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Comunità cristiana e malati psichici: problemi e sfide – Parte 3

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21/11/2012

Luciano Manicardi, monaco di Bose

Guida alla lettura

Nelle precedenti parti di questo articolo, Luciano Manicardi ha illustrato i limiti che le diverse comunità (familiare, sociale, ecclesiale) palesano nel rapportarsi con i malati psichici, e le situazioni in cui possono diventare esse stesse fonte di sofferenza interiore profonda. E ha illustrato i requisiti che una comunità cristiana deve soddisfare per poter accogliere questo tipo di malati.
In questa terza e ultima parte, Manicardi osserva innanzitutto come in ogni malato psichico, indipendentemente dalla gravità della menomazione, esista «un livello di essere che resta intatto», un nucleo profondo cui il cristiano deve rivolgersi per rivelare all’altro «il suo valore, la sua importanza, la sua dignità». Questo modo di farsi prossimo è atteggiamento indispensabile non solo nel credente, ma anche nel laico, e in generale in tutti coloro che a vario titolo esercitano un ruolo di aiuto nei confronti dei sofferenti.
In secondo luogo, prendersi cura del malato psichico è soprattutto ascoltarlo come persona, e quest’arte dell’ascolto «è essenziale per aiutare a dare vita, a proseguire quel processo di nascita che non è avvenuto una volta per tutte». L’ascolto, a sua volta, immette nella compassione, che non ha nulla a che vedere con la commiserazione, ma è presenza, è dono di tempo, è dire all’altro, nella sua malattia: tu esisti, sei importante per me e io ho bisogno di te.
Manicardi conclude la propria riflessione allargandone l’orizzonte all’educazione dei giovani: prevenire la sofferenza psichica è anche introdurre «all’arte della vita interiore». Dar nome alle proprie emozioni, imparare a discernere il bene e il male, assumere la disciplina dei limiti, comprendere che la vita «merita un investimento personale di energie e passione» sono altrettanti caposaldi della costruzione di un sé equilibrato e di una matura trasmissione della fede.
La competenza del cristiano di fronte al malato mentale
In obbedienza a questo fondamento evangelico credo che il primo ed elementare passo che la comunità cristiana è chiamata a fare nei confronti dei malati mentali è di accettare di vederli, e non di coprirsi la faccia e gli occhi come di fronte allo sfiguramento del Servo sofferente di Isaia 53 («Uno davanti al quale ci si copre la faccia»). C’è un modo di vicinanza terapeutica: essere presente a qualcuno rivelandogli il suo valore, la sua importanza, la sua dignità. Liberarci dallo sguardo mondano e intriso di pregiudizi che spesso è il nostro e assumere lo sguardo di Dio su questi suoi figli e sue creature: «E’ urgente cambiare il nostro sguardo su coloro che chiamiamo malati mentali, ed è urgente che essi cambino il loro sguardo su se stessi. Esiste un livello di essere che resta intatto. In ciascuno esiste un luogo in cui noi siamo non solo guariti, ma già restituiti a noi stessi… È a questo nucleo intatto che io mi rivolgo parlando a voi malati, non perché io abbia in me la speranza che un giorno voi sarete di nuovo integri, ma perché c’è in me la certezza che voi lo siete già» [1].
Questa la competenza propria del cristiano circa il malato mentale: saper vedere in lui e accogliere in lui un uomo, una donna a immagine e somiglianza di Dio, un fratello, una sorella in cui risplende il volto di Cristo, uno per cui Cristo è morto. Questo cambiamento di sguardo è anche cambiamento del cuore: la presenza assunta del malato mentale immette il credente e la comunità cristiana in un cammino di conversione. Se uno dei problemi che possono frenare il credente nell’affrontare questo problema o nel cercare di assumerlo è quello della mancanza di competenze specifiche, non si può dimenticare questa competenza umana e spirituale del cristiano che lo abilita a farsi prossimo del malato.

