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Il Buddhismo e la sofferenza: la vita del Buddha – Seconda parte

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12/10/2011

Serena Tallarico

Guida alla lettura

Nella prima parte dell’articolo, pubblicata lo scorso 20 luglio, avevamo ripercorso la giovinezza di Siddharta e il cammino che, attraverso l’inatteso contatto con il dolore, lo portò a diventare un “Buddha”, un illuminato, e a raggiungere così la vera felicità. In questa seconda e ultima parte, Serena Tallarico illustra le tappe del “Grande Viaggio” attraverso cui il principe, partendo dalla scoperta che la felicità è impermanente, ossia effimera, si sforzò di capire le cause profonde della sofferenza e il modo in cui poterla superare.
Immergendosi nel grande oceano della spiritualità indiana del tempo, Siddharta seppe elaborare un sistema di pensiero solido ma al tempo stesso originale, articolato su due fondamentali intuizioni: le pratiche di automortificazione non sono la via giusta per giungere all’autentica liberazione; e non è rinunciando agli oggetti del desiderio che ci si libera dalla sofferenza, ma rinunciando al desiderio stesso. Da questi assunti, secondo Siddharta, prende le mosse il solo metodo efficace per eliminare alla radice le cause del dolore esistenziale: l’Ottuplice Sentiero, i cui contenuti approfondiremo nei prossimi articoli.
Come abbiamo visto nella prima parte della storia della vita del Buddha, l’incontro con la malattia, la vecchiaia e la morte fecero comprendere al giovane Siddharta che la felicità è “impermanente” (un concetto chiave della dottrina buddhista) e che presto o tardi tutti coloro che gli erano cari, e lui stesso, avrebbero patito grandi sofferenze e infine la morte.
Reso consapevole che l’intera esistenza è intrinsecamente legata all’esperienza del dolore, il giovane non ebbe più pace. Se aveva infatti compreso la “vera natura dell’esistenza” (Prima Nobile Verità della Sofferenza), Siddharta però si rendeva conto di essere ben lungi dal comprendere quale fosse la causa di questa sofferenza e, di conseguenza, quale fosse il modo per poterla superare.
Con la ferma intenzione di scoprire una via per la liberazione definitiva, una notte lasciò di nascosto il palazzo reale e iniziò così il “Grande Viaggio” di ricerca del metodo per ottenere la felicità suprema e permanente.
In India in quel periodo si assisteva a un momento di grande fermento culturale e religioso. Scuole mistiche e correnti religiose sorgevano e si confrontavano, nuove idee attraversavano il territorio portate da asceti, pellegrini e mistici e, per tanto, si ritiene storicamente attendibile che il giovane Siddharta abbia incontrato, durante questa sua ricerca spirituale, numerosi maestri e leader spirituali induisti dell’epoca. Tali influenze, nonostante la radicale rottura che il Buddhismo costituirà rispetto all’Induismo, sono ben rintracciabili e formano la matrice culturale con la quale si confronta e dialoga la dottrina buddhista.
Il Buddha, lasciato il palazzo, si diresse verso una foresta, luogo di ritiro di un gruppo di “Sadhu”, asceti della tradizione induista e, prima di entrarvi, si spogliò di tutti i propri averi. Lasciò le sue belle vesti e tutti gli ornamenti al fedele servitore Khanda e gli chiese in cambio la sua umile veste.
Per sei lunghi anni si sottopose a pratiche di rinuncia e automortificazione, meditando notte e giorno sotto un albero della foresta e nutrendosi, si racconta, solo di un chicco di riso al giorno.
Un giorno però Siddharta, ormai emaciato e debolissimo, uscì dallo stato meditativo in cui si trovava e improvvisamente comprese che in quei lunghi anni in cui aveva inflitto al suo corpo numerosi dolori e privazioni, non aveva in alcun modo progredito nella sua ricerca ed era, anzi, ben lontano dall’aver afferrato il metodo per raggiungere la liberazione.
In quel momento passò di lì una giovane pastorella che, vedendolo così debole, gli offrì una ciotola di crema di riso per rifocillarsi. Rinvigorito nel corpo e nella mente, Siddharta capì che non è rinunciando agli oggetti del desiderio (nel Buddhismo per “oggetto” si intende ogni manifestazione fenomenica – compreso, e in particolare, il proprio “Sé”), come egli aveva fatto in modo così radicale, che ci si libera dalla sofferenza, ma rinunciando al desiderio stesso.
Leggiamo nel Dhamma Cakkappavattana Sutta [1]: «Questi due estremi devono essere evitati se si ricerca la verità. Quali sono questi due estremi? Quello di attaccarsi ai piaceri dei sensi, a ciò che è basso, volgare, terreno, ignobile e dannoso; e quello di dedicarsi alle automortificazioni, a ciò che è doloroso, ignobile e dannoso. Evitando questi due estremi, o monaci, il Tathagata (il Buddha) ha scoperto la via di mezzo che conduce alla chiara visione e alla conoscenza, alla pace, alla saggezza, al risveglio ed al Nibbana (Nirvana)».
E’ infatti la bramosia, l’attaccamento all’oggetto che è la causa della sofferenza. Da questa comprensione sorge la Seconda Nobile Verità della Sofferenza che il Buddha insegna: «Questa, o monaci, è la nobile verità sull’origine della sofferenza. E’ la sete che porta alla rinascita, vincolata all’avidità e alla brama».
Essa, infatti, porta ad aggrapparsi a un’identità ritenuta solida ed assestante dei fenomeni e dell’“Io”, perpetuando una visione errata della realtà che per il Buddhismo, invece, è “vuota di esistenza intrinseca”.
Il desiderio è a sua volta frutto dell’ignoranza, intesa come incapacità di comprendere la realtà e primo dei quattro difetti mentali.
Proprio perché noi non comprendiamo la vera natura della realtà, ci attacchiamo ai fenomeni che, secondo il Buddhismo, non sono altro che proiezioni della nostra mente. Sulla base di questa “visione errata” continuiamo a commettere azioni non virtuose con il corpo, la parola e la mente, i cui effetti sperimenteremo in questa o nelle prossime esistenze (secondo la legge di causa-effetto denominata Kharma). Il produrre continuamente Kharma fa sì che rimaniamo intrappolati in un ciclo di morti e rinascite, nel quale subiremo sempre, anche se a vari livelli, l’esperienza della sofferenza.
Come estinguere allora definitivamente il Kharma che ci costringe a rimanere nel ciclo di morte e rinascita, e di conseguenza a soffrire sempre?
Alla ricerca di una risposta a questa domanda, Siddharta ricercò quelli che potevano essere degli “antidoti” capaci di estinguere i difetti mentali (che nel Buddhismo vengono anche definiti “veleni”) sulla base della concezione che, se esiste una causa, esiste anche un modo per poter farla cessare. Da ciò deriva la Terza Nobile Verità della Sofferenza, detta la “Nobile Verità della Cessazione della Sofferenza”.
Il modo per “tagliare alle radici” le cause della sofferenza che il Buddha scoprì è la pratica buddhista stessa, chiamato anche “Ottuplice Sentiero”, come viene illustrato nella “Quarta Nobile Verità del Sentiero che conduce alla Liberazione della Sofferenza”: «Questa, o monaci, è la nobile verità del sentiero che conduce alla cessazione del dolore. È il Nobile Ottuplice Sentiero, e cioè: retta visione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retto sostentamento, retto sforzo, retta presenza mentale e retta concentrazione».
Dopo queste meditazioni, avvenute sotto un albero di fico che da allora prese il nome di albero della Bodhi (“illuminazione”), Siddharta raggiunse la liberazione. Toccando il suolo con la mano destra, nel gesto con cui viene raffigurato nella maggior parte dei dipinti, chiamò a testimone la Terra che un uomo aveva scoperto la “Via” per raggiungere la liberazione definitiva da ogni sofferenza e che, avendola percorsa, aveva infine ottenuto la felicità suprema e permanente.

