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Un amico vivo nella memoria

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Un amico vivo nella memoria
27/04/2022

Tratto da:
Norberto Bobbio, “Leone Ginzburg”
In: “Etica e politica. Scritti di impegno civile”, Progetto editoriale e saggio introduttivo di Marco Revelli, I Meridiani Mondadori, 2009

Nell'immagine: Leone Ginzburg
Le informazioni su Leone Ginzburg e Norberto Bobbio sono liberamente tratte da treccani.it/enciclopedia

Guida alla lettura

Un inno all’impegno coraggioso, all’amicizia profonda, alla memoria inossidabile: in questa formula può essere racchiuso il senso del brano pur dolente e attraversato da intenso cordoglio con cui Norberto Bobbio, filosofo del diritto e storico della cultura fra i più importanti del Novecento, ricorda il compagno di scuola e di pensiero Leone Ginzburg, ucciso a Roma dalle SS il 5 febbraio 1944.
Chi era Leone Ginzburg? Descriverne la figura, e la breve vita, è facile e al tempo stesso difficile, per l’enormità del lascito intellettuale e morale. Nato nell’aprile del 1909 a Odessa, una città sul Mar Nero di cui proprio in questi giorni seguiamo l’amaro destino di assedio e distruzione, era venuto in Italia da bambino. Al liceo D’Azeglio – lo stesso di Bobbio, Pavese, Massimo Mila, Giulio Einaudi – aveva studiato sotto la guida di Augusto Monti, che era arrivato a definirlo “discepolo maestro”: la vastissima cultura, il senso morale, la maturità solida ed equilibrata avevano da subito fatto di Ginzburg un punto di riferimento precoce per i compagni di studi e per gli stessi professori.
Laureato in lettere e docente di letteratura russa, insegnò giovanissimo all’Università di Torino. Della sua attività di studioso restano alcuni acuti saggi e traduzioni ancora oggi considerate classiche e insuperate: Taras Bul’ba, di Gogol, tradotto a 17 anni; Anna Karenina, di Tolstoj (1928-29); Nido di nobili, di Turgenev (1932); La sonata a Kreutzer, ancora di Tolstoj (pubblicata nel 1942); e infine La donna di picche, di Puskin, pubblicata postuma nel 1949.
Antifascista, militò attivamente nel movimento “Giustizia e Libertà”; arrestato nel 1934 e condannato a due anni di carcere, tornò poi a Torino, dove ebbe parte eminente nella direzione editoriale della Einaudi, contribuendo a farne, malgrado i tempi, uno strumento di alta cultura e di educazione politica (lo stesso incarico venne assunto, dopo la guerra, da Cesare Pavese). Confinato in Abruzzo con la moglie Natalia, futura scrittrice di rinomanza internazionale, ritornò all’attività politica dopo la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943. Arrestato dai tedeschi a Roma nel novembre 1943, morì in carcere per le torture subite. L’edizione completa dei suoi scritti è stata pubblicata da Einaudi nel 1964.
Nello stesso saggio da cui è tratto il brano che proponiamo in lettura, Norberto Bobbio scrive: «Il mondo morale di Leone aveva alcuni tratti caratteristici: la sicurezza incrollabile dei principi, che lo faceva apparire ardito nel concepimento dei programmi, saldo nelle decisioni, fiducioso nei risultati delle proprie azioni; l’intransigenza nella fedeltà ai principi posti e accettati, che imprimeva ad ogni suo gesto, sguardo, affermazione, il carattere della serietà, del rifiuto di ogni frivolezza e di ogni concessione all’edonismo; la coerenza, ovvero la costanza nelle conclusioni che debbono essere tratte dai principi, dalla quale discendevano il bando di ogni compromesso, di ogni doppiezza o sdoppiamento, la dirittura della condotta, il tener fermi gli impegni, la dedizione assoluta alle idee professate… Penso che molti amici, che gli furono vicini negli anni della propria formazione, debbano a lui la scoperta della vita morale: una disciplina ragionata e consapevole degli istinti, la sottomissione degli interessi particolari ad alcuni valori universali, la convinzione che la vita è una cosa terribilmente seria, e ogni distrazione, ogni abbandono, sono una perdita che deve essere recuperata con rinnovato rigore».
Leone Ginzburg – discepolo maestro a 15 anni, traduttore di Tolstoj a 17, politico lungimirante a poco più di 20, testimone della libertà a 35 anni non ancora compiuti – ci insegna, ancora oggi, l’urgenza del chiarimento a se stessi, l’importanza di un cammino rettilineo e coerente con il proprio orizzonte di desiderio, la serenità di fronte al pericolo, la consapevolezza che il dolore che può provenirci dal male del mondo è meno temibile del dolore di una vita non vissuta.

