare alla legge la grande flessibilità di cui c’è bisogno, che le situazioni vengano valutate caso per caso (come d’altronde si fa già ora), ma tenendo come riferimento fondamentale la necessità della tutela degli affetti dei bambini, vista come corollario del concetto di “superiore interesse del minore”, sempre evocato dalla legislazione minorile.

Conclusioni

Suscitare l’attenzione dei politici, dei giudici e degli operatori sociali su questo problema reca con sé una conseguenza importante: quella di non dover più insistere sull’impossibile idea per cui non si debbano creare legami affettivi forti tra i bambini e gli adulti che li aiutano a crescere. Poiché tutti gli esseri umani hanno bisogno di amore, dalla nascita alla morte, è invece splendido che questi legami si creino e siano considerati, anche dalle leggi, la più preziosa risorsa della vita.
I legami affettivi sani vanno incentivati, tutelati e protetti. E’ davvero sconcertante che il nostro Paese continui a preferire nei fatti, nonostante le sue stessi leggi, le case-famiglia e le comunità alloggio alle famiglie vere, perché lì i bambini “non si affezionano troppo” e “non soffrono nel distacco”.
La piccola rivoluzione culturale che auspico avrebbe la conseguenza pratica di rendere più popolare l’affidamento e quindi di aiutare a svuotare le comunità e le case-famiglia dai loro ospiti, dando una famiglia di fatto e di diritto alle decine di migliaia di bambini e adolescenti che ne sono privi.
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