EN
Ricerca libera
Cerca nelle pubblicazioni scientifiche
per professionisti
Vai alla ricerca scientifica
Cerca nelle pubblicazioni divulgative
per pazienti
Vai alla ricerca divulgativa

Coronavirus: siamo in cura, non in guerra

  • Condividi su
  • Condividi su Facebook
  • Condividi su Whatsapp
  • Condividi su Twitter
  • Condividi su Linkedin
15/04/2020

Tratto da:
Altrimenti - Blog di Guido Dotti, 29 marzo 2020

Guida alla lettura

In questo intenso articolo Guido Dotti, monaco di Bose, riflette sulla lettura che in questi giorni viene data della pandemia di SARS-CoV-2: una lettura che adopera quasi universalmente la metafora della guerra per narrare l’impegno dei medici nei confronti della malattia. Si tratta di un’allegoria non insolita: contro gli agenti patogeni che variamente minacciano la nostra salute si parla in modo quasi naturale di lotta e armi. Dotti cerca però una metafora diversa, avvertendo come la terminologia militare esprima una lettura fuorviante della sfida posta dal coronavirus, un campo semantico di cui egli documenta con precisione i limiti simbolici e operativi.
«Noi non siamo in guerra, siamo in cura»: così ci sorprende Dotti. Cura della salute e del nostro rapporto con il tempo, cura delle relazioni e dell’ambiente. La guerra ha bisogno di nemici e munizioni, di frontiere e trincee, di odio spietato; la cura invece si alimenta di «prossimità, solidarietà, compassione, umiltà, dignità, delicatezza, tatto, ascolto, autenticità, pazienza, perseveranza». Tutti possono essere artefici di questo “essere per”: anche i malati e i morenti, i poveri e gli emarginati, e persino il pianeta che quotidianamente feriamo ma che, se sapremo custodirlo, «si prenderà cura di noi e delle condizioni indispensabili per la nostra vita».
La metafora della cura, infine, assorbe e, per così dire, riscatta la stessa impotenza della medicina: «Se esistono malattie inguaribili, non esistono né mai esisteranno persone incurabili». C’è sempre uno spazio per riconoscere il nostro e altrui bisogno, c’è sempre la possibilità di lenire la sofferenza che, a volte, sembra avere la meglio sui nostri sogni: quando i farmaci nulla possono, possono la vicinanza, l’ascolto, la compassione. La medicina dell’essere è a portata di tutti.
No, non mi rassegno. Questa non è una guerra, noi non siamo in guerra.
Da quando la narrazione predominante della situazione italiana e mondiale di fronte alla pandemia ha assunto la terminologia della guerra – cioè da subito dopo il precipitare della situazione sanitaria in un determinato paese – cerco una metafora diversa che renda giustizia di quanto stiamo vivendo e soffrendo, e che offra elementi di speranza e sentieri di senso per i giorni che ci attendono.
Il ricorso alla metafora bellica è stato evidenziato e criticato da alcuni commentatori, ma ha un fascino, un’immediatezza e un’efficacia che non è facile debellare. Ho letto con estremo interesse alcuni dei contributi – non numerosi, mi pare – apparsi in questi giorni: l’articolo di Daniele Cassandro («Siamo in guerra! Il coronavirus e le sue metafore») per Internazionale, la mini-inchiesta di Vita.it su «La viralità del linguaggio bellico», l’intervento di Gianluca Briguglia nel suo blog su Il Post («No, non è una guerra») e l’ottimo lavoro di Marino Sinibaldi su Radio 3 che ha dedicato una puntata de “La lingua batte” proprio a questo tema, introducendo anche una possibile metafora alternativa: il lessico della tenacia. Le decine di artisti, studiosi, intellettuali, attori invitati a scegliere e illustrare una parola significativa in questo momento storico hanno fornito un preziosissimo vocabolario che spazia da “armonia” a “vicinanza”, ma fatico a trovarvi un termine che possa fungere anche da metafora per l’insieme della narrazione della realtà che ci troviamo a vivere.
Eppure, come dicevo da subito, non mi rassegno: non siamo in guerra! Per storia personale, formazione e condizione di vita, conosco bene un crinale discriminante, quello fra lotta spirituale e guerra santa, o giusta, lungo il quale è facile perdere l’equilibrio e cadere in una lettura di se stessi, delle proprie vicende e del corso della storia secondo il paradigma della guerra.
Ma allora, se non siamo in guerra, dove siamo? Siamo in cura!
Non solo i malati, ma il nostro pianeta, tutti noi non siamo in guerra ma siamo in cura. E la cura abbraccia – nonostante la distanza fisica che ci è attualmente richiesta – ogni aspetto della nostra esistenza, in questo tempo indeterminato della pandemia così come nel “dopo” che, proprio grazie alla cura, può già iniziare ora, anzi, è già iniziato.
Ora, sia la guerra che la cura hanno entrambe bisogno di alcune doti: forza (altra cosa dalla violenza), perspicacia, coraggio, risolutezza, tenacia anche… Poi però si nutrono di alimenti ben diversi. La guerra necessita di nemici, frontiere e trincee, di armi e munizioni, di spie, inganni e menzogne, di spietatezza e denaro. La cura invece si nutre d’altro: prossimità, solidarietà, compassione, umiltà, dignità, delicatezza, tatto, ascolto, autenticità, pazienza, perseveranza.
Per questo tutti noi possiamo essere artefici essenziali di questo aver cura dell’altro, del pianeta e di noi stessi con loro. Tutti, uomini e donne di ogni o di nessun credo, ciascuno per le sue capacità, competenze, principi ispiratori, forze fisiche e d’animo. Sono artefici di cura medici di base e ospedalieri, infermieri e personale paramedico, virologi e scienziati. Sono artefici di cura i governanti, gli amministratori pubblici, i servitori dello stato, della res publica e del bene comune. Sono artefici di cura i lavoratori e le lavoratrici nei servizi essenziali, gli psicologi, chi fa assistenza sociale, chi si impegna nelle organizzazioni di volontariato. Sono artefici di cura maestre e insegnanti, docenti e discenti, uomini e donne dell’arte e della cultura. Sono artefici di cura preti, vescovi e pastori, ministri dei vari culti e catechisti. Sono artefici di cura i genitori e i figli, gli amici del cuore e i vicini di casa. Sono artefici – e non solo oggetto – di cura i malati, i morenti, i più deboli, beni preziosi e fragili da “maneggiare con cura”, appunto: i poveri, i senza fissa dimora, gli immigrati e gli emarginati, i carcerati, le vittime delle violenze domestiche e delle guerre.
Per questo la consapevolezza di essere in cura – e non in guerra – è una condizione fondamentale anche per il “dopo”: il futuro sarà segnato da quanto saremo stati capaci di vivere in questi giorni più difficili, sarà determinato dalla nostra capacità di prevenzione e di cura, a cominciare dalla cura dell’unico pianeta che abbiamo a disposizione. Se sappiamo e sapremo essere custodi della terra, la terra stessa si prenderà cura di noi e custodirà le condizioni indispensabili per la nostra vita.
Le guerre finiscono – anche se poi riprendono non appena si ritrovano le risorse necessarie; la cura invece non finisce mai. Se infatti esistono malattie (per ora) inguaribili, non esistono né mai esisteranno persone incurabili.
Davvero, noi non siamo in guerra, siamo in cura. Curiamoci insieme.
Parole chiave di questo articolo
Sullo stesso argomento per pazienti

Vuoi far parte della nostra community e non perderti gli aggiornamenti?

Iscriviti alla newsletter