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Morte nel lago

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06/05/2009

Liberamente tratto da:
Tommaso Grossi, "Marco Visconti", Fabbri Editori, Milano, 2001

Guida alla lettura

Lombardia, XIV secolo. Sullo sfondo di tormentate vicende storiche, si svolge la povera vita di Michele, barcaiolo, e di sua moglie Marta. Un giorno, durante una violenta tempesta scatenatasi sul lago di Como, il loro unico figlio, Arrigozzo, muore annegato.
Tommaso Grossi, scrittore romantico formatosi alla scuola del Manzoni, ritrae il dolore dei due vecchi con tratti composti e vigorosi, quasi impressionistici: la sofferenza devota e dignitosa della donna, che una vita di fatica e di disagi non è riuscita a domare; il gesto dettato dall’abitudine, che ancora una volta la porta a preparare la tavola per tre; la disperazione più dura, quasi “iraconda” dell’uomo; il burbero rimprovero per le improvvise lacrime di lei; e infine – vertice emotivo del brano – quel suo avvicinarsi un po’ impacciato, quasi a consolarla per le dure parole di poco prima, e quel sentire per lei “una compassione, una tenerezza, uno struggimento più forte del primo fervente amore che le avea portato negli anni della giovinezza”.
Un brano poco conosciuto e forse lontano dalla nostra moderna sensibilità, ma che ci ricorda come l’amore coltivato con rispetto e fedeltà ci possa aiutare ad attraversare il territorio aspro e oscuro del dolore, anche quando le nostre reazioni alla sofferenza, la nostra personale risposta al lutto che ci ha colpiti e ci tiene prigionieri, sembrano irriducibilmente diverse da quelle di chi ci sta accanto.
La capanna del barcaiolo, padre dell’annegato, era posta di là dal paese, volta a settentrione. Quel che si vedeva di essa, guardando dal lago, non era che un po’ di tettuccio di paglia, con una croce di legno piantata in vetta; tutto il resto veniva nascosto da due vecchi castagni, i quali parevano chinarsi per abbracciarla. All’interno era una cameretta non ammattonata, con le pareti tutte nere dal fumo.
Si vedeva in un canto un letticciuolo coperto d’una grossa e ruvida coltre: era quello il giaciglio del povero Arrigozzo, e in quel momento vi dormiva sopra un barboncino, il suo cane fedele.
Seduta vicino al desco, sotto una lucerna di ferro, stava filando la vecchia Marta, la madre dell’annegato. La faccia, piuttosto asciutta che scarna, segnata da poche rughe, il portar diritto della persona, il movere risoluto delle membra, mostravano in lei una natura valida, che le fatiche e i disagi d’una povera vita non avevano domata. Ma quella fronte, dal cui fondo spirava un’aura serena di pace, si vedeva allora rabbuiata da un cordoglio recente e inusato; uno che l’avesse veduta per la prima volta, poteva agevolmente notare su quelle guance un pallore che non vi doveva essere abituale, un insolcarsi ancor fresco; avrebbe indovinato che quegli occhi, gonfi e sbattuti per le tante lacrime versate, non erano però usi al pianto.
Muoveva visibilmente le labbra, dicendo le sue devozioni, e di quel suo tacito pregare non si udiva altro che lo strascico delle ultime sillabe, le quali le morivano sulla bocca in un lieve fischio, ch’ella accompagnava col piegar frequente e fervoroso del capo.
Di tanto in tanto volgeva gli occhi a quel letticciuolo, poi li alzava al cielo, in atto di sì desolata pietà, da far manifesto il voto segreto che mandava al Signore, perché volesse richiamarla a sé, di riunirla al suo Arrigozzo.
Michele, con le spalle volte al desco, stava seduto presso al fuoco, curvo sopra di quello, mescolando una minestra di panìco nel latte, che bolliva nel pentolino: un dolore più ruvido, più duro, che aveva pure qualcosa di iracondo, stava sul volto di lui. Egli teneva a bello studio volte le spalle alla moglie, perché l’aspetto del dolore materno non inasprisse il suo, e continuava in quel lavoro senza levar mai il capo.
Come fu scorsa una mezz’ora, la donna sorse in piedi, andò verso il fuoco, quindi accostatasi alla rastrelliera, tutta infervorata com’era nelle sue orazioni, si vide dinanzi tre scodelle, e le trasse fuori per un moto macchinale, e per la consuetudine di tanti anni le dispose tutte e tre sul desco, mise un cucchiaio a lato di ciascuna, versò in tutte la vivanda e chiamò: «Michele! Venite a cena». Ma in quella che il marito, obbedendo alla voce di lei, s’accostava alla tavola, la donna s’accorse d’aver messo un tagliere di più, pigliò affrettatamente una delle tre scodelle, e la posò in terra, volendo far sembiante di averla riempita per il cagnolino. Al marito però non sfuggì quell’atto sollecito e turbato; notò egli quel terzo cucchiaio che rimaneva tuttavia sulla tavola, a un posto consueto, e, indovinando l’amorosa dimenticanza della madre, rivolse la faccia altrove per non lasciarsi scorgere commosso, prese il suo piattello, il suo cucchiaio, e tornò al posto di prima.
Marta chinò il capo sul petto, si fece il segno della croce e si pose a mangiare. Pigliava qualche cucchiaiata di quel panìco, dopo d’aver tramestato un pezzo per la scodella; ma pareva che le crescesse in bocca, non poteva cacciarlo giù; se non che, quando ebbe visto il marito che tornava a deporre sulla tavola la sua ciotola, ne ingoiò in fretta due o tre cucchiaiate, una dopo l’altra, per mostrare a lui che mangiava di voglia.
Un momento dopo s’accorse che la scodella riportata sul desco dal suo uomo era ancora piena; la prese in una mano, ed accostandosi a lui, che si era seduto ancora accanto al fuoco, gli toccò una spalla e disse: «Michele, via, mangiate, per l’amor di Dio! Non potete tirare innanzi, vedete, se fate questa vita: in tutta la giornata siete ancora, si può dir, digiuno». Il barcaiolo levò rozzamente le spalle, senza rispondere, ed ella seguitava con voce accorata: «Via, mangiatene almeno un poco; volete lasciarvi morir d’inedia? Fatelo per me; ché, se m’aveste a mancar voi...». Ma uno scoppio di pianto le soffocò le parole.
«Eh!» si cacciò allora a gridare il barcaiolo; «e non la finirete più con questo vostro piangere? Tutto il giorno, tutto il giorno!». E, asciugandosi egli stesso gli occhi col dorso della mano: «Lo farete risuscitare, è vero?».
L’infelicissima vecchia si ricacciò indietro le lagrime, che le tornarono più amare e più angosciose sul cuore; si torse gli occhi col grembiale e si rimise a filare.
Per un pezzo nessuno dei due fiatò: la donna, non interrompendo mai il suo lavoro, gettava qualche occhiata al marito, il quale, seduto su d’una bassa predella, coi gomiti appoggiati sulle ginocchia e il capo nelle mani, pareva che piangesse.
Finalmente questi si levò, venne presso la moglie, le si mise d’intorno, e pareva che volesse dir qualcosa per rabbonirla, che la volesse ristorare, con qualche amorevolezza, della pena che le aveva data con quel suo parlare spropositato di poco prima; ma poi non disse altro che questo: «Ebbene, Marta, farò a modo vostro, mangerò per accontentarvi voi»: e si mise difatti a mangiare.
«Sentite Marta», ripigliò di li a poco «domani ho da portare a Dervio il sindaco qui del paese: coi denari del nolo gli faremo dire una messa». «La messa gliel’ho già fatta dir io», rispose la donna; «vedete questa lana?», diceva, «la filatura sconta l’elemosina della messa».
Il barcaiolo premette insieme le labbra, che, sporgendo in fuori per l’improvvisa commozione, gli s’eran fatte aguzze e tremolanti, e, trattenendo a fatica le lagrime, provò una compassione, una tenerezza, uno struggimento per la vecchia compagna de’ suoi giorni, che avea qualche cosa di più forte, di più soave del primo fervente amore, che le avea portato negli anni della giovinezza.

