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La solitudine di un'anima

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27/05/2020

Tratto da:
Dino Campana, Opere. Canti orfici e altri versi e scritti sparsi, a cura di Sebastiano Vassalli e Carlo Fini, TEA, 2002

Guida alla lettura

In questa meravigliosa lirica Dino Campana descrive tutti i moti del suo spirito tormentato: l’inquietudine, la solitudine, il sogno, il disincanto, la rassegnazione. Analizziamo in profondità le componenti del sonetto.
L’esordio esprime l’inquieta oscillazione del poeta: non aspira alla pace, non si adatta al conflitto. In altre parole: Dino non accetta la propria situazione di uomo scosso nell’equilibrio mentale, nella provvisorietà esistenziale, nei rapporti sociali, ma neppure ha l’energia di forzare queste tensioni e di conquistare una vita più serena.
L’immagine retorica che sostiene questo incipit ha un nobilissimo padre. E’ Francesco Petrarca, infatti, che nel Canzoniere – secondo la massima di Eraclito «Omnia cum lite fieri», ogni cosa si genera dallo scontro fra opposti – applica con frequenza lo schema “de oppositis”: sostantivi, aggettivi, avverbi o intere espressioni si presentano in coppia o in gruppi di tre, in cui i singoli termini sono legati da rapporti di antitesi, ad affermare, sotto l’apparenza di uno stile levigatissimo e sorvegliato, che qualcosa di sconvolgente agita il cuore del poeta. Ne è esempio il celebre attacco del sonetto 134, che Campana riprende quasi alla lettera: «Pace non trovo, e non ho da far guerra».
Un secondo elemento che denota la grande consapevolezza tecnica e artistica di Campana è l’impiego del procedimento retorico delle “coblas capfinidas”, che nella poesia provenzale prevedeva la ripetizione della parola o delle parole finali di ciascuna strofa (cobla) all’inizio della strofa seguente: l’antica figura lega qui la prima e la seconda quartina («gran porto»), e questa alla prima terzina («accordi»). Ne consegue un effetto di musicalità che doveva essere evidente soprattutto in epoca medievale, quando la poesia era accompagnata dal suono di uno strumento.
Segue una scena commovente con cui il poeta sembra rassicurarci: «Vado nel mondo tranquillo e solo». Ma quel mondo è un mondo di sogno, quella solitudine non è la scelta di un animo libero, e infatti l’aria risuona di «canti soffocati», simbolo eloquente delle illusioni perdute.
La seconda quartina del sonetto contiene l’insistita immagine del desiderio più autentico di Campana: sostare in un porto nebbioso e silenzioso, con tante barche leggere pronte a salpare verso un orizzonte sereno, su un mare appena mosso da onde leggere, a una brezza sussurrante echeggiante di brevi accordi. Ma intuiamo che la vela del poeta non solcherà quei flutti sicuri: il vento porta via gli accordi di elegia, il mare resta sconosciuto, sono altre le barche destinate a solcare le onde. «Sogno», ammette: «La vita è triste ed io son solo».
Non si attraversa l’orizzonte se non con gli altri e insieme all’amore degli altri: un amore che il poeta non ebbe perché emarginato, reso oggetto di paura e di scherno dalla malattia che gli rapì la vita. La lirica si chiude con un auspicio che non lascia spazio alla speranza di questo mondo: svegliarsi un giorno nel sole eterno, libero dal male e dalla follia, finalmente redento, finalmente uomo. Dino sa che non è qui, non è ora che i suoi sogni diverranno realtà: e accetta di sperare in un altrove diverso. Ma l’anafora con cui si apre la seconda terzina – O quando o quando – esprime l’inquieto dubbio che forse quel momento non giungerà mai, lascia forse trasparire l’immobile rassegnazione del suo cuore.
Pace non cerco, guerra non sopporto
tranquillo e solo vo pel mondo in sogno
pieno di canti soffocati. Agogno
la nebbia ed il silenzio in un gran porto.

In un gran porto pien di vele lievi
pronte a salpar per l’orizzonte azzurro
dolci ondulando, mentre che il sussurro
del vento passa con accordi brevi.

E quegli accordi il vento se li porta
lontani sopra il mare sconosciuto.
Sogno. La vita è triste ed io son solo.

O quando o quando in un mattino ardente
l’anima mia si sveglierà nel sole
nel sole eterno, libera e fremente.

