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Le lacrime, segno di apertura al mondo e di umanità

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15/05/2019

Tratto da:
Enzo Bianchi, Il dono (cristiano) delle lacrime, Jesus, aprile 2019

Guida alla lettura

Dopo alcuni mesi torniamo a ospitare una riflessione di Enzo Bianchi, fondatore della comunità monastica di Bose, sul valore esistenziale delle lacrime.
In due articoli di qualche tempo fa, Bianchi osservava come nella nostra società il pianto sia infrequente, quasi bandito in nome di una malintesa virilità e della ricerca incessante del non-dolore; ma anche come l’esilio delle lacrime sia il frutto perverso della continua esposizione allo spettacolo mediatico del male, che ci porta a rimuovere e a sottovalutare la sofferenza del mondo. E analizzava con originalità la natura sfuggente delle lacrime, non parola e non gesto, segno di tanti contrastanti sentimenti.
Oggi Bianchi ci parla delle lacrime come segno di pentimento per il male commesso. E se l’ottica assunta dalla sua riflessione è inevitabilmente quella religiosa, e il male commesso assume innanzitutto la dimensione del peccato verso Dio, alcune osservazioni hanno un significato anche per i non credenti. Tutti, infatti, commettiamo degli errori; tutti, prima o poi, dobbiamo chiedere perdono a qualcuno: in famiglia, al lavoro, nel gruppo di amici.
Tre, in particolare, sono gli snodi critici dell’argomentazione di Bianchi. Primo: la giusta condanna della sterile “colpevolizzazione” ha fatto evaporare anche il sano “senso di colpa”, con la conseguenza che il pentimento non appare più decisivo nelle relazioni umane. Tante sollecitazioni a perdonare frettolosamente anche i delitti più efferati, senza una minima elaborazione emotiva, senza un minimo rispetto per i tempi del lutto, sono solo uno dei segni di questa pericolosa deriva.
Secondo: chi viene meno alla fedeltà dovuta agli altri, chi ricambia il bene ricevuto facendo il male, dovrebbe saper piangere, perché solo le lacrime, espressione involontaria quando sia veramente sincera, sanno certificare l’autenticità del pentimento e l’opportunità del perdono.
Terzo: piangere è umano e umanizza, non saper piangere è disumano. Come un tempo, forse con eccesso devozionale, esisteva una preghiera per ottenere le lacrime, così è certamente necessario ritrovare oggi la capacità di commuoversi sul dolore proprio e degli altri, perché solo la com-passione esprime una tenerezza del cuore, primo passo sul cammino della solidarietà.
In sintesi: piangere non è segno di debolezza. E non piangere non è la risposta migliore di fronte all’assedio del male, che pure tende a creare abitudine, assuefazione. Le lacrime – ripetiamo: quando siano sincere – sono un segno della nostra comune appartenenza all’umanità. E contribuiscono a comporre il viatico necessario a camminare con responsabilità e generosità lungo le strade della vita.
L’esperienza del dolore per le proprie colpe, delle lacrime di pentimento è ancora oggi praticabile?
Nel cristianesimo antico il pénthos, la contrizione, era il primo passo da compiere nel cammino della vita spirituale e su questa esperienza del “cuore contrito e spezzato” (Sal 51,19) l’attenzione e la meditazione era estesa e profonda, mentre oggi appare oscurata da una serie di atteggiamenti che rifuggono l’assunzione di responsabilità per il male commesso: di fronte al peccato si cercano scuse e giustificazioni. La paura della colpevolizzazione ha fatto evaporare il senso di colpa e il pentimento non appare più come un processo decisivo nella vita del credente.
Eppure in molte pagine bibliche è attestato e presentato come esemplare il pianto da parte di chi, prendendo coscienza del proprio peccato, vive dentro di sé un dolore che gli spezza il cuore. Come dimenticare il pianto di David per il suo peccato svelatogli dal profeta e la preghiera del Miserere, confessione a Dio del delitto commesso, pianto e dolore nell’assunzione di responsabilità per la propria azione malefica, domanda a Dio di misericordia e perdono? E come non ricordare le lacrime di Pietro, quel pianto amaro per aver rinnegato di conoscere il suo maestro e profeta, dopo averlo confessato addirittura come inviato di Dio?
Chi è venuto meno alla fedeltà, chi ha contraddetto il bene ricevuto dovrebbe saper piangere. Le lacrime che scaturiscono dalle feritoie del nostro corpo restano misteriose: hanno a che fare non solo con gli organi che le secernono, ma anche con la nostra intelligenza, la nostra intima affettività, il nostro cuore. Inoltre, per noi cristiani, hanno anche a che fare con la grazia di Dio che ce ne fa dono: gli orgogliosi e gli arroganti non piangono, gli ipocriti non riescono a piangere se non lacrime superficiali, interessate, capaci di far scena. Il pénthos, la contrizione, le lacrime sono il segno che il cuore di pietra si sbriciola, si frantuma e lascia pulsare un cuore di carne, capace di accogliere la tenerezza misericordiosa di Dio. Per questo le lacrime erano ritenute dai padri della Chiesa come un “secondo battesimo”, una purificazione del cuore, un’attestazione di amore verso il Signore, una domanda di riconciliazione e perdono.
Non saper piangere il peccato commesso era ritenuto un impedimento alla grazia e per questo, ancora nei libri di preghiere affidati alla mia generazione, vi era una preghiera “per ottenere il dono delle lacrime”. Le lacrime, infatti, sciolgono il cuore di pietra e vincono l’aridità che ci rende rigidi, sterili e incapaci di compassione: versare lacrime umanizza, mentre non saper piangere è disumano. Nella vita spirituale cristiana occorre dunque accogliere l’esperienza delle lacrime, del pianto quale pentimento per il proprio operare. Isacco il Siro scrive in proposito: «Le lacrime versate durante la preghiera sono un segno della misericordia di Dio dalla quale l’anima è stata ritenuta degna nel suo pentimento: il pentimento è accolto e la preghiera attraverso le lacrime purifica, lava da ogni peccato commesso».
Sì, nessuna lacrima andrà perduta e quando verrà letta la nostra storia, che è anche storia di peccati, se abbiamo pianto con compunzione allora essa sarà anche storia delle nostre lacrime – vera epiclesi, invocazione di misericordia. Scriveva un monaco: «Quando mi presenterò a Dio in giudizio vedrò accanto a me tutti i peccati che ho commesso, ma chiederò a Dio di guardare anche alle lacrime che ho versato nella compunzione e nel dolore. E le mie lacrime saranno lì, raccolte da Dio come in un otre (cf. Sal 55,9), come richiesta di purificazione e di perdono».

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. E’ stato priore dalla fondazione del monastero sino al 25 gennaio 2017: gli è succeduto Luciano Manicardi. La comunità oggi conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele), Ostuni (Brindisi), Assisi e San Gimignano.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
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