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La battaglia di Augusta per ritrovare se stessa

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17/04/2013

Selezione e recensione di Pino Pignatta

Guida al film
Un giorno devi andare, di Giorgio Diritti
Con Jasmine Trinca, Anne Alvaro, Pia Engleberth

Questa volta il dolore è un aborto. Sofferenza tutta femminile, vista soltanto dalla prospettiva di una donna, non c’è neppure l’ombra di un uomo, e vissuta da una donna in straziante solitudine, tra singhiozzi appena accennati, quasi nascosti, forse per dignità, e lacrime discrete. La prima sequenza del film è questa: si vede un bambino muoversi nella pancia della mamma, nell’ecografia. Poi più nulla. Solo la disperazione silenziosa di una giovane donna che piange. La storia vera e propria parte da qui, trascinandosi dietro il dolore per tutta la pellicola, sino al punto in cui, finalmente, la vita sarà di nuovo (ma in realtà lo è sempre stata) più forte di ogni tristezza.
Il film s’intitola "Un giorno devi andare". La protagonista è Augusta, la bella e brava attrice francese Jasmine Trinca. Il regista è Giorgio Diritti, bolognese, 53 anni, allievo di Ermanno Olmi, anche sceneggiatore, attivo nei documentari e in teatro, che nel 2005 ha firmato un capolavoro come “Il vento fa il suo giro”, pellicola vincitrice di una quarantina di premi e rimasta in programmazione al cinema Mexico di Milano, ininterrottamente, per un anno e mezzo. Nel 2009 ha girato “L’uomo che verrà”, rivisitazione della strage nazista di Marzabotto, premiata con tre David di Donatello e tre nastri d’Argento. Ora si ripresenta al pubblico con questo terzo film.
La vicenda che Diritti racconta è semplice: Augusta, 30 anni, in seguito allo choc per la perdita del figlio, decide di volare in Amazzonia, alla ricerca della serenità. Parte in viaggio con suor Franca, amica della madre, che con una barca va di villaggio in villaggio per evangelizzare gli indios. Ma Augusta capirà che non è questa la strada giusta per superare il dolore, perché questa suor Franca è una donna semplice, un po’ ingenua, animata da una sincera fede, desiderosa di “salvare” gli indigeni, ma convinta che la religione cattolica sia l’unica possibile via per realizzare l’obiettivo, senza realmente comprendere la cultura della gente che incontra. E dunque, stanca di questa ennesima “conquista” del mondo occidentale, Augusta abbandona la barca e prosegue il viaggio da sola.
Sarà un itinerario interamente percorso dal dolore, vera “colonna sonora” di tutta la vicenda. In una delle sequenze sul fiume la voce fuori campo di Augusta racconta: «Io sono scappata dal dolore. Ovunque provi a guardare, è sempre lì, dentro di me: mi attraversa, m’interroga». Da questa domanda, dal dolore che la guarda in faccia e la scuote, Augusta comprende che la scelta religiosa di suor Franca, da sola, non poteva bastare. Allora si sposta a Manaus, dove vive in una favela, tra gente semplice e poverissima: giovani madri, bambini, lavoratori precari, vecchi, mendicanti. Si spende, s’immerge nel pozzo buio dell’indigenza, prova a diventare lei stessa missionaria laica, senza spinte spirituali, e cerca ugualmente di mettere la propria vita al servizio degli ultimi. Ma il dolore non va via: anzi la soffoca, la imprigiona. Una bimba india le si avvicina, le stringe le mani: Augusta non riesce ad accoglierla, non ce la fa, non muove un dito. Nel silenzio sembra dire: perché devo abbracciare te, il mio bimbo è morto, vai via. Il più inutile e disperato degli egoismi.
Giorgio Diritti alcuni anni fa è stato in Amazzonia per un documentario, e questa esperienza è stata di grande aiuto per girare la pellicola, che ora sta riscuotendo un buon successo. Il regista, attraverso inquadrature spettacolari, a tratti volutamente documentaristiche, lascia intendere di avere scoperto e apprezzato la semplicità di questa gente e l’imponenza della natura, che nella sua maestosità scandisce ritmi di vita dilatati, invitando l’uomo a interrogarsi su se stesso e il proprio destino. In questa realtà amazzonica si percepisce ogni giorno un forte senso di precarietà. Ma il racconto si sposta spesso alla tranquilla vita di provincia della mamma e della nonna di Augusta: e allora si avvertono anche le contraddizioni del mondo occidentale, e la crisi dei suoi valori.
Dunque, Augusta prova a ritrovare se stessa nella favela di Manaus. Ma mentre tenta faticosamente di capire, di risollevarsi, altro dolore si aggiunge al dolore, perché la cattiveria umana la sorprende anche tra i più poveri: una bimba viene venduta a trafficanti senza scrupoli mentre la madre, giovanissima, è al lavoro. L’urlo disperato della donna scava Augusta in profondità: abbandona anche la favela, come aveva abbandonato la barca, cercando una terza via, fatta di solitudine estrema, di eremitaggio, di immersione nella natura amazzonica, smarrita, lontana addirittura dalle più lontane comunità indios. Più disperatamente sola dei più disperati tra gli ultimi.
Accosta la canoa a un’ansa del fiume e si abbandona su una spiaggia, riparandosi con un lembo di stoffa tirato fra gli arbusti. Sta lì. Sotto il sole. Sotto la pioggia. Non c’è nessuno. Solo silenzio e natura selvaggia. E tanta introspezione, abbandono, distacco. Un giorno, ecco la svolta: Augusta sta dormendo sull’amaca e un piccolissimo indio le va incontro. Si guardano, iniziano a giocare, si rincorrono, si nascondono, si inseguono arrampicandosi sugli alberi, si rotolano sulla sabbia, si abbracciano. Finalmente Augusta torna a sorridere, a ritrovare la linfa della serenità e dell’equilibrio. All’improvviso la presenza ossessiva del suo bambino morto si stempera: ora c’è questo bambino, per il quale vale la pena spendersi adesso, anche se dopo qualche ora papà e mamma lo riprenderanno e torneranno al villaggio. C’è la condivisione, e soprattutto c’è la vita, con quello che ti offre.
E forse qui Augusta capisce che il dolore in realtà non esiste. E’ la coscienza del dolore che crea il dolore: in una situazione che appare – e spesso è – catastrofica, è importante rendersi conto che resta (quasi) sempre una via d’uscita. E’ l’esistenza con le sue contraddizioni, le sue crisi, le sue molteplici sfaccettature. I colpi della vita non vanno evitati. Al contrario, occorre accoglierli nel loro flusso, senza tentare di resistere. Non c’è altro che la vita con tutto quello che porta, evitabile o inevitabile. Dunque, nella storia di Augusta, come in quella di ciascuno di noi, c’è un bambino che muore nella pancia della madre, c’è un bambino venduto ai trafficanti, c’è una bambina che ci prende per mano e un’altra che vuole giocare a nascondino. Ci sono l’incubo della disperazione e il calore di un abbraccio spontaneo. C’è tutto insieme. Resistere a una cosa o all’altra non ha senso. Allora mi metto al centro degli eventi, li accetto, e continuo a vivere. E in quel preciso istante, forse, il dolore cessa di esistere.
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