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Il dolore e la preziosa rinascita umana

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30/03/2011

Serena Tallarico

Guida alla lettura

Perché esistono la sofferenza, la malattia, la morte? Qual è il loro senso? In che modo possiamo liberarci del dolore? La dottrina buddhista è una risposta antica e complessa, declinata come una sorta di “percorso terapeutico”, a questi interrogativi drammatici e cruciali: alla sua conoscenza ci condurrà, a partire da oggi, la dottoressa Serena Tallarico, già Consigliera delegata dell’Unione Buddhista Italiana (UBI) per la “Consulta Giovanile per il pluralismo religioso e culturale”, ed esperta di dialogo interreligioso.
L’insegnamento del Buddha inizia con una diagnosi: la constatazione che l’intera esistenza è contrassegnata da diversi tipi di sofferenza. Segue l’eziologia, ossia la ricerca delle cause di tale sofferenza, rintracciate in quelli che il Buddha chiama “difetti mentali” (che, va precisato sin da ora, nulla hanno a che vedere con le patologie psichiatriche riconosciute dalla medicina moderna). Terza fase è la scoperta che esiste una cura: eliminando alla radice le cause della sofferenza, è possibile raggiungere uno stato di beatitudine assoluta, l’Illuminazione (Buddha significa appunto “illuminato”). Infine viene illustrata la terapia per sradicare la sofferenza dalla vita, che consiste nello studio, nella pratica e nella piena realizzazione dell’insegnamento buddhista.
Ma cosa si intende nel Buddhismo per “sofferenza”? In che modo viene concepito il rimedio definitivo ad essa? Che cosa si intende per vita, morte, rinascita? Qual è il loro significato e il loro ruolo nella pratica e nella dottrina buddhista? E quale apporto culturale, filosofico e spirituale può offrire il Buddhismo al mondo occidentale contemporaneo?
Nel cercare di rispondere a tali questioni, proporremo degli estratti da alcuni dei principali testi del Buddhismo (i Sutra), analizzandoli e spiegandoli con i commentari dei grandi maestri di ieri e di oggi.
La dottoressa Tallarico inizia la sua collaborazione con il nostro sito illustrando il significato e la portata di quella che il Buddhismo definisce “la preziosa rinascita umana”, e spiegando in che modo e a quali condizioni l’esperienza del dolore possa essere considerata anche come uno stimolo positivo, funzionale alla pratica del “sentiero buddhista” e al superamento di ogni sofferenza.
Negli ultimi due secoli, le scoperte scientifiche e le innovazioni tecnologiche si sono susseguite a ritmo incalzante, portando la scienza medica a raggiungere obiettivi terapeutici fino a poco tempo prima considerati impensabili: molte malattie mortali sono state debellate, e altre sono oggi curabili o controllabili con terapie adeguate.
Mai come in questa epoca si può (nel mondo occidentale) godere di lunga vita, avere salute, bellezza e giovinezza, che giungono poi a rappresentare modelli ai quali ci si può – e ci si deve – conformare a tutte le età, pena l’esclusione sociale, l’isolamento e la solitudine.
La condizione esistenziale nella nostra società presenta numerose analogie con il reame dei “deva” – gli dèi del regno del desiderio – il più alto delle sei possibili condizioni di esistenza [1] in cui, secondo la tradizione buddhista, vivono gli esseri che ancora vagano nel “samsara” [2].
Nel loro regno i “deva” vivono nel lusso, i loro corpi sono bellissimi, profumati, sempre giovani e in salute, godono di grande felicità e benessere per un tempo lunghissimo, pari a migliaia di anni, fino a quando la loro lunga vita comunque volge al termine. A quel punto essi cominciano ad avvertire – improvvisamente e per la prima volta – un disagio che a mano a mano si trasforma in dolore; i loro corpi cominciano a perdere luminosità, a emanare cattivo odore, la loro bellezza e le loro ricchezze svaniscono e gli altri dèi si allontano da loro disgustati. Nel momento della loro morte, ma ancor più durante tutto il periodo in cui sono consapevoli che ciò sta per accadere, i “deva”, che avevano sperimentato piaceri perfetti, provano la sofferenza più grande, quella di perdere tutto, la magnificenza del loro corpo, il loro ruolo, le loro relazioni estremamente gratificanti, e quella di morire in solitudine estrema.
