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Dal dentista nell'antica Roma: l'alba della scienza medica

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07/10/2009

Aulo Cornelio Celso, De medicina libri octo, VII, 12, 1-2
in: I. Lana e A. Fellin, Antologia della letteratura latina, Volume secondo, Casa Editrice D'Anna, Messina-Firenze, 1966

Guida alla lettura

Questo brano di Aulo Cornelio Celso, prosatore latino e brillante precursore degli attuali divulgatori scientifici, descrive con particolari impressionanti le modalità operative e gli esiti spesso drammatici della chirurgia dentistica del primo secolo dopo Cristo.
La crudezza del resoconto ci spinge a riflettere, da un lato, sul coraggio di quegli antichi medici, e dei loro pazienti; e, dall’altro, sugli indiscutibili progressi della medicina moderna, nonostante i numerosi fronti ancora aperti nella lotta contro molte malattie. Si pensi solo, per restare a quanto emerge in controluce dal racconto, allo sviluppo delle procedure di asepsi e delle tecniche di controllo del dolore, giunte oggi a livelli di efficacia neppure immaginabili duemila anni fa (Celso descrive peraltro numerosi analgesici a base di oppiodi e sostanze naturali); e alla conoscenza sempre più raffinata dei meccanismi dell’infiammazione, di cui proprio Celso seppe altrove descrivere, con termini tuttora usati dagli specialisti, i cinque segni: “rubor” (rossore), “tumor” (gonfiore), “calor” (bruciore), “dolor” (dolore) e “functio lesa” (lesione funzionale).
Particolarmente interessante, infine, il riferimento alle “lunghe passeggiate” e a un’alimentazione corretta in caso di infiammazione: i pilastri di ciò che oggi chiameremmo uno “stile di vita” equilibrato e orientato a evitare inutili eccessi nell’assunzione dei farmaci.
Anche certe affezioni della bocca si curano chirurgicamente. In primo luogo i denti talvolta tentennano, ora per la debolezza delle radici ora per l’inconveniente delle gengive rinsecchite. Sia nell’una che nell’altra eventualità, conviene avvicinare alle gengive un ferro incandescente, per toccarle leggermente, senza posarvelo sopra: le gengive cauterizzate, poi, vanno spalmate di miele e sciacquate con vino mescolato a miele; quando le ferite incominciano a ripulirsi, bisogna stemperarvi sopra medicamenti astringenti.
Se però il dente duole e si è presa la decisione di estrarlo perché le cure non servono a niente, bisogna scalzarlo tutt’attorno in modo da staccarne la gengiva; poi bisogna scuoterlo a lungo finché si muova molto. Infatti, finché il dente è infisso saldamente nell’osso, l’estrazione si fa con sommo pericolo e talvolta si sloga addirittura la mascella: tale pericolo è ancora più grave quando si estragga uno dei denti superiori, perché può sconquassare le tempia e gli occhi. Allora bisogna prendere il dente con la mano, se si può, se no, con la tenaglia; e, se è cariato, bisogna prima riempire il foro o con filacce o con piombo ben messo, perché non si spezzi sotto la tenaglia. La tenaglia, poi, va tirata su perpendicolarmente per evitare che, incurvandosi le radici del dente, l’osso spugnoso, in cui il dente è infisso, si spezzi in qualche punto: questo pericolo c’è, soprattutto nei denti corti, che per lo più hanno le radici più lunghe: spesso infatti la tenaglia, quando non riesce ad afferrare il dente o – pur afferrandolo – non riesce ad estrarlo, prende l’osso della gengiva e lo rompe.
Subito poi, quando esce sangue in abbondanza, di qui si capisce che l’osso in qualche punto è stato spezzato: quindi con lo specillo bisogna andare a cercare la scheggia che s’è staccata e tirarla fuori con le pinzette. Se non viene fuori, bisogna fare un’incisione nella gengiva finché si riesca ad afferrare la scheggia mobile: che se a questo non si provvede subito, la mascella esteriormente s’indurisce al punto che il paziente non riesce più ad aprire la bocca: ci si deve mettere sopra un impiastro caldo di farina e di fichi, finché si muova la suppurazione: poi s’incide la gengiva.
Anche la fuoruscita di molto pus è indizio di frattura dell’osso: pertanto anche in tal caso conviene estrarre la scheggia. Talvolta anche, avvenuta la lesione dell’osso, si forma una fenditura che va raschiata. Il dente scheggiato, poi, va raschiato dalla parte dove è nero e sfregato con fiore di rosa tritato, a cui si deve aggiungere una quarta parte di galla e una di mirra, e bisogna tenere a lungo in bocca vino puro. E in tal caso bisogna coprirsi il capo, fare lunghe passeggiate e frizioni alla testa, astenersi dai cibi che danno infiammazione. Ma se qualche dente tentenna per un colpo ricevuto o per altra ragione, va legato con filo d’oro a quelli che sono ben fermi; e occorre tenere in bocca astringenti, per esempio del vino in cui si sia fatta bollire scorza di melagrana o in cui si sia gettata una galla accesa.
Se mai avvenga nei bambini che il nuovo dente nasca prima che il corrispondente dente da latte sia caduto, bisogna ripulire bene bene tutt’attorno il dente destinato a cadere e estrarlo; il nuovo dente va ogni giorno spinto con il dito nel posto che occupava l’altro finché giunga a giusta grandezza. Ogniqualvolta, tolto un dente, sia rimasta la radice, bisogna subito estrarre anche questa con la tenaglia apposita, che in greco si chiama “rhizágra”.
Le tonsille, poi, che in seguito ad infiammazioni si sono indurite – i Greci le chiamano “antíadi” – e si sono ricoperte di una pellicola, conviene col dito scalzarle tutt’attorno e strapparle: se neppure facendo così si staccano, vanno afferrate con un uncinetto e recise con la lancetta; poi si sciacqui la bocca con aceto e si spalmi la ferita con un emostatico.

