EN
Ricerca libera
Cerca nelle pubblicazioni scientifiche
per professionisti
Vai alla ricerca scientifica
Cerca nelle pubblicazioni divulgative
per pazienti
Vai alla ricerca divulgativa

Dolore pelvico cronico: fattori psicogeni e impatto psicologico – Quarta parte

  • Condividi su
  • Condividi su Facebook
  • Condividi su Whatsapp
  • Condividi su Twitter
  • Condividi su Linkedin
04/10/2011

Prof.ssa Alessandra Graziottin
Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Introduzione

Nella prima parte dell’articolo abbiamo spiegato come il dolore, soprattutto se cronico, sia un segnale che reclama un’attenzione immediata al nostro stato di salute fisica e psichica; e abbiamo esaminato i fattori psicogeni che possono indurre la cascata di eventi che porta alla manifestazione algica. Nella seconda parte abbiamo analizzato il processo attraverso cui i fattori psicogeni si traducono in dolore fisico e, nella terza, i criteri diagnostici che permettono di accertare l’eventuale componente psicogena del dolore.
In questa quarta parte, illustriamo come evitare una serie di errori clinici che possono contribuire a mantenere il dolore pelvico cronico: l’omissione diagnostica o, al contrario, la sopravvalutazione di molestie e abusi pregressi; la lettura non integrata del percorso neurobiologico che interconnette abuso e dolore pelvico cronico; le possibili forme di “abuso iatrogeno”; l’assenza di un rapporto medico-paziente basato sulla fiducia, sull’ascolto e su una comunicazione clinica completa e comprensibile.

Omissione diagnostica

Purtroppo la preparazione tradizionale delle scuole di medicina (non solo italiane) non dà una preparazione adeguata sul fronte psicologico né, tanto meno, sessuologico. Di conseguenza, la maggior parte dei medici non si informa sistematicamente su eventuali molestie o abusi pregressi, per il timore di fare una domanda troppo intima, per la sensazione di non essere abbastanza preparati ad affrontare un tema del genere, o per evitare il rischio di aprire un “vaso di Pandora” colmo di afflizione, lacrime e rimpianti che richiederebbe troppo tempo e competenze specifiche per essere gestito. Solo una minoranza (il 3%, secondo uno studio canadese condotto su ginecologi e medici di famiglia) indaga su violenze o abusi passati. Ma è difficile intervenire con efficacia su un problema, se non si fa menzione del problema stesso!

Sopravvalutazione diagnostica

Sul fronte opposto, la mancanza di formazione specifica e di esperienza nella consultazione psicoterapeutica può indurre a fare di un’esperienza negativa, come l’abuso, “LA” causa di ogni problema medico e/o psicosessuale portato in consultazione, correndo quindi il rischio, opposto al precedente, di perdere di vista significative comorbilità mediche correlate e/o indipendenti. Per una diagnosi ottimale, si dovrebbe sempre ragionare in termini di “e… e”, e non di “o… o”, esplorando sia l’area cosiddetta psicogena, sia l’area biologica/medica in modo bilanciato e documentato, e sempre con delicatezza e rispetto nei confronti della paziente. Anche la scelta del momento ottimale per indagare su eventuali abusi pregressi richiede molta sensibilità: la donna può sentire che può svelare un’esperienza che l’ha intimamente angosciata solo dopo che diversi incontri con il medico curante e/o lo psicoterapeuta hanno creato il clima di fiducia necessario per sentirsi accolta e ascoltata in una rivelazione ancora carica di emozioni dolorose.

Lettura fisiopatologica non integrata

Una difficoltà che ogni medico incontra nella pratica clinica è quella di non riuscire a leggere il percorso neurobiologico comune che interconnette abuso e dolore pelvico cronico, ossia il complesso insieme di emozioni – paura, terrore, ansia, angoscia, dolore fisico ed emotivo, panico, depressione, senso di solitudine, disperazione – che vengono scatenate sia nell’abuso fisico e sessuale, sia nel dolore pelvico cronico. Più specificamente, entrambi coinvolgono, direttamente e indirettamente, l’area del corpo caratterizzata dal più elevato impatto emotivo (in quanto deputata alla funzione sessuale e riproduttiva, oltre che al controllo degli sfinteri e quindi alla continenza), e hanno entrambi un fortissimo significato simbolico. L’essere umano è un animale capace di simbolizzazione, e la lettura simbolica della vita supera i confini dell’educazione, della culture e delle etnie, e diviene universale.
Il punto critico è che ogni emozione, ogni sensazione, ogni ricordo sono sottesi da modificazioni neurochimiche che pervadono tutto il corpo, oltre che il cervello. Per esempio, in caso di abuso fisico e sessuale, la donna, ma anche il bambino, ogni qualvolta ricordino l’abuso, o abbiano incubi ricorrenti basati su quell’ abuso, rivivono esattamente tutte le sensazioni fisiche di orrore, angoscia, paura di morire e dolore fisico vissute in quell’esperienza. Questo si associa ad iperattivazione della via ormonale dello stress (Corticotrophin Releasing Pathway, la via di rilascio delle corticotropine), con incremento dell’adrenalina e del cortisolo, ma anche delle molecole infiammatorie che contribuiscono biologicamente ad aumentare anche la depressione conseguente all’abuso stesso. Si tratta di scoperte recenti, non ancora condivise da tutta la comunità scientifica e clinica: ecco perché è importante parlarne!