Se quindi apparentemente la condizione di esistenza dei “deva” può sembrare la più vantaggiosa e felice possibile, in realtà essa viene considerata sfavorevole, inferiore per opportunità alla rinascita umana, che nei testi sacri viene invece sempre accompagnata dall’epiteto ‘preziosa’. Inferiore perché il fatto che non vi siano dolori, o sofferenze, che offuschino l’intensa felicità mondana che tali esseri provano durante la loro lunga vita, impedisce loro di riflettere sulla natura del dolore, sulle cause del dolore e sul modo per smettere per sempre di soffrire, che sono tre delle quattro nobili verità insegnate del Buddha, la cui realizzazione è considerata il primo, indispensabile, passo verso la liberazione, l’Illuminazione.
Un’esistenza che non conosca mai dolore è, in un’ultima analisi, un’arma a doppio taglio secondo il pensiero buddhista. Come afferma, infatti, il maestro Lama Thubten Zopa Rinpoche [3], nel suo testo “Un discorso su Heruka”: «[I deva] sono incredibilmente ricchi e hanno godimenti impensabili, il che rende loro molto difficile realizzare che il samsara è della natura della sofferenza. (…) Mancando della comprensione profonda della natura della sofferenza, propria all’intera esistenza ciclica, essi non possono sviluppare la grande compassione verso gli altri esseri senzienti [che, qualsiasi sia la loro condizione di esistenza, sono tutti accumunati dal provare sofferenza, N.d.A.], e senza compassione non possono generare “bodhicitta” [4]. All’interno dei sei reami dell’esistenza ciclica, questo corpo umano è il solo con il quale potete raggiungere l’illuminazione nell’arco di una breve vita. Perciò, il corpo umano che ora avete ottenuto è incredibilmente prezioso, dal momento che con esso possedete la base per praticare il sentiero [spirituale N.d.A.]. Inoltre, se desiderate ottenere l’illuminazione (…) e diventare un buddha, potete crearne la causa proprio grazie a tale perfetto corpo umano» [5].
Il corpo umano è perfetto per via della sua stessa imperfezione, in virtù del fatto che ci permette di sperimentare l’impermanenza dei diversi fenomeni, che ci fa conoscere il dolore, sorta di “pungolo” che ci sprona a cambiare e cercare di migliorare la nostra esistenza, ad intraprendere un sentiero spirituale verso lo stato di liberazione ultima, l’Illuminazione, lo stato proprio a un Buddha, a un “risvegliato”. Nella rinascita umana, infatti, la sofferenza è abbastanza intensa da suscitare il desiderio di liberarsi senza però essere talmente insopportabile (come ad esempio nel caso degli esseri degli inferni ) da non poter lasciare alcuno spazio alla riflessione, alla pratica di un percorso di miglioramento e di ricerca della felicità.
Tuttavia, il solo pensiero egoistico di liberarsi dal dolore non basta: esso deve essere accompagnato da una profonda e vasta compassione, l’atteggiamento mentale di “bodhicitta”, che è rivolta a ogni altro essere senziente (sia esso animale, umano o altro), e possibile proprio a partire da una profonda empatia con tutti loro, a partire dal riconoscimento di una comune condizione, per l’appunto quella della sofferenza.
Ma cosa si intende per “dolore” nel Buddhismo?
Dal Dizionario del Buddhismo, di Philippe Cornu, leggiamo: «Il dolore (in pali, “dukkha”) implica le nozioni di sofferenza, frustrazione, disagio e imperfezione. Persino i momenti di felicità mondana sono “dukkha”, in quanto impermanenti» [6].
Ciò, a un primo impatto, può sembrare una concezione assolutamente nichilista e deprimente della condizione umana, ma tale impressione viene subita smentita dalla natura pragmatica con la quale il pensiero buddhista affronta la sofferenza. In sintesi, ciò che esso sostiene è in buona parte riscontrabile anche nel pensiero di molti dei nostri filosofi moderni: guardare la realtà in tutta la sua crudezza è sì doloroso, ma ci può fornire anche la ragione di tale dolore, generando il desiderio e la possibilità di superarlo, per raggiungere la vera felicità.
Concludendo con le belle ed ispiranti parole del Maestro Khensur Ciampa Thegchok [7]: «Quando la sofferenza viene conosciuta per quella che è, quando non ci si limita soltanto a subire il dolore ma lo si “comprende”, allora nasce il desiderio di emergere fattivamente da quello stato. (…) Quando si diventa testimoni consapevoli dell’evento doloroso, la sofferenza può dare adito a grandi risultati!» [8].

