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La nave da guerra delle mie afflizioni

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30/05/2018

Tratto da:
Thomas Bernhard, Sotto il ferro della luna, Crocetti, 2015

Guida alla lettura

In questa elegante lirica, intessuta di metafore raffinate, Thomas Bernhard narra il divenire della sua esistenza, segnata dal dolore di vivere, ma ci dona anche qualche immagine di quotidiana serenità. I giorni e i malanni, gli idoli e le illusioni – gli “dei” – si ricamano sulla malferma superficie di un’acqua immota. Il rosso del dolore si staglia sul verde dei prati: ma su quel medesimo tappeto risaltano anche i mattini azzurri, i borghi gialli, le «fette di pane e miele», frammenti di bellezza inestricabilmente intrecciati al dolore stesso, alla sofferenza che accompagna il cammino. La caducità si ricama nella terra, presagio silenzioso della morte che verrà. E in quella stessa terra il poeta intesse la trama della notte e della fame, del cordoglio e dell’afflizione, con l’ultima potentissima immagine della nave da guerra che scivola sinistra su acque inquiete e immortali: dove l’immortalità non è più quella dell’anima, ma quella dell’affanno di esistere.
Il quadro è cupo. Ma, vale la pena ripeterlo, nella melodia delle parole filtra un barlume di limpida serenità: il poeta ha imparato a convivere con il male, e questo si mescola come un colore ai dettagli veri e belli della vita. Il senso stesso di quel verbo più volte ripetuto – “ricamare” – evoca un atteggiamento paziente che si è fatto prassi quotidiana, e che in qualche modo riscatta i giorni dal dolore che li assedia.
Anche noi abbiamo mattini azzurri e borghi gialli e fette di pane e miele a cui affidare, nonostante tutto, una prudente gioia di vivere. Li possiamo ritrovare negli affetti che coltiviamo, nelle passioni che alimentiamo con fatica e tenacia, nel bene dato e ricevuto. Solo in questo modo possiamo tornare in possesso di un’immortalità buona e quieta, che come un orizzonte luminoso orienti e guidi il nostro cammino.
In un tappeto d’acqua
ricamo i miei giorni,
i miei dei e i miei malanni.
In un tappeto di verde
ricamo i miei dolori rossi,
i miei mattini azzurri,
i miei borghi in giallo e le mie fette di pane e miele.
In un tappeto di terra
ricamo la mia caducità.
Ci ricamo dentro la mia notte
e la mia fame,
il mio cordoglio
e la nave da guerra delle mie afflizioni
che scivola in mille acque,
nelle acque dell’inquietudine,
nelle acque dell’immortalità.

Biografia

Scrittore e poeta. Thomas Bernhard, tra gli autori più letti del Novecento, è stato entrambi: l’una forma di espressione legata all’altra. Dello scrittore ricordiamo, perché ormai celeberrimo, “Il Soccombente”, storia leggermente autobiografica, per via degli studi violinistici, di tre pianisti che si incontrano, e confrontano, a un corso di Vladimir Horowitz a Salisburgo. Due di questi, uno è il narratore, non sono certo privi di talento. Ma il terzo si chiama Glenn Gould. Davanti alle sue Variazioni Goldberg non si può che soccombere e il romanzo è il racconto di un fallimento, dell’umiliazione, dell’invidia, come in Mozart e Salieri (secondo la leggenda), ma anche dei sentimenti di impotenza e di frustrazione. Nel Thomas Bernhard poeta, invece, predominano la disperazione, i toni cupi. Il tema più affrontato è spesso la morte. La natura ospita le sue disperazioni, come nella lirica che abbiamo scelto: «…in un tappeto di verde ricamo i miei dolori rossi». E in un’altra scrive: «Nessun albero e nessun cielo ti consolerà… ormai nessun arbusto ti proteggerà da fredde stelle e da rami macchiati di sangue».
La critica lo definisce “aspro, misantropo, pessimista”. Nasce il 9 febbraio 1931 a Heerlen, in Olanda. E’ figlio di una ragazza-madre che abbandona l’Austria per sottrarsi alla vergogna, in fuga da un Paese ultracattolico in cui mettere al mondo un figlio fuori del matrimonio è uno stigma. Lo affidano ai nonni praticamente ancora in fasce. Con loro vive prima a Vienna, poi a Salisburgo, negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. S’iscrive al liceo classico ma non termina gli studi. A diciotto anni è ricoverato in sanatorio. Qui comincia a scrivere, e sono subito versi d’angoscia. Pubblica anche racconti. Nel 1963 il primo romanzo, Gelo, vince il Premio Brema.
Tuttavia, si può dire che Thomas Bernhard abbia iniziato come poeta. Il suo primo sguardo sul mondo e sulla sofferenza è lirico. Esordisce nel 1957, a 26 anni, con l’antologia di “Sulla terra e nell’inferno”, alla quale segue “In hora mortis”, del 1958. E la morte, «che sempre mi accompagna come uno strascico», fa da sfondo anche a una raccolta postuma, “Sotto il ferro della luna”, 56 liriche, in realtà la terza antologia, pubblicata nel 1958, a 27 anni, perché la poesia attraversa tutta la giovinezza di Bernhard, prima che la maturità lo conquisti alla prosa e al teatro.
Varrebbe la pena, per conoscere meglio l’autore, leggere direttamente la sua “Autobiografia”, cinque libri – L’origine, La cantina, Il respiro, Il freddo e Un bambino – finiti di pubblicare nel 1982, sette anni prima di morire, il 12 febbraio 1989, a causa di una tubercolosi (destino beffardo dopo l’infanzia in sanatorio), e raccolti per la prima volta da Adelphi, stessa casa editrice del “Soccombente”. Un’opera in cui il lettore trova, nelle parole del poeta e scrittore, il senso di una vita tra tenebre e incomunicabilità, a partire dalla famiglia, che non ha mai veramente avuto: «Quanta fatica per una parola a mio padre e a mia madre, quanta fatica per una parola…». E qui ritroviamo, come suggerisce Adelphi, alcune descrizioni drammatiche: «La rete che dondola, sospesa al soffitto di un barcone in un canale di Rotterdam, dove piange il bambino messo al mondo dalla madre nubile in Olanda per non dare scandalo nell’Austria provinciale e bigotta». O i «terribili convitti frequentati in Austria, con sadici e ottusi educatori prima in divisa nazista e poi in abito talare»; o il fetido «trapassatoio, anticamera della morte nel sanatorio, tra tisici in attesa della bara di zinco».
Eppure la sua poesia è irresistibile, perché vera e spietata. E’ il Bernhard ragazzo che scrive in versi: le vicende personali gli hanno lasciato ferite indelebili, e la giovinezza non fa sconti. Confiderà a se stesso, ma coinvolgendoci in un orizzonte oscuro, nel libro “Perturbamento”, tra le pagine più nichiliste: «Noi ci costringiamo a non vedere il nostro abisso. Eppure, per tutta la vita, non facciamo altro che guardare giù, al nostro abisso fisico e psichico, pur senza percepirlo».
(Biografia a cura di Pino Pignatta)
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