Note

1) Tradotto letteralmente significa “Discorso della Messa in moto della Ruota del Dhamma”. Si tratta di un testo (Sutta) che descrive i primi insegnamenti che il Buddha diede ai suoi discepoli dopo aver raggiunto l’illuminazione, discorsi che sanciscono l’inizio della trasmissione della dottrina buddhista.

Biografia

Serena Tallarico è nata a Cecina (LI) nel 1983. Laureata in Discipline Etnoantropologiche e specializzata in Antropologia Medica, con una tesi su “Etnografia dell’accompagnamento alla morte tra Biomedicina e Buddhismo”, ha recentemente conseguito un Master in Religioni e Mediazioni Culturale. E’ stata Consigliera delegata dell’Unione Buddhista Italiana (UBI) per la “Consulta Giovanile per il pluralismo religioso e culturale”, presso il Ministero dell’Interno e il Ministero delle Politiche Giovanili e Attività Sportive. Ha collaborato per diversi anni con la rivista “Confronti”, mensile di politica, attualità, dialogo culturale e interreligioso.
Attualmente opera come antropologa medica e mediatrice linguistico-culturale nel “Servizio richiedenti protezione internazionale, rifugiati e vittime di tortura” dell’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per la prevenzione delle malattie della povertà (INMP).
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