Forme di abuso iatrogeno

Esistono quattro forme di “abuso” iatrogeno (Graziottin, 2006), tutte caratterizzate – in varia misura – da un effetto nocebo (Benedetti et Al, 2007; Scott et Al, 2008):
a) la negazione della verità biologica del dolore: ogni volta che un medico dice che «il dolore è tutto nella sua testa», incrina il rapporto fiduciario con la paziente, e può provocare in lei ulteriori emozioni negative, come ansia, depressione, senso di disvalore, solitudine e disperazione. Ma può anche scatenare ulteriormente la violenza domestica – a livello fisico, emotivo o sessuale – quando dice ai familiari e/o al partner che la donna si sta “inventando” il dolore. Molti uomini vanno su tutte le furie all’idea di continuare a viaggiare e spendere soldi nel “doctor shopping”, e di rinunciare al sesso quando il dolore pelvico cronico provoca o include dispareunia, mentre lei in realtà non ha “niente”, il dolore che asserisce di avere non esiste ed è solo una scusa per non avere rapporti: «Se il dottore ha detto così, che non hai niente, devi smetterla una volta per tutte di lamentarti. Sta' zitta! Ne ho abbastanza del tuo dolore!». Spiegare sempre la verità biologica del dolore diventa invece un positivissimo intervento, anche psicoterapeutico, sul partner e sulla famiglia. Più i familiari vengono aiutati a comprendere quanto c’è di fisico, medico, curabile nel dolore, più possono diventare essi stessi fonte di aiuto e sostegno per la donna. Con una spiegazione adeguata è possibile cambiare anche le atmosfere familiari e dare un senso diverso all’attesa di guarigione;
b) l’effetto nocebo in senso proprio: i medici conoscono bene l’effetto placebo, ma pochi sono consapevoli del fatto che esiste anche un potente “effetto nocebo”, che può essere indotto dal linguaggio verbale e non verbale. La ricerca in quest’ambito è infatti recentissima e ancora poco condivisa in ambito medico. Ogni volta che neghiamo la verità del dolore, o esageriamo la gravità della situazione, o comunichiamo una diagnosi negativa senza valorizzare lo spazio di speranza che dovrebbe essere coltivato per ogni paziente, soprattutto nel campo del dolore pelvico cronico, l’effetto nocebo è in agguato, per cui l’attesa di un evento negativo può determinare il peggioramento del sintomo (Benedetti et Al, 2007). Evidenze autorevoli indicano come l’effetto nocebo si fondi su basi neurobiologiche, esattamente come l’effetto placebo. In particolare, quando le parole o gli atteggiamenti esprimono dolore, si verificano un aumento dell’ansia anticipatoria e una riduzione dell’attività svolta dalle vie serotoninergica, dopaminergica e opiatergica, di segno opposto rispetto a quella documentata quando intervenga l’effetto placebo (Benedetti et Al, 2007; Scott et Al, 2008). Recenti evidenze sperimentali indicano inoltre che le suggestioni verbali negative provocano ansia anticipatoria riguardo l’incombente peggioramento del dolore, e che questa ansia indotta a livello verbale provoca l’attivazione di colecistochinina (CCK) che, a sua volta, facilitata la trasmissione del dolore. Per contro, si è scoperto che gli antagonisti della colecistochinina bloccano questa iperalgesia indotta dall’ansia (“nocebo hyperalgesia”), aprendo così la possibilità di nuove strategie terapeutiche ogniqualvolta il dolore abbia un’importante componente d’ansia (Benedetti et Al, 2007).
La raccomandazione pratica è di essere sempre consapevoli del potente effetto emotivo e biologico delle parole, e di comunicare sempre con tatto e accuratezza, bilanciando la descrizione della gravità del caso con l’attenzione a tutto ciò che verrà fatto per ridurre il dolore e per migliorare le condizioni della paziente. Sarà così possibile valorizzare l’effetto curativo del buon rapporto tra medico e paziente, nonché della fiducia, rispettosa della verità del dolore, stabilita anche con i familiari;
c) l’abuso fisico: il 5,8% delle mie pazienti con dispareunia cronica e vestibolite vulvare (dati non pubblicati) riporta come unica esperienza traumatica, così dolorosa o inquietante da essere vissuta come “abuso”, le manovre diagnostiche o terapeutiche invasive effettuate nell’area genitale da medici o infermiere, nell’infanzia o nella prima adolescenza, senza la dovuta delicatezza o senza un’appropriata analgesia. Esami come il tampone uretrale, la cistoscopia, i tamponi vaginali, la visita vaginale, la sutura di traumi genitali minori a seguito di ferite subite giocando, la separazione manuale delle labbra conglutinate dal lichen sclerosus, sono ricordate come traumatizzanti, dolorose, se non addirittura violente, e in grado di aumentare l’ansia anticipatoria non appena un “camice bianco” si avvicina al corpo della paziente (Graziottin, 2006). Ancora una volta, ci troviamo di fronte a un effetto nocebo potente, duraturo e fondato su solide basi neurobiologiche.
In positivo, l’attenzione ad effettuare ogni manovra diagnostica in area genitale, anche e soprattutto in età pediatrica o in adolescenza, con grande rispetto, delicatezza, attenzione e con la giusta analgesia è la migliore prevenzione nei confronti di quei ricordi negativi che possono altrimenti costituire fattori di vulnerabilità nei confronti del dolore genitale;
d) l’abuso sessuale: quando un professionista della salute (medico, infermiere, psicologo e così via) viola i confini del corretto rapporto medico-paziente, le conseguenze negative di questo atto possono manifestarsi mesi o anni dopo l’abuso.

