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La morte di Joachim Ziemssen – Seconda parte

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27/11/2013

In: Thomas Mann, La montagna magica, a cura e con introduzione di Luca Crescenzi e un saggio di Michael Neumann, traduzione di Renata Colorni, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2010, p. 792-798

Guida alla lettura

Pubblichiamo oggi la seconda parte del brano in cui Thomas Mann, nella “Montagna magica”, descrive la morte per tubercolosi del giovane Joachim Ziemssen, cugino del protagonista Hans Castorp. Anche in questo caso sottolineiamo alcuni passi che illuminano con efficacia le relazioni e gli atteggiamenti che si sviluppano intorno alla persona moribonda; ma puntiamo l’attenzione anche sulla progressiva trasformazione del malato, sulle alterne e a volte ambigue condizioni psichiche che ne caratterizzano il declino e l’agonia. Il tutto non prima di avere sottolineato come la prosa di Mann si faccia, in queste pagine, straordinariamente elegante e delicata, vero capolavoro elegiaco come raramente è dato di leggere in un romanzo moderno.
Dal racconto emerge innanzitutto l’aspro contrasto fra l’animo coraggioso della madre di Joachim, Luise, e l’atteggiamento cinico e inumano della suora addetta all’assistenza del giovane. Mentre la prima, «letteralmente spronata da quel che vedeva a una materna combattività», sa parlare al figlio «con voce forte e commossa della sua guarigione», la seconda si farà sfuggire quanto di più infelice una persona possa dire di fronte a un malato («Se la goda ancora un poco, signor sottotenente… Mai mi sarei sognata di dover assistere uno di lorsignori sul letto di morte»). Ad essa fa da contraltare il modo brusco ed eccentrico, ma a suo modo partecipe, con cui il direttore medico del sanatorio cerca di confortare Luise e Hans, promettendo una fine indolore, perché «il cuore cede rapidamente, è un bene per lui ed è un bene per noi»: possiamo solo immaginare l’angoscia profonda di quest’uomo, portavoce di una medicina a quei tempi impotente verso la tubercolosi e a continuo contatto con la morte dei suoi pazienti – ma che alla fine saprà dire parole giuste e vere sul senso della vita del soldato Joachim Ziemssen.
In seguito, benché Joachim vada incontro alla morte «con lucida consapevolezza e in pace con se stesso», assistiamo turbati ai suoi momenti di delirio, a quella «illusoria e obliosa autosuggestione che coglie anche gli animi virili quando, di fatto, il processo di disgregazione si avvicina al suo esito letale»: il giovane aspira alle manovre militari, che crede ancora in corso; pare «sapere e non sapere»; lamenta come passeggeri disturbi che sono invece segno certo della fine imminente; dorme e sogna, sogna «quello che a lui piaceva sognare», e qui la delicatezza paterna di Mann tocca a nostro parere il suo vertice più dolce.
Poi, poco prima della morte, due avvenimenti diversi per natura – il primo di ordine fisico, il secondo psicologico – ma entrambi umanissimi e densi di significato: il mutamento accelerato dei lineamenti sofferenti di Joachim, che vive «in un baleno le età della vita che non gli era stato concesso raggiungere nel tempo»; e la trasformazione improvvisa del suo atteggiamento, che si fa «scostante, brusco, inabbordabile, addirittura scortese», e non accetta più di ascoltare «storie ingannevoli ed edulcorate».
Il resoconto della morte, infine, è così composto e realistico, e chiude un’agonia così lunga e dolorosa, che anche a noi pare di essere lì, al capezzale di Joachim e, insieme ad Hans Castorp, di chiudere «gli occhi di quel corpo immobile e privo di respiro». E di fronte alle lacrime che scorrono sulle guance di Hans, capiamo che l’amore è veramente l’unica forza capace di conferire un senso duraturo alla nostra vita.
Luise Ziemssen era una donna coraggiosa. Non si sciolse in lacrime e lamenti alla vista del suo valoroso figlio. Controllata e raccolta come i suoi capelli trattenuti da una retina quasi invisibile, flemmatica ed energica come notoriamente è la gente del suo Paese natale, si assunse il compito di assistere Joachim, letteralmente spronata da quel che vedeva a una materna combattività, e nutrita dalla fede che, ammesso che qualcosa da salvare ancora ci fosse, tale salvezza sarebbe venuta soltanto dalla sua energia e dalla sua vigilanza. E non fu certo per propria comodità, ma solo per senso delle convenienze se dopo qualche giorno acconsentì che venisse chiamata anche un’infermiera al capezzale del malato grave. E fu suor Berta, al secolo Alfreda Schildknecht, a presentarsi con la sua valigetta nera presso il letto di Joachim; tuttavia la gelosa energia della signora Ziemssen non le lasciava gran che da fare né di giorno né di notte, sicché suor Berta aveva un mucchio di tempo per sostare in corridoio e guatare curiosa qua e là col cordoncino del pince-nez dietro l’orecchio.
