Guida alla lettura
Sulla violenza della Bibbia in generale abbiamo ospitato in passato un ampio commento di Paolo Ricca, teologo della Chiesa Evangelica Valdese (La violenza nella Bibbia: scandalo e insegnamento). In questa riflessione, Enzo Bianchi, priore di Bose, si concentra soprattutto sui salmi cosiddetti “imprecatori”, in cui si prega Dio perché i nemici dell’orante, del popolo di Israele e di Dio stesso siano distrutti senza pietà.
Si tratta di testi che effettivamente urtano la nostra sensibilità e che sembrano inconciliabili con il comando dell’amore per tutti, amici e nemici, lasciatoci da Cristo. Ma espungerli per questo motivo dalla liturgia, avverte Bianchi, è un grave errore che coinvolge non solo la fedeltà alla lettera della Scrittura, ma il senso stesso dei rapporti umani e della preghiera. Pregare contro l’oppressore, senza ipocriti irenismi, «è pregare con l’oppresso, è invocare e annunciare il giudizio di Dio nella storia e sulla storia»: perché la preghiera autentica è sempre «scegliere di stare dalla parte della vittima piuttosto che dell’aguzzino». Certo, quelle suppliche a volte sono eccessive, ma Bianchi pone tre domande a cui ciascun credente (anzi, ciascun essere umano, per lo meno per quanto riguarda le prime due) è chiamato a rispondere con franchezza: come può condannare quelle parole chi non si trova nella stessa sofferenza? Che cosa grideremmo noi, in simili situazioni? E soprattutto, grideremmo restando davanti a Dio, ossia rinunciando a farci giustizia da soli? Perché i salmi imprecatori, pur nella loro estrema durezza, delegando a Dio il compito di punire i malvagi rappresentano anche «un radicale superamento della legge del taglione, che pure era già una misura di salvaguardia dalla vendetta senza fine».
Quale ulteriore senso possono trarre da questa riflessione le donne e gli uomini di oggi, spesso alle prese con una realtà spaventosamente violenta? Certamente una condanna netta del buonismo che troppe volte forza il perdono in nome di una visione idealizzata delle relazioni umane: il perdono sta nell’orizzonte di Dio, e Cristo ha proclamato beati coloro che sanno perdonare, ma di fronte a un abuso, a uno stupro, a un omicidio la vittima ha diritto di alzare la voce, e noi con lei, prima di tutto verso le autorità di questo mondo e poi, se ha fede, anche verso Dio. In questo senso, i salmi imprecatori costituiscono una lezione di realismo e un richiamo forte a un’assunzione di responsabilità, perché noi tutti non smarriamo la capacità etica di sdegnarci di fronte al male e all’ingiustizia.
Sì, va detto con chiarezza: un cristiano che non sia ancora giunto alla piena maturità della fede fatica a conciliare queste espressioni bibliche di violenza con la sua fede e la sua preghiera. Gesù infatti ha chiesto: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano», «Benedite coloro che vi maledicono», ed è morto in croce pregando a favore dei carnefici. Ma allora, come è possibile restare fedeli a Gesù e alla sua legge, al suo spirito, e poi nella preghiera contraddire questa fedeltà radicale invocando il male, maledicendo i nemici nostri e di Dio, chiedendo per loro distruzione, annientamento, scomparsa? E’ conciliabile l’amore predicato da Gesù – amore universale, senza limiti né condizioni, fino al nemico – con l’uso nella preghiera, per esempio, del Salterio che contiene frequenti richieste di vendetta e imprecazioni contro i nemici? A mio avviso il problema dei cosiddetti “salmi imprecatori”, così com’è stato affrontato e “risolto” da oltre quarant’anni a questa parte – cioè con l’espunzione dalla preghiera liturgica –, ne pone un altro più vasto riguardante la preghiera e il pregare.