Il testo

Di fronte a chi muore di morte prematura e violenta si suol dire, a guisa di consolazione, che la vita aveva concluso ormai il suo ciclo e il destino era compiuto. Ma dinnanzi alla morte di Ginzburg, una simile consolazione non è possibile: sarebbe una stoltezza o una viltà. L’ultima lettera di Giaime Pintor è una conclusione; anche l’ultima poesia di Pavese. Ma l’opera di Leone è rimasta tragicamente incompiuta, e nessuno ha udito le sue ultime parole. Spesso tra amici ci sorprendiamo a domandarci: «Quale atteggiamento avrebbe assunto Leone?», oppure con un senso di trepidazione: «Che cosa sarebbe diventato Leone?». Questo è il segno che la sua morte ha lasciato un vuoto e, dopo, non siamo stati più come prima. Sappiamo anche che il prezzo pagato è stato troppo alto, e non ci sarà restituito. La sua morte ci ha fatto apparire ancor più forsennato il furore degli uomini, ancora più abiette le ideologie di sangue e di strage che l’hanno scatenato, ancor più truci i volti dei fanatici incontrati sulla nostra strada, ancor più orrendi e inespiabili i massacri senza fine e senza scopo. (…)
Le nobili vite, come quella di Leone, sono state inghiottite dal mare della storia, sempre in burrasca; un relitto si erge per un attimo sulla cresta dell’onda, e poi è sommerso; ricomparirà per un altro attimo più avanti, ma tra un’onda e l’altra c’è solo furia, squallore, paura e impotenza. E non possiamo chiedere conto a nessuno. A chi chiedere conto della morte di Leone? Parole grandi come Dio, Storia, Spirito del mondo, o Natura (la Natura di Leopardi, che egli amava), ci sembrano parole troppo grosse per un fatto in fondo così piccolo, quotidiano, come la morte di un uomo; concetti troppo alti, astratti e astrusi, per un evento così terra terra, che si ripete ogni giorno tra l’indifferenza o il fastidio degli spettatori. Ma Leone è morto senza dire la sua ultima parola, senza dire addio a nessuno, senza concludere la sua opera, senza lasciarci un messaggio. Per questo non possiamo rassegnarci; né perdonare. E’ morto solo, come se non avesse più nulla da dire. E invece il suo discorso era appena cominciato. Gli siamo grati della lezione di umanità, di nobiltà, di coraggio, di serenità, di fiducia nella vita, di fermezza nella tragedia, che egli ci ha lasciata. Ma avremmo voluto averlo ancora con noi.
Son passati ormai molti anni, ma il timbro della sua voce, il suo sguardo, il suo modo di parlare e di ridere sono rimasti vivi nella mia memoria, come se l’avessi salutato ieri per l’ultima volta. Se lo richiamo alla mente, mi sorprendo di sentirlo così vicino, così presente, così accanto a me, dentro di me, come se fosse diventato parte di me stesso. Lo ritrovo in ogni passo della mia vita, nella mia continua sorpresa di essere ancora vivo e di aver fatto tante cose, buone e cattive, dopo di lui e senza di lui. La vita mi è apparsa sempre non come un tutto continuo, ma come un insieme di attimi staccati, emergenti dallo spessore opaco e indifferente del tempo: non so come dire, scintille che nascono, sì, dallo stesso ceppo, ma indipendenti le une dalle altre, senza alcun rapporto tra loro, ciascuna colla sua luce, più o meno fioca. La mia vita non è altro che tre o quattro di queste scintille: una di queste è stata accesa da Leone, e, per quel poco lume che ha dato, la luce era anche la sua.

