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Induismo: dal karma all’assenza di dolore

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08/07/2020

Tratto da:
Flavia Caretta e Massimo Petrini, Ai confini del dolore: salute e malattia nelle culture religiose, Città Nuova 1999

Selezione del brano, guida alla lettura e biografia a cura di Pino Pignatta

Guida alla lettura

«Se mi venisse chiesto sotto quale cielo la mente umana abbia meditato con maggiore profondità sui più grandi problemi della vita, trovando per alcuni delle soluzioni meritevoli dell’attenzione perfino di coloro che hanno studiato Platone e Kant, indicherei l’India. E se chiedessi a me stesso da quale letteratura noi – che siamo stati educati quasi esclusivamente dal pensiero dei Greci e dei Romani – potremmo trovare il correttivo necessario per perfezionare, ampliare, e rendere la nostra vita interiore più universale, anzi, più autenticamente umana, indicherei di nuovo l’India».

Queste parole sono di Max Müller, filosofo e orientalista tedesco, uno dei fondatori degli studi indiani nel campo accademico occidentale. Sono la dedica che Huston Smith pone all’inizio del suo libro «Le religioni del mondo», nel primo capitolo dedicato all’induismo. E quindi, dopo la puntata su Jiddu Krishnamurti – nato in India ma artefice di una spiritualità equidistante da ogni espressione confessionale e da ogni tipo di fede codificata e ritualizzata – rimaniamo nella terra del Gange e proviamo a vedere quale sguardo sul dolore abbia l'induismo, tra le principali religioni del mondo quella con le origini più antiche, e che conta nella sola India, all’ultimo censimento effettuato dal Governo nel 2011, 966.257.353 fedeli, su una popolazione di 1.210.854.977 individui.
L’induismo è radicato principalmente in India, Birmania, Bangladesh, Sri Lanka, Indonesia, Malaysia, Singapore e Nepal, con seguaci strettamente vegetariani ma non vegani. Per avvicinarlo, leggiamo insieme un frammento del libro «Ai confini del dolore: salute e malattia nelle culture religiose» (Edizioni Città Nuova), dove risulta evidente che rispetto al nostro schema mentale, al nostro modo di intendere la sofferenza maturato all’interno del pensiero cristiano (in cui il dolore è un destino da vivere in una prospettiva di resurrezione e di gioia eterna, in cui la sofferenza umana in conseguenza di una malattia è una “prova”), nell’India che ha dato al mondo il concetto di meditazione come cura, attraverso la consapevolezza, la concentrazione e il controllo della mente e delle limitazioni psico-fisiche, il dolore ha un significato completamente opposto e dev’essere visto all’interno della concezione del samsara, il termine sanscrito che definisce il perenne ciclo di vita, morte e rinascita condizionato dal karma di ciascuno di noi.
Per “karma” si intendono le azioni, i comportamenti nel corso della vita presente che, in base alle scelte compiute, modificano l’essere dell’uomo e determinano il suo futuro, cioè condizionano la successiva vita dopo la morte, affinché le scelte precedenti, positive o negative, consentano all’uomo di “imparare”. Insomma, si deve riparare ma spesso non basta un’intera vita. Entra così in gioco il ciclo del samsara, che conduce, attraverso la reincarnazione, a una rinascita della persona in una determinata condizione, che è la conseguenza delle azioni positive o negative della sua vita precedente. Il ciclo di vita, morte e rinascita può ripetersi più volte fino alla conquista della liberazione: è il concetto centrale dell’induismo. E ha un impatto forte e diretto sulla concezione della sofferenza, in quanto la principale religione dell’India ritiene che questa sofferenza sia in capo alla persona stessa, perché maturata nella vita presente oppure in vite precedenti. Una sorta di remunerazione, ma in negativo. Il frammento estratto dal libro «Ai confini del dolore: salute e malattia nelle culture religiose», lo spiega molto bene.
Nel pensiero indiano, le sofferenze umane non possono essere il frutto di un cieco destino. Quest’idea non è infatti coerente con quella di una suprema conoscenza divina, di un’entità onnipotente e onnisciente che è puro essere, coscienza illimitata e felicità infinita. Neppure l’idea di una Provvidenza divina può essere condivisa dall’induismo, poiché non spiega come questa Provvidenza possa costringere gli uomini a vivere una esistenza umana tormentata.
L’induismo risolve l’enigma affermando che il dolore è responsabilità di ciascuno, una responsabilità maturata, se non in questa vita, in una vita precedente. E’ la sequenza avidya-karma-samsara, dalla quale deriva un insopprimibile desiderio di liberazione.
In questa sequenza fondamentale la parola avidya significa essenzialmente “confusione”: confusione di ciò che è permanente ed eterno con ciò che permanente ed eterno non è; di ciò che è puro con ciò che puro non è; di ciò che è gioia (sukha) con ciò che è angoscia (dukkha).
Nascono così le varie soteriologie indiane, dottrine della salvezza che mirano a esorcizzare questa falsa identificazione; e vengono formulate le dottrine del karma e del samsara per spiegare l’origine del dolore dalle azioni dell’uomo.
Il dolore è, insomma, “retribuzione”. E’ la conseguenza diretta di azioni precedentemente compiute (karma), la cui potenzialità perdura nelle innumerevoli esistenze fisiche nelle quali è destinata a trasmigrare l’anima che non ha raggiunto la liberazione dalle reincarnazioni. Non si vive infatti una sola volta, ma un numero indefinito di volte, finché, per i propri meriti e per una serie di circostanze favorevoli, non si giunga a conquistare la liberazione: essa, però, è un privilegio di pochi, anzi pochissimi, perché la grande maggioranza delle anime continuerà a vagare nel samsara, cioè seguiterà a reincarnarsi.
La liberazione, poi, non è la conquista di un paradiso pieno di delizie, ma condizione indefinibile, come una pagina bianca sulla quale solo chi l’abbia sperimentata potrebbe scrivere qualche parola ed è ottenibile solo con una strenua pratica spirituale. [...]
In questo quadro esistenziale vediamo ora come si colloca la malattia. Alcune malattie hanno cause evidenti, nel senso di cause addebitabili all’uomo stesso: è quindi preferibile classificarle tra le punizioni piuttosto che tra le sofferenze. Ne consegue una diversità di effetti. La punizione, com’è il caso della malattia con cause evidenti, non ha alcun valore salvifico. La sofferenza, invece, innalza la coscienza umana verso un misterioso fine superiore. Il castigo appartiene generalmente alla dimensione umana, mentre la sofferenza eleva ai piani della compassione e della grazia: è il mezzo più sicuro attraverso cui l’uomo arriva a un più intimo contatto con Dio.

Biografia

Flavia Caretta è medico geriatra presso il Policlinico “Agostino Gemelli” di Roma e docente invitato presso l’Istituto Camillianum di Roma. Responsabile del Centro di ricerca per la promozione e lo sviluppo dell’assistenza geriatrica, coordina la rete internazionale “Health dialogue culture” del Movimento dei Focolari e il master universitario “La cura alla fine della vita” all’Università del Sacro Cuore di Roma.

Massimo Petrini è professore emerito di teologia pastorale sanitaria. E’ stato preside dell’Istituto internazionale di Teologia pastorale sanitaria dell’Istituto Camillianum di Roma.
Parole chiave di questo articolo
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