Importanza di un corretto rapporto medico-paziente

Il primo intervento psicologico, dotato di un potente effetto placebo e di rassicurazione, che ogni medico può effettuare nella pratica clinica, viene posto in atto:
a) ascoltando con rispetto ed empatia la storia personale della paziente, incluse le esperienze negative del passato;
b) spiegando alla donna e al partner, quando presente, che il suo dolore è reale e non nella sua testa, che esso ha un nome e un certo numero di cause fisiche e psicologiche da affrontare in modo bilanciato (diagnosi), e che per migliorare richiede un certo tempo (prognosi) e un approccio terapeutico interdisciplinare (terapia);
c) stabilendo un rapporto medico-paziente basato sulla fiducia. Quest’ultimo fattore è particolarmente importante quando si tratta di dolore pelvico cronico (McDonald, 1998; Field & Swarm, 2008): «Ho sentito che avevo finalmente trovato il medico che si sarebbe preso cura di me e del mio problema. Per la prima volta ho sentito di essere creduta, e la mia ansia è andata via». Quando una donna arriva a pronunciare queste parole piene di gratitudine, significa che il primo farmaco efficace, per lei, è stato il medico stesso: e questo potente effetto placebo, ancora una volta fondato su solidissime basi neurobiologiche, è oggi confermato da evidenze scientifiche crescenti e autorevoli (Benedetti et Al, 2007; Scott et Al, 2008).
Di converso, quando questo rapporto fiduciario manca, si perde l’opportunità di costruire un’alleanza terapeutica preziosa per orientare sul cammino della guarigione, ottimizzando l’effetto di tutte le cure specifiche, farmacologiche e riabilitative.

Conclusioni

Il dolore “psicogeno”, indotto da stress cronico, da eventi negativi, da abusi fisici, psichici e/o sessuali, ha solidissime basi biologiche, che possono mantenere e peggiorare il dolore e la depressione associati, nonché le possibili comorbilità mediche e psicosessuali.
Il medico che sappia instaurare un buon rapporto con la paziente, basato non solo sulla fiducia e il rispetto, ma anche su una grande attenzione alla verità biologica del dolore, diventa egli/ella stesso/a il primo strumento di terapia.
Non a caso Michael Balint (il medico “padre” della medicina psicosomatica) diceva sempre: «Il primo farmaco che il medico prescrive è se stesso», sottolineando così il ruolo terapeutico cruciale del dialogo, dell’ascolto e della fiducia, capaci di attivare il percorso di guarigione dalla sofferenza fisica e psichica se uniti, in parallelo, a una grande competenza nella capacità medica di cura delle cause biologiche del dolore stesso.

Approfondimenti specialistici

Benedetti F. Lanotte M. Lopiano L. Colloca L.
When words are painful: unraveling the mechanisms of the nocebo effect
Neuroscience. 29; 147 (2): 260-71, 2007

Field B.J. Swarm R.A.
Chronic pain – advances in psychotherapy. Evidence based practice
Cambridge, MA, Hogrefe & Huber, 2008

Graziottin A.
Iatrogenic and post-traumatic female sexual disorders
in: Porst H. Buvat J. (Eds), ISSM (International Society of Sexual Medicine) Standard Committee Book, Standard practice in Sexual Medicine, Blackwell, Oxford, UK, p. 351-361, 2006

Graziottin A.
Psychogenic causes of Chronic Pelvic Pain and impact of CPP on psychological status
in: Vercellini P. (Ed), Chronic pelvic pain, Wiley, 2011, p. 29-39

Mc Donald J.S.
Pelvic and abdominal pain
In: Ashburn MA, Rice LJ (Eds) The management of pain
New York, Churchill Livingston, Chapter 24, 383-400, 1998

Scott D.J. Stohler C.S. Egnatuk C.M. Wang H. Koeppe R.A. Zubieta J.K.
Placebo and nocebo effects are defined by opposite opioid and dopaminergic responses
Arch. Gen. Psychiatry 65 (2): 220-31, 2008
Sullo stesso argomento per professionisti

Vuoi far parte della nostra community e non perderti gli aggiornamenti?

Iscriviti alla newsletter