Biografia

Norberto Bobbio nasce a Torino il 18 ottobre 1909 da Luigi, noto medico chirurgo e primario ospedaliero in città, e da Rosa Caviglia. La famiglia è di origine alessandrina. Al liceo Massimo D’Azeglio, tra il 1919 e il 1927, subisce l’influenza di autorevoli insegnanti antifascisti, come Umberto Cosmo, Arturo Segre, Zino Zini, Augusto Monti (il maestro di Piero Gobetti), ma anche di compagni precocemente entrati nelle file della cospirazione come Leone Ginzburg, Massimo Mila, Gian Carlo Pajetta, Vittorio Foa, Franco Antonicelli. Fra il 1927 e il 1931 frequenta la facoltà di Giurisprudenza, dove si laurea con Gioele Solari; farà seguito, nel 1933, una seconda laurea in filosofia.
In quegli anni si iscrive al GUF (Gruppo universitario fascista) e non partecipa alle iniziative di protesta contro gli atti intimidatori del regime; ma la frequentazione di amici che invece si espongono come antifascisti e della casa editrice fondata nel 1933 da Giulio Einaudi hanno come conseguenza un primo arresto il 15 maggio 1935, quando viene imprigionato tutto il gruppo del D’Azeglio. Bobbio rimane in carcere solo una settimana, ma l’ammonizione di cui viene fatto oggetto, destinata a compromettere la carriera universitaria alla quale si sta avviando (nell’autunno di quell’anno avrà il primo incarico di Filosofia del diritto a Camerino), lo induce a indirizzare al capo del governo Benito Mussolini una lettera di discolpa e adesione al fascismo. Quando molti anni più tardi, nel 1992, la lettera riemergerà dagli archivi e sarà pubblicata da un settimana a larga tiratura, Bobbio scriverà di essersi «ritrovato improvvisamente faccia a faccia con l’altro me stesso, che pure è esistito, ma credevo di avere sconfitto per sempre, anche dentro di me, nei lunghi anni che mi separavano da quell’evento», e di esserne stato sconvolto. E aggiungerà: «Ciò che mi ha turbato e ha creato in me uno stato di sofferenza, da cui non riesco a liberarmi, e di cui non riusciranno a liberarmi le parole di giustificazione dette da altri, è la lettera stessa, il fatto di averla scritta. La sento, quella lettera, oggi, naturalmente, come una colpa. Ma era una colpa anche allora, e non è possibile che non l’abbia avvertita come una colpa nel momento stesso in cui la scrivevo».
Il suo ingresso nell’antifascismo attivo data dal 1939 a Siena, dove da gennaio era stato chiamato a ricoprire la cattedra di Filosofia del diritto. A questa stagione risale la sua frequentazione di Aldo Capitini, da cui trarrà ispirazione per i suoi studi su pacifismo e non violenza e con il quale parteciperà nel 1961 alla prima marcia della pace ad Assisi. Passato nel 1942 alla cattedra di Filosofia del diritto dell’Università di Padova, prende parte alla fondazione del Partito d’Azione veneto. In conseguenza della sua attività clandestina viene arrestato il 6 dicembre 1943.
Scarcerato a fine febbraio, rientra a Torino per partecipare come membro del Partito d’Azione alle attività del Comitato di liberazione nazionale nel settore della stampa clandestina, dando vita al giornale “L’Ora dell’Azione”, su cui appare il suo primo articolo politico, “Chiarimento”: anticipando una tesi che sempre connoterà la sua posizione di equilibrio, mette in guardia dagli opposti pericoli in cui abitualmente incorrevano gli intellettuali, il politicantismo e l’apoliticità. Dopo la Liberazione inizia a collaborare attivamente con “Giustizia e libertà”, quotidiano torinese del Partito d’Azione, iniziando la sua diuturna battaglia per la democrazia come regime politico fondato sul primato delle istituzioni e sulla cultura delle regole.
Non si comprendono né il retroterra politico e culturale di Bobbio né il suo progetto intellettuale se non lo s’inserisce nella tradizione gobettiana della “rivoluzione liberale”, che negli anni della Resistenza era confluita appunto nel Partito d’Azione, crogiuolo della cultura politica laica della futura Repubblica. In questo retroterra affonda le sue radici l’instancabile battaglia per un’altra Italia, di cui la cultura azionista fu l’interprete più autentica: un’Italia civile fustigatrice del malcostume nazionale, della corruzione, della litigiosità endemica, della grettezza provinciale.
