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Il Buddhismo e la sofferenza: la vita del Buddha – Prima parte

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20/07/2011

Serena Tallarico

Guida alla lettura

In qual modo il Buddhismo affronta il tema della sofferenza, e del suo superamento? E’ quanto ci aiuterà a capire la dottoressa Serena Tallarico, già Consigliera delegata dell’Unione Buddhista Italiana (UBI) per la “Consulta Giovanile per il pluralismo religioso e culturale”, ed esperta di dialogo interreligioso.
In questa prima parte ripercorriamo la giovinezza del principe Siddharta e il cammino che, attraverso l’inatteso contatto con il dolore, lo portò a diventare un “Buddha”, ossia un illuminato, e a raggiungere così la vera felicità.
Siddharta, di nobilissime origini, viene allevato dal padre in un palazzo da cui è bandita ogni sorta di sofferenza. Ma, al di fuori della reggia, il giovane si imbatte in un vecchio, in un malato e infine in un morto: tre incontri che cambieranno profondamente il suo sguardo sull’esistenza, facendone uno dei maestri di vita interiore più influenti della storia.
Il tema della sofferenza è un elemento centrale della dottrina buddhista, che inizia a prendere corpo nel momento stesso in cui il giovane principe Siddharta, prima ancora di divenire un “buddha” – un risvegliato – si confronta con il dolore, si interroga sul suo significato, sulle cause che lo originano, e sul modo per ottenerne la cessazione, conseguendo lo stato della “felicità ultima”. E anche oggi, come accadde per Siddharta, la sofferenza è il motore che fa compiere al praticante il primo passo nel percorso spirituale di ricerca di una felicità autentica, perfetta e permanente.
La sofferenza fu anche il pungolo che non permise al giovane principe di accontentarsi della falsa felicità data dai piaceri effimeri, fu il “maestro” che egli ricercò per fortificarsi e migliorarsi, ma fu anche ciò che abbandonò quando comprese che la via da seguire non passava attraverso mortificazioni e privazioni. Infine, fu grazie alla comprensione che la sofferenza è un’esperienza comune a ogni essere vivente che il Buddha generò la grande compassione – quella rivolta a tutti gli individui senza alcuna distinzione – e poté così sviluppare la mente di “bodhicitta”, la mente dell’illuminazione.
Attraverso la lettura della vita di Buddha Shakyamuni possiamo quindi cogliere molti elementi specifici al tema della sofferenza e del dolore, e analizzarne la molteplicità di aspetti presi in considerazione dalle riflessioni buddhiste.
Il principe Siddharta nacque in India nel 486 a.C. nella famiglia degli Shakya, una casta privilegiata di re e guerrieri, che risiedeva nella città di Kapilavastu. Secondo la tradizione, molti segni fausti – primo fra tutti un sogno di sua madre Mayadevi – furono premonitori dell’imminente nascita di un grande essere. Si narra che il parto della regina sia stato indolore, e che subito dopo aver visto la luce il piccolo Siddharta si sia levato e, muovendo passi nelle diverse direzioni, abbia affermato: «Sono venuto per mostrare l’illuminazione; questa è la mia ultima rinascita nel mondo fenomenico!». Sette giorni dopo la nascita del piccolo, la madre morì.
Poco tempo dopo, un grande saggio giunse al palazzo reale per vedere quel bambino di cui tutti parlavano, e pronunciò una profezia secondo la quale egli sarebbe diventato un monarca universale oppure, se avesse rinunciato ai piaceri mondani, un buddha, un essere illuminato.
Il padre, desideroso che il figlio diventasse un grande re, circondò il piccolo principe di ogni tipo di piacere, ordinando che si stesse ben attenti a evitargli ogni incontro con la sofferenza.
All’età di sedici anni Siddharta prese in sposa la giovane principessa Gota, il cui nome significa “bella tra le belle”, dalla quale ebbe un figlio. Divenne esperto in ogni arte e disciplina, e crebbe immerso nella bellezza e nei godimenti, del tutto inconsapevole della reale natura della vita umana, finché un giorno decise di varcare la porta del palazzo reale, la gabbia dorata da cui non era mai uscito.
