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Il rumore del mare, eco e memoria delle nostre vite

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Il rumore del mare, eco e memoria delle nostre vite
26/04/2023

Vivian Lamarque, Queste conchiglie
In: Poesie 1972-2002, Mondadori 2002

Guida alla lettura

Questa delicata lirica di Vivian Lamarque possiede, nella sua brevità, un immenso potere evocativo. Il contenuto, e lo stile che lo esprime, sono in sé semplicissimi: conchiglie levigate e colorate si posano sulla riva del mare e ignoti passanti le accostano all’orecchio per sentire il rumore delle onde. Una situazione di cui tutti, prima o poi, facciamo esperienza.
Ma subito tre indizi ci pongono in allerta sul vero significato dei versi: quelle conchiglie «saremo noi… senza più dolori». Un verbo, un pronome, un complemento di modo. Quei colorati e levigati gusci celano identità umane; quelle identità sono ormai libere dal male di vivere; la misteriosa trasformazione avrà luogo in un futuro («saremo») che, con ogni evidenza, la poetessa pone in contrasto con l’oggi consueto, l’oggi della vita (ma, come sa chiunque abbia sperimentato l’acuminata sofferenza di una perdita, il tempo verbale futuro può essere anche, non meno dell’imperfetto, specchio linguistico del rimpianto e della nostalgia). La morte, dunque, non sarà per Vivian l’annullamento dell’essere, e neppure il volo incerto verso un piano di realtà spirituale: sarà una mutazione in ciò che è piccolo e umile, ma che conserva bellezza, colore, quiete, e qualcosa da dire a chi, di passaggio, si voglia fermare ad ascoltare.
Ma c’è di più. Il mare è origine della vita, e in quel mare sono vissuti i molluschi che le conchiglie proteggevano. E di quel mare, in una suadente illusione acustica, quelle conchiglie ci parlano ancora, a suggerire che la vita rimane nella coscienza inaccessibile dei morti come un ricordo che si fa eco lontana, simile al suono delle onde sugli scogli. E ancora: altre conchiglie, frantumate finemente dal tempo, formano la sabbia su cui approdano infine le acque, e su cui si muovono lentamente coloro che porranno l’orecchio al suono del mare, come a dire che l’ascolto delle parole di chi, a noi vicino, ci ha preceduto è reso possibile dal fondamento mobile di infinite altre vite a noi sconosciute, dissolte in un tutto che non restituisce la loro individualità ma ne conserva la necessità al fluire della vita.
Quanta sapienza, dunque, in ventinove parole. A commento di esse, nulla di più adatto di quanto leggiamo nella quarta di copertina dell’edizione Mondadori, pubblicata nel 2002 e arricchita da un’accurata introduzione di Rossana Dedola: «Pochissimi poeti sanno mascherare il dolore e il rimpianto attraverso le forme della lievità e della grazia come riesce mirabilmente a Vivian Lamarque. E pochissimi poeti hanno, come ha lei, la felicità naturale del dono che fa volare la parola, facendola arrivare velocissima al lettore, dandogli un’emozione vera».
Grazia e lievità come forma del dolore e del rimpianto: una rivelazione che sentiamo del tutto pertinente per le conchiglie di Vivian e che fa correre il pensiero alle “Lezioni americane” di Italo Calvino, quando a proposito di Ovidio e di Lucrezio parla di «una leggerezza della pensosità».

La parola dell'Autrice

Queste conchiglie che ho trovato
saremo noi
noi acquietati levigati
senza più dolori
di bei colori
poseranno le orecchie su di noi
per ascoltare
che rumore fa
il mare.