Note

1) Secondo la tradizione buddhista esistono sei possibili condizioni di esistenza nei quali gli esseri senzienti possono reincarnarsi dopo la loro morte. Il tipo di condizione nel quale l’essere si reincarnerà varia a seconda dei suoi difetti mentali e delle qualità (positiva o negativa) delle azioni che, esso stesso, ha compiuto nelle vite precedenti. La rinascita può avvenire negli inferni, nel mondo degli spiriti avidi, come animali (essi sono detti destini sfavorevoli e sono caratterizzati da immensa sofferenza) o come esseri umani, come esseri semi-dei, come deva (considerati tre destini superiori caratterizzati da una sofferenza meno intensa e da una felicità più o meno grande). Tali condizioni di esistenza sono caratterizzati da una durata temporale diversa, ma tutte, senza eccezione, hanno una fine e sono seguite da altre rinascite.
2) “Samsara” è un termine sanscrito, che potremmo tradurre come “circolo vizioso” o ciclo delle esistenze condizionate. Ogni essere, in virtù delle azioni che ha compiuto nelle vite precedenti, è costretto dopo la morte a reincarnarsi in una delle sei possibili condizioni di esistenza (tutte inserite all’interno del samsara) per un numero infinite di volte. Questo avverrà finché l’essere riuscirà a purificare completamente la propria mente da ogni difetto mentale attraverso la pratica, e la realizzazione, della dottrina del Buddha. Una volta raggiunto lo stato di Buddha, sarà infatti finalmente libero dal Samsara e, quindi, uscirà dal ciclo di morte e rinascita.
3) Direttore spirituale dell’FPMT (Foundation for the Preservation of the Mahayana Tradition), a cui fanno capo la maggior parte dei Centri buddhisti di tradizione tibetana ghelugpa, e stretto collaboratore di Sua Santità il XIV Dalai Lama.
4) “Bodhicitta” (sanscrito) significa “Mente dell’Illuminazione o del risveglio”. Nozione centrale nel Mahayana, la bodhicitta è definibile come il voto di conseguire l’illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri senzienti (cfr. Philippe Cornu, 2003, Dizionario del Buddhismo, Milano, Bruno Mondadori, pag. 66).
5) Lama Thubten Zopa Rinpoche, (Titolo originale dell’opera: A Chat about Heruka). Edizione italiana: Chiara Luce Edizioni, Pomaia (PI) (d’imminente pubblicazione).
6) Philippe Cornu, 2003, Dizionario di Buddhismo, Bruno Mondadori, Milano, pag. 487.
7) Khensur Ciampa Thegciog, Lama attualmente residente all’Istituto Lama Tzong Khapa di Pomaia, insegnante nel Corso Superiore di Studi Filosofici Buddhisti, Masters Program.
8) Khensur Ciampa Thegciog, 2010, Fiori di Saggezza, dal cuore di un Lama del Tibet, Edizioni Daigo Press, Limena (PD), pag. 198-199.

Biografia

Serena Tallarico è nata a Cecina (LI) nel 1983. Laureata in Discipline Etnoantropologiche e specializzata in Antropologia Medica, con una tesi su “Etnografia dell’accompagnamento alla morte tra Biomedicina e Buddhismo”, ha recentemente conseguito un Master in Religioni e Mediazioni Culturale. E’ stata Consigliera delegata dell’Unione Buddhista Italiana (UBI) per la “Consulta Giovanile per il pluralismo religioso e culturale”, presso il Ministero dell’Interno e il Ministero delle Politiche Giovanili e Attività Sportive. Ha collaborato per diversi anni con la rivista “Confronti”, mensile di politica, attualità, dialogo culturale e interreligioso.
Attualmente opera come antropologa medica e mediatrice linguistico-culturale nel “Servizio richiedenti protezione internazionale, rifugiati e vittime di tortura” dell’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per la prevenzione delle malattie della povertà (INMP).
Il setting psico-diagnostico sviluppato dal Servizio produce una certificazione articolata in tre parti: 1) relazione medica, che attesta ogni eventuale prova fisica di torture e maltrattamenti; 2) relazione psicologica, che documenta la presenza di sintomi psichici in seguito ai traumi subiti; 3) “memoria traumatica” raccolta dall’antropologo, che racconta (in prima persona) l’esperienza individuale di migrazione forzata e la pone in correlazione con il quadro di conflitti interreligiosi, persecuzioni politiche e guerre che l’hanno determinata.
Durante il setting, è fondamentale aiutare la persona ad esporre la propria esperienza mediando fra il suo universo culturale di riferimento e quello occidentale. E’ quindi di grande importanza l’assistenza che il mediatore culturale offre ai medici e agli psicologi nella decifrazione dei simboli, delle metafore e delle modalità di narrazione utilizzate.

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