Nonostante il padre avesse predisposto ogni cosa affinché anche all’esterno gli fosse evitato ogni incontro con gli aspetti indesiderabili e dolorosi della vita, egli intravide tra la folla – composta da giovani esultanti – il viso di un vecchio. Colpito da quel volto, chiese al fedele servitore Khanda perché quell’uomo fosse così brutto. Khanda gli rispose che era vecchio, e che non solo quell’uomo ma tutti gli esseri, compresi loro due, un giorno avrebbero perso l’aspetto gradevole della giovinezza e sarebbero invecchiati. Questa scoperta produsse nel principe una costernazione tale da fargli pronunciare queste parole: «Coperta d’onta è la nascita, poiché tutti coloro che nascono devono invecchiare» (Philippe Cornu, Dizionario del Buddhismo, Bruno Mondadori, Milano, 2003, pag. 514).
Desideroso di scoprire altro, egli volle uscire ancora dalla reggia, cercando tra la folla qualcosa oltre la gioia e la bellezza effimere. Lo sguardo si posò infine su un individuo che stava in disparte, e avvicinatosi a lui scoprì che aveva il volto deformato dalla lebbra. Avendo chiesto a Khanda il perché di simili fattezze, gli fu risposto che si trattava di un uomo malato, e che così come la vecchiaia scaccia la giovinezza, la malattia presto o tardi mina la salute e affligge il corpo di ogni essere.
Sempre più turbato, il principe tornò a palazzo, ormai senza alcun interesse verso il piacere mondano, e pervaso da una profonda tristezza. Deciso a comprendere fino in fondo la verità sulla natura dell’esistenza, uscì ancora dalla reggia, e questa volta s’imbatté in un corteo funebre: alla visione di un cadavere, mai visto fino ad allora, capì che tutti gli esseri sono destinati a morire.
L’esperienza maturata durante quegli incontri lo portarono a comprendere ciò che più tardi venne enunciata come la “Prima Nobile Verità”, ossia la “Verità della Sofferenza”, parte iniziale del primo discorso che, quarantanove giorni dopo il raggiungimento della completa illuminazione, pronunciò davanti ai suoi cinque primi discepoli, ponendo le fondamenta della dottrina buddhista: «Ecco, o monaci, la prima nobile verità sulla sofferenza: la nascita è sofferenza, la vecchiaia è sofferenza, la malattia è sofferenza, essere separato da ciò che si ama è sofferenza, essere legato a ciò che non si ama è sofferenza, non ottenere ciò che si desidera è sofferenza!».
Questa prima parte della narrazione della vita del Buddha mostra come l’incontro del giovane Siddharta con la sofferenza connaturata alla natura umana (malattia, vecchiaia e morte) costituisca il motore della sua ricerca spirituale di una “via di liberazione ultima” e la base di quella che diventerà, successivamente, la dottrina buddhista, il “dharma”.
Nel prossimo articolo vedremo come Siddharta, divenuto un asceta, si sia confrontato con un altro tipo di sofferenza: quella ricercata come forma di purificazione ed elevazione spirituale. L’interrogarsi su di essa, e lo sperimentare come inutile la mortificazione del corpo, porteranno il Buddha a delineare meglio l’insegnamento di quella che verrà definita “la via di mezzo”.

Biografia

Serena Tallarico è nata a Cecina (LI) nel 1983. Laureata in Discipline Etnoantropologiche e specializzata in Antropologia Medica, con una tesi su “Etnografia dell’accompagnamento alla morte tra Biomedicina e Buddhismo”, ha recentemente conseguito un Master in Religioni e Mediazioni Culturale. E’ stata Consigliera delegata dell’Unione Buddhista Italiana (UBI) per la “Consulta Giovanile per il pluralismo religioso e culturale”, presso il Ministero dell’Interno e il Ministero delle Politiche Giovanili e Attività Sportive. Ha collaborato per diversi anni con la rivista “Confronti”, mensile di politica, attualità, dialogo culturale e interreligioso.
Attualmente opera come antropologa medica e mediatrice linguistico-culturale nel “Servizio richiedenti protezione internazionale, rifugiati e vittime di tortura” dell’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per la prevenzione delle malattie della povertà (INMP).

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