E’ una preghiera, quella che fa a meno delle deprecazioni, assai poco biblica e alquanto ideologica, dunque ipocrita, lontana dalla parrhesía nel rapporto con Dio: verso Dio si grida, si urla nei momenti dell’angoscia, della disperazione, della violenza subita (Gesù grida sulla croce!). E’ una preghiera lontana dalla storia e dal male reale che l’attraversa, dai malvagi reali che sono i prepotenti-onnipotenti che imperversano nella storia. E’ una preghiera lontana dagli oppressi, dai poveri, dai senza mezzi, che sono il “pasto” quotidiano di ricchi, ingiusti e oppressori; lontana da una reale intercessione in favore degli oppressi: pregare contro l’oppressore è pregare con l’oppresso, è invocare e annunciare il giudizio di Dio nella storia e sulla storia.
Ci può essere, in questo, una “parzialità” che disturba il nostro buonismo: in realtà si prega nella storia e non fuori della storia, e la storia non è già redenta, né tutta santificata, ma esige giudizio, opzione, discernimento. Solo una visione angelicata della preghiera, una visione “sacrale”, può togliere queste invettive! La preghiera è scegliere di stare dalla parte della vittima piuttosto che dell’aguzzino; di essere vittima dell’ingiustizia piuttosto che artefice di essa. Nei 150 salmi e nei numerosi cantici presenti nelle Scritture noi troviamo “parole contro” i nemici, dunque “preghiere contro” che possono creare delle difficoltà a noi cristiani. Nel Salterio abbondano queste espressioni in bocca a chi soffre, alla presenza di nemici, nemici suoi personali, nemici di Israele, oppure nemici di Dio: quei nemici che lo perseguitano, lo torturano, gli vogliono dare la morte. Ma, non lo si dimentichi, sono imprecazioni presenti sempre in salmi di supplica, comunque sempre rivolte a Dio o confessate davanti a Dio. Per questo non sarebbe adeguato, anzi è improprio parlare di salmi “imprecatori”, e non è giusto vedervi solo grida di vendetta: sono gemiti, urla, suppliche accorate formulate in situazioni di disperazione. Certamente sono suppliche a volte eccessive; ma chi può mai pesarle e condannarle, se non si è trovato nella stessa situazione di violenza sofferta nella propria persona? Che cosa grideremmo noi in simili situazioni? E soprattutto: grideremmo stando davanti a Dio, invocando lui?
Mutilare il Salterio per ragioni edificanti, mutilare l’Antico Testamento (ma verrà anche l’ora in cui in nome della “sensibilità della gente” si chiederà di purgare il Nuovo Testamento!) significa diventare più poveri di quella testimonianza in “carne e sangue” che è presente nella Bibbia. Di fronte al male operante nella storia le “preghiere contro”, le invettive contenute nei salmi di supplica sono uno strumento di preghiera dei poveri, degli oppressi, dei giusti perseguitati: essi intervengono con le loro grida, visto che nella storia per loro non ci sono altri spazi! Con queste espressioni l’orante dà un giudizio sul male, lo discerne, lo condanna e chiede a Dio di intervenire per fare giustizia e castigare il malfattore. Questi salmi sono in verità estremamente esigenti, perché sanciscono il principio in base al quale anche di fronte all’ingiustizia e al male subiti il credente si vieta di farsi giustizia e non cede alla tentazione di rispondere al male con il male, alla violenza con la violenza, ma lascia fare alla giustizia di Dio. Non si dovrebbe poi dimenticare che all’interno dell’Antico Testamento i salmi imprecatori in verità costituiscono un radicale superamento della legge del taglione, che pure era già una misura di salvaguardia dalla vendetta senza fine, dalla faida illimitata. I passi imprecatori dei salmi e dei cantici biblici, se letti in verità, non ci portano a scandalizzarci ma ci danno invece una grande lezione: questi oranti mostrano una grande pazienza. Non si fanno giustizia da soli, non ricorrono a strumenti di guerra, anzi mettono un freno all’istinto di violenza e si affidano unicamente a Dio. Questa la loro fede: ecco da dove nasce il loro grido a Dio.
Biografia
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).