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Il valore costruttivo delle lacrime

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11/07/2018

Tratto da:
Enzo Bianchi, Lacrime come perle, Jesus, giugno 2018

Guida alla lettura

In questo articolo Enzo Bianchi, fondatore della comunità monastica di Bose, riflette sul significato e sul valore delle lacrime. Il pianto è un’espressione emotiva che oggi tendiamo a censurare per almeno due motivi: riteniamo che sia un segno di debolezza; e cerchiamo con forza di allontanare lo sguardo da ogni tipo di sofferenza, come se il confronto con il male che inevitabilmente segna la vita potesse in qualche modo contaminarci e turbare il nostro cammino verso la felicità.
Lo splendido paragone dell’ostrica ci insegna invece il contrario: da una lacrima che sappia accogliere e lenire una ferita può nascere una perla preziosa. Non si tratta di esaltare il dolore in sé, ma di capirne il potere trasformativo, quando esso non può essere evitato. Bianchi poi allarga con audacia l’orizzonte: impariamo a piangere con chi piange, ma impariamo anche a rallegrarci con chi si rallegra! Solo questa rinnovata capacità di empatia può salvarci dalla “anestesia generale” che sembra caratterizzare il nostro tempo e che, senza dubbio, è anche il frutto di una sovraesposizione mediatica del dolore che, prima o poi, ottunde la nostra capacità di indignarci e di con-soffrire.
La sfida si gioca sin dai primi anni di vita. Il pianto di un bambino non va mai sottovalutato, e mai lo si dovrebbe educare a reprimere le lacrime, quando sgorghino per un motivo giusto. Questo, naturalmente, nulla toglie al nostro dovere di consolare i più piccoli, e a far sentire loro che il nostro amore è più forte di qualsiasi dispiacere, piccolo o grande che sia. Grazie a questo delicato equilibrio il pianto entrerà a far parte dell’indispensabile bagaglio emotivo dell’adulto di domani, e lo aiuterà ad esprimere lo sdegno e la solidarietà nelle situazioni di sofferenza.
Gli eroi del mito greco, così forti e coraggiosi, non hanno ritegno ad abbandonarsi al pianto più sfrenato, nelle alterne vicende della guerra. E anche Gesù ha pianto, in alcuni momenti della sua vita. Da loro impariamo il valore umanissimo delle lacrime, per fare delle nostre esistenze non solo una ricerca costante di piacere, ma anche un cammino di compassione verso noi stessi e verso gli altri.
Si narra che le perle nascano dal dolore: quando un granello di sabbia trasportato dalle onde penetra nella conchiglia di un’ostrica, questa avverte una puntura e per liberarsi del dolore, piange, secerne una lacrima che avvolge progressivamente il granello di sabbia fino a renderlo non più offensivo. Solo le ostriche che conoscono la sofferenza inferta loro dal granello di sabbia piangono e creano le perle, splendenti, lisce, rotonde, quelle che non a caso chiamiamo anche “gioie“.
Ma noi, sappiamo ancora piangere? La sorpresa che suscita questa domanda è già di per sé indice del progressivo affievolirsi della presenza di questo atto eminentemente umano nel nostro quotidiano. Oggi si piange poco, le lacrime si sono fatte più rare. Certo, ci sono lacrime e lacrime: “lacrime vuote”, addirittura false lacrime, lacrime non convinte, “lacrime di coccodrillo”… Il linguaggio stesso che le lacrime veicolano può essere pervertito: conosciamo tutti quanti adulti si affidano al pianto – l’eterno linguaggio infantile per chiedere cibo, richiamare l’attenzione o manifestare un dolore – per ottenere qualcosa, per strappare un beneficio, per ingannare un sentimento…
Le ricerche storiche attestano secoli o epoche in cui si piangeva molto, e di questo sono testimoni la letteratura, la musica, la pittura, la pietà popolare, la spiritualità. Oggi invece piangiamo poco e facciamo fatica a lasciarci vedere nel pianto, anzi spesso anche nel dolore e nella sofferenza abbiamo gli occhi secchi: occhi secchi nelle situazioni cariche di dolore, occhi secchi perché abituati a vedere la sofferenza umana, occhi secchi perché temiamo di mostrarci nel pianto, quasi che questa situazione fosse indice di una nostra debolezza, una nostra indegnità. La diffidenza verso le lacrime, del resto, è antica: i filosofi greci, per esempio, dicevano che le lacrime sono segno di debolezza, che sono le donne a piangere. Platone ricorda che Socrate stesso era critico sulle lacrime dei suoi amici che assistevano al suo suicidio con la cicuta in ottemperanza alla legge: solo Fedone piangeva! Così pure nel mondo latino Marco Aurelio, l’imperatore sapiente, propone l’apatia, l’atarassia come virtù in grado vincere le tentazioni del pianto.
Ma le lacrime sono il segno di sentimenti umani precisi, sentimenti che gli esseri umani vivono, sentimenti da prendere sul serio, che abbisognano di essere espressi materialmente, visibilmente. Altrimenti cosa ne sarebbe dell’unità della persona? Se una persona non sa piangere, non sa neanche ridere: è una persona in cui il pudore si è trasformato in aridità, rendendo il suo cuore calloso, malato di sclerocardia. Maurice Bellet, recentemente scomparso, denunciava la situazione oggi dominante, presentandola come segnata da un preciso sintomo: “un’anestesia generale”, che appare sotto la forma dell’indifferenza, dell’abitudine a vedere lo spettacolo del male. Diciamo la verità: oggi è più facile vedere piangere delle persone in una fiction televisiva strappalacrime, piuttosto che vedere qualcuno piangere davanti al male reale, concreto, perché il male è rifuggito, oscurato, rimosso il più possibile dal vivere quotidiano.
Dobbiamo constatare – senza per questo finire per condannare in modo moralistico l’attuale società – il prevalere della dominante utilitaristica, per la quale il bene e il male sono ridotti a ben-essere e a mal-essere! Ogni piacere è un bene, ogni pena e fatica sono un male. Di conseguenza, è in atto una ricerca ossessiva del piacere, del massimo benessere possibile. Ciò richiede di tenere lontano tutto ciò che, per l’appunto, minaccia il nostro benessere, di non vedere la sofferenza, di rimuovere tutto ciò che ci può far piangere.
Roland Barthes, nei suoi “Frammenti di un discorso amoroso”, si chiedeva: «Chi scriverà la storia delle lacrime? In quale società, in quali epoche si è pianto? Da quando gli uomini hanno smesso di piangere? Che ne è della sensibilità?».
E’ un appello accorato a restare attenti alle lacrime, a imparare a discernerle, a comprendere ciò che esse vogliono esprimere quando escono dagli occhi di persone che soffrono; quando colano sulle guance dei bambini; quando appaiono lente sui volti inespressivi di vecchi colpiti da demenza senile. Ma impariamo soprattutto a piangere con chi piange e a rallegrarci con chi si rallegra (cf. Rm 12,15; 1Cor 12,26). Allora le lacrime faranno in noi il loro lavoro, come le lacrime dell’ostrica: ci doneranno una perla preziosa!

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. E’ stato priore dalla fondazione del monastero sino al 25 gennaio 2017: gli è succeduto Luciano Manicardi. La comunità oggi conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele), Ostuni (Brindisi), Assisi e San Gimignano.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
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