Biografia

«Dino Campana, un genio da manicomio». Così inizia un saggio dello scrittore Marco Candida sul grande poeta toscano nato a Marradi, vicino a Firenze, nel 1885. Una conferenza recente, di appena un anno fa, proprio nel suo paese natale, annunciava un dibattito intitolato: «Genio o folle?». E già il numero di settembre dell’«Italia letteraria» del 1933 ricordava il celebre fiorentino come «infelice di genio», quel poeta che nella lirica “Viaggio a Montevideo” metteva in guardia dal vagare «verso l’inquieto mare notturno»:

Quando in una baia profonda di un’isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell’equatore: finchè
Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore,
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l’inquieto mare notturno.

E’ l’inquietudine di questo mare notturno il tratto saliente del poeta Dino Campana, che soffriva di ebefrenia, forma estremamente grave e incurabile di psicosi schizofrenica. «Era soggetto a terribili sbalzi d’umore. Spesso veniva colto da attacchi d’ira furibonda. Aveva momenti di lucidità a cui alternava fasi nelle quali si esprimeva in modo sconnesso», spiega Marco Candida nel suo saggio.
Tutta la vita di Dino Campana è segnata dalla malattia mentale, a partire dall’adolescenza: già verso i quindici anni gli vengono diagnosticati i primi disturbi nervosi, ma riesce comunque a completare i vari cicli di scuola. Frequenta le elementari a Marradi. Terza, quarta e quinta ginnasio presso il collegio dei Salesiani di Faenza. Studi liceali dapprima nella stessa città e poi a Carmagnola, Torino, presso l’allora regio liceo Baldessano, dove dà la maturità nel luglio 1903.
Si iscrive due volte all’Università, prima a Chimica pura e poi a Chimica farmaceutica. Nel 1906, a 21 anni, entra la prima volta in un ospedale psichiatrico, a Imola, con una diagnosi di demenza precoce: la Legge Basaglia, che dispone la chiusura dei manicomi, determinando una svolta nel modo di assistere questi pazienti, arriverà soltanto il nel 1978. Il contesto familiare e sociale legato a vecchi schemi di giudizio sul cosiddetti “matti”, e l’allora chiuso ambiente di Marradi, nell’appennino tosco-romagnolo, non aiutano Campana a diradare le ombre dalla sua mente. Viene deriso, sbeffeggiato, umiliato, come il folle del paese che scrive le poesie. Dino peggiora sensibilmente. Tuttavia fa alcuni viaggi lunghi e avventurosi, in Europa, in Sud America. Per mantenersi si adatta ai mestieri più umili e strampalati: pianista in locali e case chiuse, arrotino, poliziotto, vigile del fuoco.
Nel 1914 consegna a Giovanni Papini e Ardengo Soffici un manoscritto con alcune prose e versi, che però viene smarrito. L’anno successivo, contando esclusivamente sulla memoria, lo riscrive e lo pubblica a sue spese presso un tipografo di Marradi: sono i celeberrimi «Canti orfici», che il poeta stesso tenta di vendere nei caffè, per strada. Ma è un fiasco. Il manoscritto originale, la prima scrittura, verrà ritrovato in casa di Ardengo Soffici soltanto nel 1971. Tra il 1916 e il 1917 ha una storia d’amore, anche questa inevitabilmente tormentata, con la scrittrice Sibilla Aleramo, di Alessandria, presto naufragata per il temperamento del poeta. Nel 1917 viene arrestato a Novara per vagabondaggio. L’anno dopo, il 12 gennaio 1918, è internato nell’ospedale psichiatrico Castelpulci di Scandicci, Firenze, dove resterà sino alla fine.
Solo nel 1928, quattro anni prima della morte, la casa editrice Vallecchi pubblica una seconda edizione dei suoi Canti Orfici, riveduta e ampliata: raccolta di poesie, prose liriche e frammenti. Altre opere da ricordare sono «Inediti», del 1942, sempre pubblicato da Vallecchi, che contiene la raccolta poetica «Quaderno»; il «Taccuinetto faentino» (1960) e il «Fascicolo marradese» inedito (1972).
Alla fine del febbraio 1932, dopo 14 anni consecutivi di manicomio, Dino Campana si ferisce, forse per scavalcare la recinzione: muore pochi giorni dopo di setticemia. Ha scritto poesie meravigliose – a dimostrazione del fatto che il concetto di pazzia è, oggi come allora, tutt’altro che decifrabile, stesso destino, ad esempio, per il musicista romantico Robert Schumann – ma al prezzo di una vita faticosa, resa a tratti insopportabile dalla devastazione mentale. Nella collezione «Quaderno» ci ha lasciato questi versi:

Il tempo miserabile consumi
me, la mia gioia e tutta la speranza,
venga la morte pallida e mi dica,
pàrtiti figlio [...].

(Biografia a cura di Pino Pignatta)
Dino Campana
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