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Effetto placebo o nocebo: quanto contano le aspettative nella percezione del dolore?

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25/03/2008

Prof.ssa Alessandra Graziottin
Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Introduzione

Quanto contano le aspettative nella percezione ma anche nella terapia del dolore? Moltissimo.
La percezione del dolore, acuto e cronico, è un evento complesso, che coinvolge fattori biologici, psichici e ambientali. Anche in quest’ambito, le aspettative positive o negative hanno un ruolo formidabile nel modulare la percezione ultima dell’esperienza dolorosa (Field e Swarm 2008). Esse sono parte integrante di due effetti ben noti in medicina, l’effetto “placebo” e, all’opposto, l’effetto “nocebo”.
Lungi dall’essere espressione di pura “suggestione psichica”, questi effetti hanno una solidissima base neurobiologica, che merita di essere conosciuta, per potenziare l’effetto favorevole non solo dei nostri farmaci ma anche dei nostri comportamenti, specialmente, ma non solo, nella terapia del dolore, e limitare invece gli effetti negativi (Walach e Jonas 2004).
Che cos’è un placebo? L’effetto “placebo” (dal latino placere, letteralmente “io piacerò”) indica il ruolo favorevole delle aspettative positive, nei confronti di un farmaco ma anche di un comportamento. Per definizione, il placebo è una sostanza inerte, per esempio una compressa che non contiene principi attivi, priva quindi di attività biologica specifica, ma anche una qualsiasi altra terapia o provvedimento non farmacologico (un consiglio, un messaggio, un incoraggiamento), che, pur privo di efficacia terapeutica specifica, venga utilizzato per provocare un effetto positivo su un sintomo o una malattia.
E che cos’è l’effetto “nocebo”? Il termine deriva dal latino nocere (letteralmente “io nuocerò”), e indica le situazioni in cui l’aspettativa negativa può essere così potente da condizionare anche la risposta biologica. Per esempio, in caso di effetto nocebo l’assunzione di una compressa che non contiene principi attivi specifici, ma solo una sostanza inerte, può dar luogo a effetti collaterali, determinati dalla sola aspettativa negativa.

Effetto placebo e ricerca scientifica

L’effetto placebo viene usato nella ricerca scientifica per verificare l’effettiva azione di principi attivi in studio: un gruppo di persone viene trattato con il farmaco attivo e il gruppo di controllo (che deve avere rigorosamente le stesse caratteristiche di tipo di patologia, età, razza, quadro sintomatologico e clinico) viene trattato per l’appunto con il placebo. Confronto importante perché, per esempio, si sa che nelle malattie con una forte componente psicosomatica, quali l’insonnia, la cefalea o la depressione, ma anche il dolore, l’effetto placebo può arrivare al 35-40% di miglioramenti, fino a punte del 60-80%... nei primi tre mesi di trattamento. Dopo di che il gruppo placebo tende a tornare all’intensità di sintomi abituale, mentre il gruppo in trattamento attivo – se il farmaco funziona – mostra che il miglioramento non solo è più marcato, ma persiste nel tempo.
L’efficacia di un farmaco si misura proprio dalla differenza di efficacia terapeutica tra gruppo trattato e gruppo placebo, in genere a tre e sei mesi dall’inizio del trattamento.

Aspettative positive ed efficacia terapeutica

In che modo l’aspettativa positiva può essere curativa? In realtà dire che l’effetto placebo è “solo psicologico” non è corretto. Nuovi dati evidenziano come l’effetto placebo attivi specifiche aree cerebrali (Kong et Al. 2007; Scott et Al. 2008). Da un lato, l’aspettativa modifica l’atteggiamento che la persona ha verso i sintomi di cui soffre e verso la malattia che li sottende. Questo significa che si modificano milioni di neurotrasmettitori nel cervello: se l’aspettativa è positiva (“con questa cura vedrai che guarirò”), aumentano i neurotrasmettitori che mediano le sensazioni complesse di piacere e dolore, e si riducono invece quelli coinvolti nell’ansia, nel panico, nelle risposte di allarme che il cervello ha di fronte al dolore:
a) aumenta la serotonina, che regola il tono dell’umore: e sappiamo che la percezione della gravità di un sintomo, e soprattutto del dolore, aumenta se l’umore è depresso e migliora se l’umore è buono;
b) aumenta la dopamina, che migliora l’energia vitale, l’assertività, l’atteggiamento positivo e la speranza: aspetto quest’ultimo difficile da quantizzare, ma estremamente potente nel condizionare anche l’attività, per esempio, del sistema immunitario, attraverso sottili interazioni nervose, immunitarie e ormonali;
c) aumentano gli oppioidi endogeni, che sono i nostri analgesici naturali: e questo spiega il miglioramento anche del dolore, specie nelle sue componenti psichiche di risonanza, legate all’ansia, alla solitudine, alla depressione;
d) si riducono l’adrenalina e tutti i mediatori dell’ansia.

