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Cistite: un disturbo "banale" durato vent'anni

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03/12/2010

Le vostre lettere alla nostra redazione

Iniziai con la prima cistite nel 1984, a 33 anni. Non sapevo che fosse e, all’inizio, non vi diedi alcun peso. Preciso che ho due figlie e che non avevo mai avuto una cistite prima di allora, nemmeno durante la gravidanza. Poi, all’improvviso, quel disagio sconosciuto, il dover correre spessissimo in bagno ed il mio medico di base che scherzosamente mi avvertiva che, altrettanto spesso, almeno per un certo periodo, avrei dovuto rivolgermi alle sue cure.
Così fu l’inizio, in cui certo non presagivo che quel “banale” disturbo mi avrebbe accompagnato per ben vent’anni della mia vita. Esami delle urine con urinocoltura a non finire (test di Addis compreso, che da un bel po’ non si fa più, con raccolta delle urine nelle 12 ore...). E l’Escherichia coli, l’unico nemico identificato da battere, che si divertiva a ricomparire puntualmente, in barba ai farmaci di ogni tipo che mi venivano somministrati.
Io non capivo più che cosa stesse succedendo in realtà: avevo forse sbagliato ad affidarmi al “medico della mutua”, sottovalutando il problema? In realtà, quel medico era piuttosto giovane ed inesperto ed era chiaro il suo disorientamento in quella “corsa contro il tempo” (come l’aveva definita lui), nella speranza che il “nemico” non giungesse ad “occupare territori strategici” (i reni). Decisi così di rivolgermi al primo di una nutrita serie di specialisti: l’urologo. Questi ipotizzò un impercettibile squilibrio ormonale, e mi diede altri antibiotici. Non solo, provò a “combattere la mosca con il cannone” (disse proprio così!), prescrivendomi cure più energiche, a base di iniezioni. Provò anche con la pillola anticoncezionale, ma in concomitanza con la sua assunzione ebbi un rialzo pressorio e io stessa rinunciai a continuare. Poi mi prescrisse una cura locale a base di estrogeni, ma nulla... Nel frattempo, mi sottoponevo alla prima cistoscopia, a cui seguirono l’urografia e una cistografia, che però non rilevarono l’anomalia che avrebbe giustificato le mie lamentele e la loro “perdita di tempo”.
Oltre che all’urologo, mi rivolsi a più di un ginecologo, pensando che due specialità insieme avrebbero potuto fare di meglio. E invece niente da fare: ero e rimanevo un caso di “cistite ricorrente”, una “patata bollente” ma di poco conto. Finché, nel 2000, dietro suggerimento di mia figlia allora studentessa di Medicina, mi ricoverai in una casa di cura di Milano (io vivo nell’hinterland di Bergamo), per sottopormi a una TUR bioptica con irradiazione laser, per asportare una metaplasia a livello del trigono vescicale, anche questa esito della mia cistite cronica. Nei quattro giorni in cui rimasi in clinica, venni sottoposta ancora ad esami e accertamenti, tra cui la biopsia vescicale, fattami in sede d’intervento.
L’urologo di fama che allora mi curava, oltre a sostenere l’opportunità dell’intervento a scopo di prevenzione, riteneva alquanto probabile che in quella metaplasia risiedesse la causa del recidivare delle mie cistiti; purtroppo non era così, in quanto esse si ripresentarono puntualmente anche in seguito. Ogni tre mesi mi trovavo a dover ricominciare daccapo: ormai non ripetevo più l’esame delle urine con l’urinocoltura, ma testavo da sola la presenza dell’infezione con apposite strisce reattive, dopo di che assumevo l’antibiotico seguendo la posologia consigliata. Solo a fine terapia, controllavo che le urine si fossero normalizzate, attraverso il solito esame ospedaliero. Considerato il ripetersi degli episodi infettivi, non mi restava che provare con la terapia antibiotica di prevenzione, d’accordo con l’urologo che mi aveva operata a Milano e che mi seguiva.
“Per fortuna, Lei è sintomatica!”, mi ero sempre sentita ripetere, ma come facevo a consolarmi di questo? Quelle maledette infezioni mi facevano sentire un’invalida e, dopo la fase acuta iniziale, in cui si erano accavallate una dopo l’altra, senza tregua, non volevo rassegnarmi a portarle con me per tutta la vita, a intervalli di tre o quattro mesi. E sempre quel batterio che ricompariva! La prospettiva del pannolone non mi allettava di certo e a quello sarei arrivata, senza scampo, prima o poi... Ricordo un episodio (e non fu l’unico): ero in vacanza, al mare, con la mia famiglia e all’improvviso, senza quasi accorgermene, “me la feci addosso” per strada. Che umiliazione! Quanto ai rapporti intimi, mio marito si dimostrò sempre comprensivo: tentava in ogni modo di non farmi pesare la situazione, ma malgrado ciò la cistite ha influito sui nostri rapporti, che si sono diradati sempre di più.
Non mi rassegnavo, comunque, a dipendere dagli antibiotici e, ancora su suggerimento di mia figlia, provai con la ginecologa che mi segue da quasi sei anni. Grazie a questa dottoressa, ho capito che questa patologia non ha mai una causa sola (come l’ultima ginecologa mi aveva spiegato fin dalla prima visita) e che, come tale, dev’essere trattata. E non a caso, da quasi sei anni le mie cistiti non sono più ricomparse.
Un consiglio a tutte le donne in situazioni analoghe alla mia: non perdetevi d’animo e agite anche d’intuito (ognuno di noi dovrebbe essere un buon medico per se stesso). La cistite non viene normalmente ritenuta una malattia grave, in particolare dagli specialisti uomini (quanti uomini si ammalano di cistite cronica?). Sovente non rappresenta neppure il sintomo di una patologia più grave: è proprio “rognosa” da curare in sé e richiede una cultura clinica abituata al confronto e allo studio interspecialistico, che da noi forse non è ancora molto diffusa.
Soprattutto, non arrendetevi a una medicina che curi soltanto attraverso la terapia sintomatica: ammesso che funzioni, vi sentirete malate a vita...
Stefania D.S.

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