Guida alla lettura
«Noi non siamo in guerra, siamo in cura»: così ci sorprende Dotti. Cura della salute e del nostro rapporto con il tempo, cura delle relazioni e dell’ambiente. La guerra ha bisogno di nemici e munizioni, di frontiere e trincee, di odio spietato; la cura invece si alimenta di «prossimità, solidarietà, compassione, umiltà, dignità, delicatezza, tatto, ascolto, autenticità, pazienza, perseveranza». Tutti possono essere artefici di questo “essere per”: anche i malati e i morenti, i poveri e gli emarginati, e persino il pianeta che quotidianamente feriamo ma che, se sapremo custodirlo, «si prenderà cura di noi e delle condizioni indispensabili per la nostra vita».
La metafora della cura, infine, assorbe e, per così dire, riscatta la stessa impotenza della medicina: «Se esistono malattie inguaribili, non esistono né mai esisteranno persone incurabili». C’è sempre uno spazio per riconoscere il nostro e altrui bisogno, c’è sempre la possibilità di lenire la sofferenza che, a volte, sembra avere la meglio sui nostri sogni: quando i farmaci nulla possono, possono la vicinanza, l’ascolto, la compassione. La medicina dell’essere è a portata di tutti.
Da quando la narrazione predominante della situazione italiana e mondiale di fronte alla pandemia ha assunto la terminologia della guerra – cioè da subito dopo il precipitare della situazione sanitaria in un determinato paese – cerco una metafora diversa che renda giustizia di quanto stiamo vivendo e soffrendo, e che offra elementi di speranza e sentieri di senso per i giorni che ci attendono.
Il ricorso alla metafora bellica è stato evidenziato e criticato da alcuni commentatori, ma ha un fascino, un’immediatezza e un’efficacia che non è facile debellare. Ho letto con estremo interesse alcuni dei contributi – non numerosi, mi pare – apparsi in questi giorni: l’articolo di Daniele Cassandro («Siamo in guerra! Il coronavirus e le sue metafore») per Internazionale, la mini-inchiesta di Vita.it su «La viralità del linguaggio bellico», l’intervento di Gianluca Briguglia nel suo blog su Il Post («No, non è una guerra») e l’ottimo lavoro di Marino Sinibaldi su Radio 3 che ha dedicato una puntata de “La lingua batte” proprio a questo tema, introducendo anche una possibile metafora alternativa: il lessico della tenacia. Le decine di artisti, studiosi, intellettuali, attori invitati a scegliere e illustrare una parola significativa in questo momento storico hanno fornito un preziosissimo vocabolario che spazia da “armonia” a “vicinanza”, ma fatico a trovarvi un termine che possa fungere anche da metafora per l’insieme della narrazione della realtà che ci troviamo a vivere.
Eppure, come dicevo da subito, non mi rassegno: non siamo in guerra! Per storia personale, formazione e condizione di vita, conosco bene un crinale discriminante, quello fra lotta spirituale e guerra santa, o giusta, lungo il quale è facile perdere l’equilibrio e cadere in una lettura di se stessi, delle proprie vicende e del corso della storia secondo il paradigma della guerra.
Ma allora, se non siamo in guerra, dove siamo? Siamo in cura!
Non solo i malati, ma il nostro pianeta, tutti noi non siamo in guerra ma siamo in cura. E la cura abbraccia – nonostante la distanza fisica che ci è attualmente richiesta – ogni aspetto della nostra esistenza, in questo tempo indeterminato della pandemia così come nel “dopo” che, proprio grazie alla cura, può già iniziare ora, anzi, è già iniziato.
Ora, sia la guerra che la cura hanno entrambe bisogno di alcune doti: forza (altra cosa dalla violenza), perspicacia, coraggio, risolutezza, tenacia anche… Poi però si nutrono di alimenti ben diversi. La guerra necessita di nemici, frontiere e trincee, di armi e munizioni, di spie, inganni e menzogne, di spietatezza e denaro. La cura invece si nutre d’altro: prossimità, solidarietà, compassione, umiltà, dignità, delicatezza, tatto, ascolto, autenticità, pazienza, perseveranza.
Per questo tutti noi possiamo essere artefici essenziali di questo aver cura dell’altro, del pianeta e di noi stessi con loro. Tutti, uomini e donne di ogni o di nessun credo, ciascuno per le sue capacità, competenze, principi ispiratori, forze fisiche e d’animo. Sono artefici di cura medici di base e ospedalieri, infermieri e personale paramedico, virologi e scienziati. Sono artefici di cura i governanti, gli amministratori pubblici, i servitori dello stato, della res publica e del bene comune. Sono artefici di cura i lavoratori e le lavoratrici nei servizi essenziali, gli psicologi, chi fa assistenza sociale, chi si impegna nelle organizzazioni di volontariato. Sono artefici di cura maestre e insegnanti, docenti e discenti, uomini e donne dell’arte e della cultura. Sono artefici di cura preti, vescovi e pastori, ministri dei vari culti e catechisti. Sono artefici di cura i genitori e i figli, gli amici del cuore e i vicini di casa. Sono artefici – e non solo oggetto – di cura i malati, i morenti, i più deboli, beni preziosi e fragili da “maneggiare con cura”, appunto: i poveri, i senza fissa dimora, gli immigrati e gli emarginati, i carcerati, le vittime delle violenze domestiche e delle guerre.
Per questo la consapevolezza di essere in cura – e non in guerra – è una condizione fondamentale anche per il “dopo”: il futuro sarà segnato da quanto saremo stati capaci di vivere in questi giorni più difficili, sarà determinato dalla nostra capacità di prevenzione e di cura, a cominciare dalla cura dell’unico pianeta che abbiamo a disposizione. Se sappiamo e sapremo essere custodi della terra, la terra stessa si prenderà cura di noi e custodirà le condizioni indispensabili per la nostra vita.
Le guerre finiscono – anche se poi riprendono non appena si ritrovano le risorse necessarie; la cura invece non finisce mai. Se infatti esistono malattie (per ora) inguaribili, non esistono né mai esisteranno persone incurabili.
Davvero, noi non siamo in guerra, siamo in cura. Curiamoci insieme.