Come possiamo dimostrare che queste modificazioni avvengano effettivamente nel nostro cervello?

Mediante tecniche sofisticate di indagine quali la tomografia a emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale per immagini (fMRI), è nettamente cambiata la comprensione della base neurobiologica dell’effetto placebo (Kong et Al. 2007).
Queste tecniche hanno infatti evidenziato come l’effetto placebo attivi molte aree cerebrali:
- il giro cingolato anteriore, coinvolto nel colore emotivo di un’esperienza, ma anche nella modulazione del dolore viscerale (addominale e pelvico);
- la corteccia prefrontale, coinvolta nelle emozioni, nella percezione del tempo, nei meccanismi di ricompensa, nell’apprendimento discriminante e nell’impulsività, aspetti che possono essere coinvolti nella processazione del significato del dolore;
- la sostanza grigia periacqueduttale, coinvolta nell’ansia e nel panico, che aumentano anche nel dolore.
L’effetto placebo si estrinseca infatti a tre livelli della processazione dello stimolo doloroso, che coinvolgono le aree del cervello sopracitate:
a) influenzando le aspettative sul futuro sollievo del dolore prima dello stimolo doloroso;
b) modificando la percezione del dolore, anche attraverso una modificazione del tono dell’umore legata all’aspettativa positiva e al senso del tempo (che si allunga quando viviamo esperienze negative e si accorcia quando viviamo quelle positive);
c) modificando la valutazione dell’intensità del dolore dopo lo stimolo.
L’effetto placebo è quindi “reale” e si basa su significative variazioni dell’attività neurobiologica del cervello. E’ particolarmente evidente nell’analgesia placebo.
Questo indica come fattori psichici favorevoli, inclusa un’aspettativa di riduzione del dolore, possano attivare molteplici aree del cervello con un’efficace impatto analgesico sulla processazione dello stimolo doloroso, riducendone l’intensità percepita.
Quindi anche il placebo ha un effetto biologico, non legato al principio attivo ma alle aspettative positive che la stessa somministrazione, e il modo con cui è stata effettuata, hanno attivato nella persona così trattata (Field e Swarm 2008).

Effetto placebo e pratica clinica

Quando vediamo l’utilità dell’effetto placebo nella pratica clinica? Quando il medico sa ascoltare, sa diagnosticare, sa confortare: in tal caso, a parità di farmaci usati, ottiene miglioramenti molto più significativi del collega che usa correttamente la medicina ma resta freddo e distaccato. Anche l’atteggiamento del medico è un placebo formidabile, come si vede in modo eclatante nell’omeopatia, in cui i principi attivi sono a dosi ultradiluite, l’aspettativa è massima e i risultati positivi a volte sorprendenti.

Effetto nocebo e aspettative negative

Che cosa scatena l’effetto nocebo, ossia la comparsa di effetti collaterali in assenza di principi attivi? Ma anche, più spesso, la comparsa di tanti effetti collaterali con farmaci usualmente ben tollerati?
Negli studi clinici, l’effetto nocebo è presente con due cause principali: da un lato la persona attribuisce al farmaco che crede di assumere (mentre in realtà è nel gruppo di controllo) problemi o sintomi che erano già presenti ma cui dedicava prima poca attenzione e che ora attribuisce al farmaco (per esempio sintomi neurovegetativi “aspecifici” quali debolezza, stanchezza, irritabilità, ipersonnia o altre difficoltà nel sonno, o nella digestione, o sintomi sessuali; o sintomi cutanei minori, come un’acne lieve).
Dall’altro lato, l’effetto nocebo opera attraverso il condizionamento negativo che la persona ottiene documentandosi sulla ricerca in corso, o sul farmaco che sta assumendo (se è un paziente in terapia reale): l’aspettativa negativa agisce poi sul sistema neurobiologico, immunitario ed ormonale in modo opposto a quanto fa il placebo.
E’ un effetto raro? Nient’affatto. Ogni medico lo vede quotidianamente in molti pazienti, quando lamentano una lista di effetti collaterali, con un farmaco in genere ben tollerato, solo perché hanno letto il foglietto illustrativo che accompagna la confezione e sono rimasti spaventati.