Biografia

Vivian Lamarque nasce a Tesero, in provincia di Trento, il 19 aprile 1946. Sua madre è Nella, una giovane non sposata, figlia del pastore valdese Ernesto Comba. La rigida morale dell’epoca esclude che la ragazza-madre, come allora veniva chiamata chi dava alla luce un figlio al di fuori del matrimonio, possa tenere e crescere la piccola. Così, nove mesi dopo, Vivian viene data in adozione a una famiglia cattolica milanese. I temi dolenti dell’abbandono, della ricerca delle origini, del lutto ispireranno un giorno la sua produzione poetica.
A quattro anni la bambina perde il padre adottivo, Dante Provera, e assume anche il cognome della moglie, Pellegrinelli. Sei anni dopo, durante un soggiorno estivo in colonia, Vivian scoprirà per caso di avere anche un terzo cognome, Comba, quello della madre biologica: ormai adolescente, si metterà alla sua ricerca e a 19 anni finalmente la ritroverà. Risalgono a quegli anni i primi esperimenti poetici. E sarà proprio la poesia, insieme con una lunga psicoterapia, ad aiutare la giovane a rimettere ordine in un passato con troppe radici, e a dare al futuro il colore della speranza accanto a quello del rimpianto.
Il cognome con cui infine è diventata celebre è del marito, il pittore Paolo Lamarque, con cui realizzerà l’idea tanto sognata di famiglia, al punto che lo conserverà anche dopo la separazione. Un giorno Paolo consegna alcuni testi della moglie al poeta milanese Giovanni Raboni, il quale rimane stupito dalla peculiarità dello stile e del sentire. E proprio per interessamento di Raboni, nel dicembre 1972 otto poesie di Vivian vengono pubblicate sulla rivista “Paragone”. Su quello stesso numero, Raboni scrive: «La Lamarque ha questa grazia, questa ingenuità di scrivere poesie come se si trattasse di compiere un gesto che non ha nulla a che fare con la letteratura»
Negli anni successi, la sua attività di letterata e intellettuale è vasta e molteplice. Tra le raccolte poetiche spiccano Teresino (1981, Premio Viareggio Opera Prima), Il Signore d’oro (1986), Poesie dando del Lei (1989), Il signore degli spaventati (1992, Premio Montale), Una quieta polvere (1996), Poesie di ghiaccio (2004), Poesie per un gatto (2007), Poesie della notte (2009), Madre d’inverno (2016, Premio Bagutta 2017), L’amore da vecchia (2022, Premio Umberto Saba Poesia 2023).
Nel 2018 riceve la Laurea Apollinaris Poetica dall’Università Pontificia Salesiana di Roma, riservata ai migliori poeti italiani viventi. Nel 2005 è insignita del Premio Elsa Morante alla carriera. Nel 2022 Mondadori pubblica l’ampia raccolta “Poesie 1972-2002”.
Vivian, inoltre, traduce Valéry, Baudelaire, Prévert, La Fontaine, Céline, Grimm, Wilde. E scrive libri di fiabe e racconti per bambini, ottenendo il Premio Rodari (1997) e il Premio Andersen (2000). Fra i titoli più significativi: Il bambino che lavava i vetri (1996), Cioccolatina, la bambina che mangiava sempre (1998), Unik, storia di un figlio unico (1999), La bambina quasi Maghina (2001), Fiaba di neve (2003), La timida Timmi (2003), Tre storie di neve (2004), Storie di animali per bambini senza animali (2006), Metti subito in disordine (2007), La bambina sulle punte (2010).
Maria Cristina D’Alisa, docente di Italiano e Latino nei licei, raffinata studiosa di filologia classica e collaboratrice della rivista di studi culturali “Quaderni d’altri tempi”, in un documentatissimo profilo biografico pubblicato sul sito enciclopediadelledonne.it scrive: «Se la Neoavanguardia negli anni Sessanta si riprometteva un’audacia sperimentale nello stile come nei temi, autori come la stessa Lamarque negli anni Settanta riallacceranno una relazione con un pubblico più vasto di quello accademico, attraverso il privilegio di una parola chiara e di un’interpretazione dei quesiti esistenziali più sentiti. La poesia della Lamarque tratteggia il vissuto e lo fa con gli stessi nomi e ritmi dell’infanzia. Atteggiamento, questo, che merita un’importante precisazione: Vivian Lamarque non si racconta le favole per consolarsi dei suoi dolori, ma si racconta il suo dolore come se fosse una favola. Vale a dire che la linearità delle sue strofe, la cantilena di certi versi, le rime baciate talvolta presenti sono un modo non per offuscare il dolore, ma per renderlo accettabile». Così facendo, conclude Maria Cristina D’Alisa, Vivan Lamarque merita di essere annoverata «fra coloro che ci hanno insegnato ad essere molto di più del nostro dolore».
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