La diaconessa protestante aveva un animo prosaico. Sola in camera con Hans Castorp e col malato, che non dormiva affatto, e anzi aveva gli occhi aperti pur stando supino, fu capace di dire:
«Mai mi sarei sognata di dover assistere uno di lorsignori sul letto di morte».
Spaventato, Hans Castorp le mostrò il pugno con espressione furibonda, ma lei non comprese che cosa volesse… ben lungi dal pensare, non a torto, che potesse essere opportuno aver riguardo di Joachim, e di mentalità troppo concreta per prendere in considerazione che qualcuno, e men che mai la persona più prossima a Joachim, potesse farsi delle illusioni sul carattere e l’esito di quel caso. «Ecco» disse versando un po’ di acqua di colonia su un fazzoletto che mise sotto il naso di Joachim, «se la goda ancora un poco, signor sottotenente». E in effetti, al momento, non sarebbe certo stato ragionevole dare a intendere a Joachim lucciole per lanterne… a meno di voler esercitare un influsso tonificante, come era nelle intenzioni della signora Ziemssen quando gli parlava con voce forte e commossa della sua guarigione. Perché due cose erano chiare e inconfutabili: innanzitutto che Joachim andava con lucida consapevolezza incontro alla morte e, in secondo luogo, che lo faceva in pace con se stesso e soddisfatto di sé. Solo nell’ultima settimana, alla fine di novembre, quando si palesarono segni di debolezza cardiaca, dimentico di se stesso per qualche ora, pervaso da un’incertezza speranzosa riguardo alle proprie condizioni, cominciò a parlare del suo prossimo ritorno al reggimento, nonché della sua partecipazione alle manovre, che pensava fossero ancora in corso. Eppure fu proprio quello il momento in cui il consigliere aulico Behrens rinunciò a dare ai suoi cari qualunque speranza, dichiarando che la fine era questione di ore.
E’ un fenomeno al tempo stesso melanconico e usuale questa illusoria e obliosa autosuggestione che coglie anche gli animi virili quando, di fatto, il processo di disgregazione si avvicina al suo esito letale… usuale e impersonale oltre che più forte di qualsiasi consapevolezza individuale, come la seduzione del sonno che irretisce l’assiderato o il girare in tondo di colui che si è smarrito…
In quella disperazione Radamanto [il consigliere Behrens, N.d.R.] aveva lasciato adito alla speranza, preconizzando per Joachim un exitus dolce e privo di sofferenze, malgrado la sua giovane età.
«Idilliaci affari di cuore, mia gentilissima signora!» aveva detto tenendo la mano di Luise Ziemssen tra le sue, che erano grandi come pale, e guardandola di sotto in su coi suoi occhi azzurri, sporgenti, lacrimosi, e venati di sangue. «Mi fa piacere, un immenso piacere, che la faccenda prenda la via del cuore e che non ci sia bisogno di attendere l’edema della glottide o una qualche altra infamia; in questo modo gli verranno risparmiate molte vessazioni. Il cuore cede rapidamente, è un bene per lui ed è un bene per noi, che così possiamo opporci, com’è nostro dovere, con iniezioni di canfora, ma con scarsa probabilità che le cose vadano per le lunghe. Alla fine dormirà molto e farà sogni gradevoli, credo di poterglielo promettere, e se anche all’ultimo non riuscirà proprio a dormire, avrà comunque un trapasso rapido e impercettibile, e gli sarà piuttosto indifferente, di questo può star certa. Del resto, in sostanza, è sempre così. Conosco la morte, sono un suo vecchio funzionario, la si sopravvaluta, mi creda! Le dirò che è quasi un nonnulla... Nessuno che ne tornasse saprebbe se alcunché di preciso riguardo alla morte, perché non se ne fa esperienza. Veniamo dalle tenebre e alle tenebre andiamo, in mezzo ci sono le esperienze, ma inizio e fine, nascita e morte, non li sperimentiamo, non hanno carattere soggettivo, in quanto accadimenti essi ricadono per intero nel dominio dell’oggettività, così stanno le cose».
Era questo il modo in cui il consigliere aulico offriva conforto. Vogliamo sperare che l’assennata signora Ziemssen ne traesse un certo sollievo; e comunque le assicurazioni del consigliere furono in larga misura confermate. Il debole Joachim dormì per molte ore in quegli ultimi giorni, e sognò anche, probabilmente, quello che a lui piaceva sognare, di cose militari nelle terre basse, presumiamo; e quando si svegliava e qualcuno gli domandava come si sentisse, rispondeva immancabilmente, seppure in modo indistinto, che si sentiva bene ed era felice – sebbene il suo polso fosse ormai quasi impercettibile e da ultimo non sentisse più neanche l’ago della siringa, il suo corpo era insensibile, lo si sarebbe potuto bruciare e pizzicare, ma al buon Joachim, ormai, non sarebbe importato più nulla.
