Guida alla lettura
Eppure è di C.S. Lewis anche un libriccino di appena 85 pagine, edito in Italia da Adelphi, che non ti aspetteresti da un inventore di storie immaginifiche: s’intitola “Diario di un dolore” e racconta, anzi, sarebbe più preciso dire mette a nudo, la sua reazione di fronte alla morte della moglie, la sofferenza dei giorni precedenti e successivi, l’impietosa autoanalisi di una vita sconvolta. Il titolo italiano lo presenta come “diario”, anche se la traduzione non sembra felice perché il libro non è la scansione temporale, giorno dopo giorno, di una vicenda umana, quanto piuttosto la sincera riflessione su come si sedimenta sulla pelle la morte di una persona cara. In inglese, infatti, più acutamente, il titolo è “A grief observed”, e cioè “Un dolore osservato”. Dunque, si tratta di un’osservazione, dettagliatissima, da entomologo dell’animo, di come il dolore può scavare e lasciare il segno.
E l’introspezione di C.S. Lewis è davvero spietata, senza compromessi. Non si fa sconti, l’autore. Non ve ne sveliamo i dettagli, sono poche righe e corrono via in una sera, o in una notte. Ma già a pagina 11 l’autore, impietrito dalla solitudine, dalla malinconia, dal vuoto esistenziale che segue alla morte, si domanda dove sia finito Dio. Un interrogarsi comune a chiunque sia sferzato dal dolore. E allora lo scrittore, che ha perso la sua “H.” (in tutto il libro la moglie di C.S. Lewis non è mai citata per nome, solo con l’iniziale), scrive, in un dialogo con se stesso: «Se ti riprendi e ti volgi a Lui per ringraziarlo e lodarlo, vieni accolto a braccia aperte. Ma vai da Lui quando il tuo bisogno è disperato, quando ogni altro aiuto è vano, e che cosa trovi? Una porta sbattuta in faccia, e il rumore di un doppio chiavistello all’interno. Poi, il silenzio…».
Sarà perché studioso di storia antica, sarà perché amico di quel Tolkien con il quale ha condiviso le suggestioni per i regni del fantasy (tratte proprio dai suoi studi di medievalistica), ma il rumore di quel “chiavistello” che si serra in faccia alla disperazione evoca quasi il rimbombo di una pesante porta di ferro che chiude la segreta di un castello. L’urlo del dolore vissuto in tutta la sua violenza, davanti al quale crollano tutti gli appigli, le sicurezze. C.S. Lewis lo osserva, lo descrive, lo confida. E nel fare questo forse se ne libera. Anche se arriva al punto di far traballare le sue certezze domandandosi: perché? «Una risposta, fin troppo facile, è che Dio sembra assente nel momento del nostro maggior bisogno appunto perché è assente, non esiste. Ma allora perché sembra così presente quando noi, per dirla con franchezza, non lo cerchiamo?».
Altre volte è come un’ubriacatura leggera, o come quando si batte la testa e ci si sente rintronati. Tra me e il mondo c’è una sorta di coltre invisibile. Fatico a capire il senso di quello che mi dicono gli altri. O, forse, fatico a trovare la voglia di capire. E’ così poco interessante. Però voglio avere gente intorno. Ho il terrore dei momenti in cui la casa è vuota. Ma vorrei che parlassero tra loro e non a me.
Ci sono momenti, del tutto inattesi, in cui qualcosa dentro di me cerca di rassicurarmi che soffro, sì, ma non così intollerabilmente. Nella vita di un uomo l’amore non è tutto. Ero felice prima di conoscere H. Ho parecchie “risorse”, come si dice. Queste sono cose che tutti superano. Ma sì, me la caverò. Ci si vergogna di ascoltare questa voce, ma per un po’ gli argomenti sembrano persuasivi. Poi, d’un tratto, la stilettata rovente di un ricordo, e tutto quel “buonsenso” svanisce, come una formica nella bocca di una fornace.
Per reazione si passa all’emotività e alle lacrime. Al patetismo lacrimoso. Preferisco, quasi, i momenti di angoscia. Almeno sono puliti e onesti. Mentre il bagno di autocommiserazione, il crogiolarsi nella sofferenza, l’orrida e appiccicosa voluttà del pianto – che disgusto! …
… E nessuno mi aveva mai detto della pigrizia del dolore. Tranne che nel lavoro, dove la macchina sembra funzionare più o meno come al solito, ho orrore di ogni sforzo, anche minimo. Non dico scrivere, ma perfino leggere una lettera. Perfino farmi la barba. Che importa ora se la mia guancia è liscia o ruvida? Dicono che chi è infelice vuole distrazioni – qualcosa che lo aiuti a non pensare. Sì, ma come un uomo stremato, in una notte fredda, vuole sul letto un’altra coperta: piuttosto che alzarsi a cercarla, preferisce continuare a battere i denti.