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Il ritorno della speranza dopo una vita non vissuta

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06/06/2008

Le vostre lettere alla nostra redazione

La mia anoressia è durata per gran parte della mia vita, l’ha invasa e l’ha plasmata. Tutte le mie scelte affettive, professionali, ricreative, i miei ritmi, i miei rapporti sono stati decisi dall’anoressia.
Durante i primi anni provavo il ben noto trionfalismo che deriva dal controllo sulla fame nei periodi di digiuno e, per contro, dalla possibilità di valicare il limite, mangiando a dismisura senza ingrassare, nelle fasi delle abbuffate con vomito.
Poi ho cominciato a sentire la pesantezza della compulsione, l’obbligo del rito... Il senso di controllo si è tramutato nel soffocamento di mille restrizioni, nella impossibilità di cenare lontano da casa o di assentarmi da casa per periodi troppo lunghi dopo aver mangiato... A volte ripenso alla ricerca spasmodica di un bagno per poter vomitare in tempo... quante volte ho sognato il terrore di non trovarlo, di non riuscire a svuotarmi in tempo prima di assimilare!
L’unica cosa che importasse era essere magra. O con assurde restrizioni alimentari o con condotte di eliminazione. Vomito, lassativi, diuretici, iperattività motoria. E tutto allo scopo di mantenere un peso irrisorio e una struttura infantile. Non ho mai fatto nulla di buono per il mio corpo, non l’ho mai gratificato con cibi buoni e nutrienti o con un moto energico, ma salutare. Al contrario, il mio corpo è rimasto ignorato, sconosciuto, rifiutato, temuto per tutta la vita. Avevo paura di toccarlo, di accarezzarlo, di nutrirlo, di massaggiarlo, di esplorarne le zone più intime, terrorizzata dalla possibilità di scoprire la presenza di forme che testimoniassero un cambiamento, una crescita che comunque io avrei interpretato come “grasso”.
Mi sentivo onnipotente. Il mio corpo non esisteva, nulla in esso cambiava e quindi il tempo non doveva passare e non sarebbe passato. Non c’era nulla che la malattia potesse attaccare. E in effetti per anni non mi sono mai ammalata. Lievi influenze erano incidenti di qualche ora che, strenuamente, combattevo negando anche il malessere. Per anni mi sono sentita invincibile ed eterna, sprecando il tempo perché ci sarebbe sempre stato tempo per tutto. Così i giorni, gli anni sono passati nell’inseguirsi di rituali, controlli, compulsioni, procrastinazioni. Ho vissuto alla finestra: non ho vissuto. I figli non venivano. Allora qualche visita, qualche esame fatto senza troppa convinzione. Tutto normale. E c’era sempre tempo.
Invece, a 42 anni, ecco le prime irregolarità del ciclo. Di colpo la negazione non ha più retto e ho pensato subito con terrore alla menopausa. Tutti mi rassicuravano, compreso il mio ginecologo. Tutti pensavano che fosse la conseguenza di un periodo di stress o l’effetto degli antidepressivi. Ma le mie difese contro la realtà si stavano frantumando e io sapevo che la resa dei conti era arrivata. I dosaggi ormonali confermarono. Mi è crollato il mondo addosso. Mi sono sentita vecchia, senza più speranze. Ho avuto all’improvviso la percezione della mia vera età e di tutte le opportunità che mi si chiudevano e che non avevo mai sfruttato.
Decisi di rivolgermi a un nuovo medico di cui avevo sentito parlare molto bene. Ma il primo consulto confermò la diagnosi ed equivalse a un cadere nel baratro della realtà: ero in menopausa, senza speranze. Entrai nel tunnel: esami da fare, ormoni da assumere, rischi da valutare... Mi fu scoperta una marcata osteopenia, poi dovetti sottopormi a un piccolo intervento al collo dell’utero... All’improvviso non ero più immune dal passare degli anni né tantomeno dalla malattia.
C’è stata una dolorosa fase di lutto e di perdita. La perdita di un Sé infantile ed etereo. Ma poi si è aperta una nuova dimensione. Non so cosa sia successo... Senza dubbio la capacità del nuovo medico di farmi accettare il fatto che dovevo finalmente iniziare a prendermi cura del mio povero corpo ha avuto un effetto dirompente. Un giorno mi sono guardata allo specchio e ho visto una donna più che adulta, in un corpo non più giovane, troppo magro e inaridito. Finalmente ho guardato il mio corpo, l’ho incontrato, apprezzato nei suoi pregi e nei suoi limiti. L’ho massaggiato, sentito, ascoltato, nutrito, finalmente ho accettato di curarlo. Con una facilità inaspettata ho desiderato qualche chilo in più. Ho cambiato abbigliamento, scegliendo abiti un po’ più fascianti al posto delle tuniche e dei sacchi. Ho accettato anche le cistiti frequenti, la secchezza delle mucose, le vampate: ho accettato di averle e di trovare il modo di curarle. Ho accettato il danno alle ossa e la possibilità di correggerlo con il calcio e la ginnastica. Quanti bisogni nuovi, quante ferite! Eppure adesso mi sento diversa. Non più un’adolescente che in fondo sapevo essere vecchia, ma una donna libera di sentirsi matura, di scoprire un mondo di sensazioni sconosciute. Ho paura delle rughe, della malattia, della morte – chi non ce l’ha? –, ma sono ormai libera dalla prigione dell’atemporalità mantenuta a costo di una vita non vissuta.

Elisabetta S.

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