Eppure, dal giorno dell’arrivo di sua madre, si erano verificati in lui grandi mutamenti. Dato che radersi gli era diventato faticoso e da otto o dieci giorni vi aveva rinunciato, e dato che i peli gli crescevano in fretta sulle guance, il suo volto cereo dagli occhi dolci si era cinto di una folta barba nera ... una barba da guerriero, del genere che il soldato si lascia crescere in battaglia e che peraltro, come tutti
osservarono, gli donava assai, conferendogli un bell’aspetto virile. Già, in virtù di quella barba, ma certo non solo grazie a essa, Joachim era a un tratto diventato, dal giovanotto che era, un uomo maturo. Visse a ritmo accelerato, come un meccanismo a orologeria che si svolge ronzando, e galoppando veloce si lasciò alle spalle in un baleno le età della vita che non gli era stato concesso raggiungere nel tempo, sicché nel corso delle sue ultime ventiquattro ore si trasformò in un vecchio. La debolezza cardiaca recò un gonfiore del viso apparentemente provocato dallo sforzo, tanto che Hans Castorp ne trasse l’impressione che morire dovesse essere, se non altro, una gran fatica, anche se Joachim, grazie ai numerosi mancamenti e ottundimenti, sembrava non rendersene conto; il gonfiore aveva colpito soprattutto la zona intorno alle labbra e, unendosi a esso, il prosciugamento o l’enervazione del palato faceva sì che Joachim, parlando, bofonchiasse come un vegliardo e provasse una vera irritazione per quell’impedimento: appena se ne fosse liberato, farfugliò, sarebbe tornato tutto a posto, ma certo che era un maledetto fastidio.
Che cosa intendesse con quel «tutto a posto» non era chiaro; emergeva chiaramente l’inclinazione propria del suo stato all’ambiguità, e più di una volta pronunciò parole a doppio senso, pareva sapere e non sapere, e una volta, pervaso evidentemente da un senso di devastazione che gli dava i brividi, dichiarò scuotendo il capo e con una certa contrizione che mai nella sua vita era stato male fino a quel punto.
Fu da allora che il suo atteggiamento si fece scostante, brusco, inabbordabile, addirittura scortese; non volle più sentire storie ingannevoli ed edulcorate, smise di rispondere a chi gliele raccontava guardando dritto davanti a sé con aria straniata. Soprattutto dopo che ebbe pregato insieme a lui il giovane sacerdote chiamato da Luise Ziemssen, soprattutto dopo questo momento il contegno di Joachim assunse un’impronta militaresca, di servizio, ed egli cominciò a manifestare i suoi desideri solo in forma di secchi ordini.
Alle sei del pomeriggio cominciò a fare una cosa strana: passò ripetutamente sulla coperta, vicino a un fianco, la mano destra il cui polso era cinto dal braccialetto d’oro a catenella, e dopo averla un po’ sollevata sulla via del ritorno, la riportò a sé sulla coperta con un movimento frusciante e raschiante, come per raccogliere e ammucchiare qualcosa.
Alle sette morì… Alfreda Schildknecht si trovava in corridoio, erano presenti solo la madre e il cugino. Era sprofondato nel letto e aveva seccamente ordinato che qualcuno lo sollevasse un po’. Mentre la signora Ziemssen col braccio intorno alle sue spalle eseguiva l’ordine, lui disse concitato di dover subito compilare e inoltrare una richiesta di proroga per il suo congedo, e mentre diceva questo avvenne il «rapido trapasso»… seguito da Hans Castorp in raccoglimento alla luce schermata di rosso della lampada sul tavolino. I suoi occhi si spensero, l’inconscia tensione dei suoi lineamenti cedette, il gonfiore affaticato delle labbra svanì a vista d’occhio, sulle fattezze ammutolite del nostro Joachim si distese la bellezza di una gioventù precocemente virile, e tutto fu finito.
Poiché Luise Ziemssen si era voltata singhiozzando, fu Hans Castorp a chiudere, con la punta dell’anulare, gli occhi di quel corpo immobile e privo di respiro, fu lui a comporre con cautela le mani sopra la coperta. Poi si drizzò e pianse, lasciò scorrere le lacrime sulle guance… quel liquido chiaro che ovunque e a ogni ora, nel mondo, corre così amaro e copioso da aver dato alla valle della terra il suo poetico nome; quel secreto ghiandolare salso e alcalino spremuto al nostro corpo dalla scossa nervosa di un dolore penetrante, fisico o psichico...