Che cosa può aumentare la vulnerabilità all'effetto nocebo?

Alcuni fattori, soprattutto:
a) l’avere una personalità ansiosa, e quindi iperreattiva, anche dal punto di vista neurovegetativo, che è il grande regista delle nostre reazioni primarie ad un farmaco;
b) l’essere depressi: alcuni studi indicano che la depressione può aumentare da tre a sette volte la percezione del dolore in caso di dolore viscerale, sia esso dovuto ad endometriosi, a sindrome del colon irritabile, a cistite, a dispareunia profonda.
c) l’avere paura del futuro: aspetto drammatico soprattutto nel dolore cronico, in cui il/la paziente non vede più via d’uscita;
d) l’avere un medico distaccato e frettoloso, che non attiva la fiducia essenziale a capire perché quel farmaco sia necessario per guarire o almeno migliorare;
e) il vivere in un contesto (media inclusi) che demonizzi il farmaco usato (basti pensare al terrorismo effettuato contro le terapie ormonali sostitutive per le donne in menopausa).

Effetto nocebo e basi neurobiologiche

Esiste un’evidenza sulla base neurobiologica dell’effetto nocebo? Sì, recentissima (Scott et Al. 2008). L’effetto nocebo è associato con una riduzione della liberazione di dopamina e di oppiodi endogeni in diverse aree cerebrali, valutate mediante tomografia a emissione di positroni (PET). Aspetto interessante: le aree cerebrali coinvolte nell’effetto placebo o nocebo sono le stesse coinvolte nei sistemi di ricompensa e nei comportamenti motivati.
Lo studio aggiunge un ulteriore tassello alla comprensione delle basi biologiche dell’effetto placebo e nocebo. E mostra come l’attivazione del sistema dopaminergico di ricompensa possa essere parte essenziale del processo di accettazione e valutazione positiva di un farmaco, che sta poi alla base di compliance, aderenza e persistenza d’uso.

Conclusioni

In positivo, come possiamo utilizzare al meglio il ruolo dell’effetto placebo, dell’aspettativa positiva in ogni percorso di guarigione (the “science of healing”) (Walach e Jonas 2004)? Incoraggiando innanzitutto la persona che soffre, o è malata, ad assumersi il ruolo di protagonista del percorso di guarigione; stabilendo un buon rapporto medico-paziente, che ottimizzi la fiducia e la speranza, e sappia valutare con intelligenza clinica i veri effetti collaterali distinguendoli dai sintomi che sono in realtà un modo per dire “dottore, ho paura”. E, come familiari, o volontari, sostenendo con la presenza, l’affetto, la sollecitudine, la persona malata, e spaventata, che affronta la piccola o grande sfida di riuscire a guarire. Anche l’amore che aiuta e sostiene, l’amore visibile, l’amore che cura, può minimizzare la paura, soprattutto nel dolore cronico, riducendo l’effetto nocebo; e potenzia invece la speranza e la capacità di guarire – il perfetto effetto placebo – utilizzando così al meglio i farmaci attivi.

Bibliografia essenziale

Field B.J. Swarm R.A.
Chronic pain – advances in psychotherapy. Evidence based practice
Hogrefe & Huber, Cambridge, MA, 2008


Kong J. Kaptchuk T.J. Polich G. Kirsch I. Gollub R.L.
Placebo analgesia: findings from brain imaging studies and emerging hypotheses
Rev Neurosci. 18 (3-4): 173-90, 2007


Scott D.J. Stohler C.S. Egnatuk C.M. Wang H. Koeppe R.A. Zubieta J.K.
Placebo and nocebo effects are defined by opposite opioid and dopaminergic responses
Arch Gen Psychiatry. 65 (2): 220-31, 2008


Walach H. Jonas W.B.
Placebo research: the evidence base for harnessing self-healing capacities
J Altern Complement Med. 10 Suppl 1: S103-12, 2004

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