Biografia

Tommaso Grossi (1790-1853) è uno degli scrittori italiani più rappresentativi del primo Ottocento, amico di Carlo Porta e di Alessandro Manzoni. Laureato in giurisprudenza a Pavia, si trasferisce a Milano nel 1822, ove inizia la carriera letteraria scrivendo poesie romantiche in dialetto milanese.
Il romanzo storico “Marco Visconti” (1834) conosce subito un buon successo e viene tradotto in francese, inglese, tedesco e spagnolo. A partire dal 1838, però, Grossi abbandona l’attività letteraria e si dedica alla professione di notaio: nel 1848 stenderà l’atto ufficiale della fusione tra Piemonte e Lombardia, in seguito alla prima guerra d'indipendenza.
Il “Marco Visconti”, dedicato a Manzoni, è ambientato nel Trecento e narra l’amore fra Bice del Balzo e Ottorino Visconti, un sentimento contrastato dal cugino Marco Visconti, a sua volta invaghito della giovane. Intorno alla vicenda si intrecciano molti fatti storici, secondo un gusto compositivo tipico dell’epoca e che ritroviamo – a livelli artistici incomparabilmente superiori – anche nei “Promessi Sposi”. Nell’ineguale qualità dell’opera, spiccano le pagine che tratteggiano con sobria commozione la vita dolente degli ultimi e dei dimenticati.
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