Tratti e compiti della comunità cristiana
La comunità che si prende cura del malato psichico non può che essere una comunità di ascolto. Esercitarsi all’arte dell’ascolto è essenziale per aiutare a dare vita, a proseguire quel processo di nascita di una persona che non è avvenuto una volta per tutte, o più modestamente per far sentire soggetto parlante e desiderante l’altro che ci è davanti. Essere ascoltati, accolti, sentire che c’è chi ha bisogno di noi è un tratto che si deve vivere nella comunità cristiana. Nella comunità cristiana, che è un corpo, nessuno può dire «io non ho bisogno di te» (1Cor 12,21), esattamente come in un corpo, dice Paolo la mano non può dire al piede «io non ho bisogno di te». È noto che l’abbé Pierre ha iniziato la sua esperienza del villaggio “Emmaus” quando ha teso la mano a un disperato e gli ha detto: «Prima di suicidarti potresti aiutarmi a ricostruire una casa per una donna e il suo bambino che sono sulla strada?». Quell’uomo accettò [2]. L’ascolto è essenziale per guarire: ascoltare la persona, non solo le sue frasi, ma la persona. Allora si crea un clima di accoglienza e di amore. La comunità diviene allora un luogo dove si è portati gli uni gli altri (“portate i pesi gli uni degli altri”, i pesi che siete gli uni per gli altri).
Se anche ci sono difficoltà comunicative o limiti comunicativi con il sofferente psichico, noi sappiamo che il sistema immunitario reagisce soprattutto agli stimoli emozionali. E la comunità cristiana che è un corpo non può che essere mossa da quell’amore intelligente che crea linguaggi di amore nuovi. Quei cristiani che nell’eucaristia domenicale si scambiano il segno della pace, il bacio santo, l’abbraccio comunionale, come possono non cercare vie di contatto e comunicazione non verbali con chi è limitato a livello di parola? Il toccare (arte sviluppata dall’aptonomia, che studia la comunicazione tattile affettiva essenziale soprattutto con i malati terminali, con chi non riesce a parlare) ci ricorda che è il corpo che parla, che trasmette messaggi, che comunica.
Ascoltare diviene un ascoltare la sofferenza dell’altro e immette nella compassione. La compassione è un tratto della comunità che assume la responsabilità del malato psichico e che si relaziona con la sofferenza del malato mentale. Non si tratta di un mero sentimento, non ha nulla a che vedere con la commiserazione che è giustamente rifiutata dal malato che la trova offensiva, ma di un sentire che coinvolge la totalità della persona e che diviene virtù, etica, responsabilità verso l’altro facendo ciò che è in nostro potere e collaborando attivamente con chi può aiutarlo ad altri livelli di competenza. E’ una compassione-virtù, non una semplice compassione-sentimento, è un curare nel senso di prendersi cura dell’umano che è nell’altro, nel malato, anche nel malato in cui questo umano è offuscato. Questa compassione si radica nella coscienza della comune umanità di cui sia io che il malato siamo ospiti. Questa compassione abita la coscienza della comune, universale umanità e della comune, universale esperienza della sofferenza. Proprio l’umanità più sofferente, più offuscata, più menomata, può svegliare la nostra assopita umanità, la nostra umanità imbarbarita. Uno dei tratti più tipici della nostra società è il cinismo: l’ostentazione compiaciuta e anche gridata, sguaiata, dell’indifferenza per l’altro. Dimenticando l’evidenza: che egli è ospite dell’umanità che ospita anche me.
La compassione si radica anche in quella solidarietà che connota la comunità cristiana che è corpo: e se in un corpo un membro è malato, tutto il corpo risente e partecipa della malattia. Come ritenere estranea a me la malattia del fratello? Il malato presenta e rappresenta la malattia degli altri, come un bambino che manifesta dei comportamenti devianti presenta e rappresenta l’ostilità e i litigi dei genitori: nella sua malattia, il malato rappresenta e presenta il groviglio di relazioni umane da cui è uscito.
Questi tratti ci portano a sottolineare l’importanza nella comunità cristiana di sviluppare una cultura della presenza. Di fronte alle dominanti dell’apparire e del fare, il malato ci chiede di essere, di essergli accanto, di essere una presenza. Presenza che si situa sul piano del dono: dare tempo, dare ascolto, dare la parola. Ovvero, dire all’altro, nella sua malattia: tu ci sei e sei importante per me. E spesso avviene che il sofferente psichico stesso sappia essere una presenza rilevante nella comunità ecclesiale non solo e non tanto per le incombenze che riesce ad assolvere, ma per la presenza che è, per l’umanità che incarna, per la bontà che vive.
Nelle comunità cristiane si fa lavoro di educazione e di trasmissione della fede in particolare a giovani, bambini, adolescenti. Credo che una vigilanza per aiutare una crescita solida, anche dal punto di vista psicologico, dei giovani, sia da mettere in conto da parte della comunità cristiana: non si tratta solo di assumere i sofferenti psichici, ma di operare in modo che ci possa essere uno sviluppo sano anche dal punto di vista psicologico. Introdurre all’arte della vita interiore, del dar nome alle proprie emozioni, del parlare la sessualità, del discernere bene e male e dell’assumere la disciplina dei limiti, questa è forse azione preventiva, o semplicemente educazione che libera dai sensi di onnipotenza e aiuta lo stabilirsi di un certo equilibrio psicologico. Introdurre all’arte di leggere le proprie emozioni e sentimenti, alla capacità di gestire le situazioni (interiori ed esteriori), il che suppone lo sviluppo di una capacità di fiducia e confidenza; introdurre al senso e all’importanza della vita, che merita un investimento personale di energie e passione: tutto questo, e molto altro, fa parte dell’opera di trasmissione della fede intesa come cammino del senso della vita.
Infine, io penso che la rete di aiuto e sostegno concreto che la comunità cristiana può mettere in atto per venire in aiuto alle situazioni di disagio psichico presenti in loco, il lavoro di carità vissuta, di tempo ed energie spese, debba da un lato accordarsi con il lavoro svolto nelle istituzioni sanitarie e teso alla riduzione del deficit, all’ampliamento delle abilità, all’incremento dell’integrazione, al guadagno dell’autonomia, al consolidamento dell’identità, e debba, dall’altro lato, arricchirsi di una riflessione che aiuti pian piano ad elaborare un’antropologia che sappia ragionare sul tipo di diversità che la malattia mentale comporta, sul tipo di ostacoli che incontra nella cultura odierna che portano a rimuoverla e a non volerla vedere, e sappia arricchirsi anche di un ascolto della Scrittura che possa dare peso e sostanza a una considerazione di fede della malattia mentale. Sappia arricchirsi di pensiero, consapevolezza e idee.

Note dell'Autore

1) Ch. Singer, Où cours-tu? Ne sais-tu pas que le ciel est en toi ?, Albin Michel, Paris 2001, pp. 38-39.
2) Narrato da J. Vanier, «Au coeur de la compassion», in Christus 152 (1991), p. 414.

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi e, dal 2009, Vice Priore.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
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