Nel dicembre 1945 intraprende un viaggio in Inghilterra, alla scoperta dei fondamenti di quella democrazia liberale che in Italia era stata soffocata sul nascere e del ruolo che in essa dovevano svolgere i partiti politici.
Nel 1948 Bobbio viene chiamato dall’Università di Torino alla cattedra di Filosofia del diritto nella facoltà di Giurisprudenza che era stata del suo maestro Solari: la terrà sino all’anno accademico 1971-72 (insegnando per incarico, dal 1962, anche Scienza politica), per poi passare nel 1972-73 a quella di Filosofia politica presso la facoltà di Scienze politiche – di cui, con Luigi Firpo e Alessandro Passerin d’Entrèves, era stato fra i fondatori – fino al collocamento a riposo, avvenuto nel 1979.
In questo trentennio Bobbio fa dei tre temi più trascurati dalla cultura politica post risorgimentale – pace, diritti, democrazia – l’oggetto principale della sua opera, con una costante riflessione sui valori e gli ideali della vita associata. In questi stessi anni dà decisivi contributi specialistici alla teoria generale del diritto e della politica, diventando in Italia il maggiore studioso di Thomas Hobbes e di Hans Kelsen. Nel celebre saggio “Sul fondamento dei diritti dell’uomo” (1965) argomenta che, rispetto ai diritti umani, più importante del problema della loro giustificazione è quello della loro realizzazione, cioè delle politiche atte a espanderli e renderli effettivi.
La vita politica diretta torna a coinvolgere Bobbio nella seconda metà degli anni Sessanta: con l’adesione al nuovo Partito socialista unificato, nel 1966, e soprattutto con la tempesta del ’68 studentesco. Da queste esperienze nasce il libro “Quale socialismo?” (1976), intorno al quale si sviluppa un intenso dibattito. Vi si sostengono tesi indigeribili per gli intellettuali comunisti di allora: l’essere la democrazia rappresentativa l’unica forma di democrazia attuabile in una società moderna; l’essere una politica socialdemocratica, dunque riformista e non rivoluzionaria, l’unica via praticabile per la sinistra in una società capitalistica che, a fronte del declino dei paesi socialisti, si mostra più viva e più forte che mai.
Nel 1976 inizia la collaborazione giornalistica con “La Stampa” di Torino. Molti dei suoi interventi ruotano intorno al tema delle degenerazioni della partitocrazia e sono volti ad ammaestrare una classe politica poco dotata di lungimiranza e senso di responsabilità. Il volume “Il futuro della democrazia” (1984) contiene una severa denuncia delle patologie del sistema politico italiano. Con “L’età dei diritti” (1990) e soprattutto con il suo maggiore successo editoriale, il saggio “Destra e sinistra” (1994), la sua opera di scrittore civile arriva a coprire tre quarti del secolo che volge al termine, offrendo uno specchio intellettuale particolarmente rappresentativo del Novecento politico.
Il 18 luglio 1984 Bobbio viene nominato senatore a vita «per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario» dal presidente della Repubblica Sandro Pertini: dirà, citando Piero Calamandrei, di sentirsi appartenente a quella piccola schiera di «uomini ingenui che si trovano coinvolti senza vocazione nella politica e che non riescono a staccarsi dalla vecchia utopia della amica veritas». Nel 1992, quando il Parlamento verrà chiamato a votare per il successore di Francesco Cossiga alla presidenza della Repubblica, il suo nome sarà avanzato da più parti, incontrando però la sua indisponibilità.
Socio per molti anni dell’Accademia delle Scienze di Torino, dell'Accademia dei Lincei e della British Academy, autore di innumerevoli opere giuridiche e filosofiche, Bobbio muore a Torino il 9 gennaio 2004. La salma viene tumulata con una cerimonia civile privata nel cimitero di Rivalta Bormida, il paese materno, accanto a quella della moglie, Valeria Cova, deceduta nel 2001, con cui si era sposato nel 1943 e da cui aveva avuto tre figli. Sulla tomba il nome e il cognome, le date di nascita e di morte, seguiti da un’unica semplice frase: «Figlio di Luigi e di Rosa Caviglia». Nelle sue “Ultime volontà” aveva scritto: «Mi piace pensare che sulla mia lapide il mio nome compaia insieme a quello dei miei genitori: dà il senso della continuità delle generazioni».
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