Biografia

Aulo Cornelio Celso nacque nella Gallia Narbonense, intorno al 14 a.C. Appassionato di studi enciclopedici, scrisse una vasta opera in sei libri, chiamata “De artibus” (“ars” è il termine con cui il latino traduce il greco “téchnē”, nel significato di “disciplina specialistica”) e che trattava di agricoltura, medicina, retorica, filosofia, giurisprudenza e scienza militare. L’unica parte conservata è il trattato “De medicina”, che comprende otto libri ed è uno dei documenti più importanti per la nostra conoscenza della scienza medica antica.
Il “De medicina” è un’opera di divulgazione (con ogni probabilità Celso non era medico), realizzata soprattutto a partire da fonti greche. Il libro I svolge considerazioni di carattere generale e delinea una breve storia della medicina; i libri II-IV trattano di patologia generale e speciale, approfondendo i sintomi, il decorso e la terapia delle principali malattie allora conosciute; i libri V e VI trattano di farmaci e forniscono numerose ricette; il libro VII, da cui è ricavato il nostro brano, descrive le tecniche chirurgiche; il libro VIII, infine, affronta gli interventi ortopedici per fratture, lussazioni e slogature.
Per Celso i tre fondamentali settori della medicina sono la chirurgia, la farmacologia (o “medicina” in senso stretto) e la dietetica. Particolarmente interessante è la prefazione dell’opera, in cui espone e discute due opposte tesi: quella dei “razionalisti” (da “ratio”, nel senso di “causa”), che ritenevano fondamentale, per poter curare le malattie, l’indagine delle loro cause sia evidenti sia nascoste (e giudicavano quindi necessaria per il progresso scientifico la dissezione dei cadaveri, e persino la vivisezione sui condannati morte); e quella degli “empiristi”, che consideravano impossibile individuare le cause profonde delle malattie e fondavano la scienza medica esclusivamente sull’esperienza, ossia sulle pratiche e sui rimedi rivelatisi efficaci con l’uso.
Celso assume a questo riguardo una posizione di compromesso, sottolineando l’importanza essenziale dell’esperienza (oggi si parlerebbe di “evidenza”), ma affermando anche la necessità dello studio delle cause, pur nella consapevolezza che su quelle nascoste si possono solo avanzare congetture. Egli si pronuncia inoltre a favore della dissezione dei cadaveri, soprattutto ai fini dell’insegnamento, ma contro la vivisezione, che definisce crudele, disumana e inutile.
Celso illustra anche, senza prendere posizione, le due spiegazioni allora più accreditate della nascita della scienza medica: la prima sosteneva che gli uomini civilizzati, con i loro vizi morali, si erano corrotti anche nel fisico e quindi la medicina si era resa necessaria per ristabilirne la salute (i barbari, invece, contraddistinti da costumi primitivi e sani, non avevano mai avuto bisogno di cure); la seconda affermava invece che – pur essendo dotato di anima e corpo – l’uomo tende a sviluppare maggiormente le doti spirituali a discapito del benessere fisico: di qui l’esigenza di una scienza che, in ogni tempo, curi i guasti prodotti dall’eccesso di impegni intellettuali. E’ interessante notare come da questa seconda teoria si possa dedurre un postulato oggi fondamentale nella pratica medica, e cioè l’importanza del movimento fisico nella prevenzione e nella cura di molte patologie.
Studioso tanto dotto quanto dotato di umiltà e buon senso, Celso riconosce che «nelle malattie ha molta parte la fortuna, e spesso le medesime cure ora sono efficaci ora sono inutili, per cui resta il dubbio se la guarigione sia avvenuta grazie alla medicina o grazie alla reazione naturale dell’organismo» (VII, praef.).
Lo stile di Celso è limpido e semplice, e al tempo stesso accurato ed elegante. Grazie a queste qualità egli venne definito dagli umanisti il “Cicerone dei medici”. Quintiliano sottolinea come il suo stile sia dotato di “cultus” (accuratezza) e “nitor” (eleganza). Giacomo Leopardi ebbe per lui grande ammirazione, e in un pensiero dello Zibaldone lo definì «vero e forse unico modello tra gli antichi e i moderni del bello stile scientifico esatto».
Celso morì nel 37 d.C. circa, a soli 51 anni.

Le informazioni contenute in questa Biografia sono state in parte ricavate da G. Garbarino, Letteratura latina. Storia e antologia con pagine critiche, Paravia, Torino 1992, e da I. Lana, Storia della civiltà letteraria di Roma e del mondo romano, Casa Editrice D’Anna, Messina-Firenze, 1984.
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