Arrivò il consigliere aulico, avvertito da suor Berta. Solo mezz’ ora prima era stato lì e aveva fatto un’iniezione di canfora; aveva giusto perso l’attimo del rapido trapasso. «Eh sì, per lui adesso è proprio finita» disse semplicemente sollevandosi col suo stetoscopio dal petto silente di Joachim. E strinse la mano dei due congiunti facendo un cenno col capo. Poi rimase ancora un po’ al capezzale con loro, osservando il volto immoto di Joachim incorniciato dalla sua barba da guerriero. «Un giovane gagliardo, un ragazzo in gamba» disse, accennando col capo a Joachim, che ormai riposava. «Ha voluto forzare, sapete… ovviamente il suo servizio laggiù non è stato nient’altro che forzatura e violenza ... ha prestato servizio con la febbre, a ogni costo e malgrado tutto. Il campo dell’onore, capite… ci è scappato di mano per raggiungere il campo di battaglia. Ma l’onore è stato la morte per lui, e la morte… sì, i termini potete anche invertirli, se preferite… in ogni caso ora ha detto: “Riverisco!”. E’ un tipo gagliardo, proprio un discolaccio in gamba.» E se ne andò, alto e curvo, con la sua nuca prominente.

Biografia

Thomas Mann nasce a Lubecca, in Germania, nel 1875. Fin da giovanissimo si dedica al giornalismo e alla letteratura, scrivendo saggi per la rivista studentesca Der Frühlingssturm (La tempesta primaverile). Nel 1894 si trasferisce a Monaco di Baviera, ove in un primo tempo lavora per una compagnia di assicurazioni. Un anno dopo decide di diventare scrittore a tempo pieno.
Nel 1897, su invito dell’editore Fischer, inizia a lavorare al suo romanzo più famoso, i Buddenbrooks, che sarà pubblicato quattro anni dopo con grande successo.
Nel 1905 sposa Katharina Pringsheim (1883-1980), figlia del matematico Alfred Pringsheim e nipote di Hedwig Dohm, un’appassionata propugnatrice dei diritti della donna, famosa nell’Ottocento per il sostegno dato al suffragio femminile e alla lotta a favore dell’aborto. Dal matrimonio fra Thomas e Katharina nasceranno sei figli.
Nel 1929 gli viene conferito il Premio Nobel per la Letteratura.
Nel gennaio del 1933, Mann tiene una celebre conferenza all’Università di Monaco, che segna la sua ultima apparizione pubblica in Germania: “Dolore e grandezza di Richard Wagner”. In quell’occasione lo scrittore mette radicalmente in discussione i legami fra nazionalsocialismo e arte tedesca. La conferenza suscita molte proteste. L’11 febbraio, pochi giorni dopo l’ascesa di Hitler al potere, Mann si reca all’estero per un ciclo di conferenze e non fa ritorno. Si stabilisce dapprima presso Zurigo, poi – nel 1941 – a Pacific Palisades, in California, ove frequenta tra gli altri Arnold Schoenberg e Theodor Adorno.
Nel 1944 diviene cittadino americano. In un famoso appello radiofonico della serie “Attenzione, tedeschi!”, sostiene che gli alleati non mirano a ridurre la Germania in schiavitù, ma a ripristinare la democrazia in Europa.
La prima visita in Germania dopo la guerra risale al 1949. Nel giugno 1952 si trasferisce a Zurigo. Tre anni più tardi, mentre si trova in Olanda, viene colpito da una trombosi: muore la mattina del 12 agosto.
Il primo romanzo di Mann, I Buddenbrooks, narra la storia e la decadenza di una ricca famiglia di mercanti, seguendone le vicende attraverso diverse generazioni: all’analisi psicologica dei personaggi si affianca una altrettanto acuta osservazione della società europea e dei suoi mutamenti nei primi anni del Ventesimo secolo.
Ai Buddenbrooks fanno seguito numerosi racconti, fra i quali Tonio Kröger (1903) e La morte a Venezia (1911). Nel 1912, durante una visita alla moglie nel sanatorio di Davos, in Svizzera, nasce l’idea di Der Zauberberg (La montagna magica): concepito anch’esso in un primo momento come racconto, si trasformerà in un ampio romanzo pubblicato nel 1924.
Fra il 1933 e il 1942, Mann scrive la tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli. Nel 1947 compare il suo romanzo più complesso, Doctor Faustus, storia del compositore Adrian Leverkühn e della corruzione della cultura tedesca negli anni precedenti la seconda guerra mondiale. Nello stesso anno, durante un viaggio in Italia, lo scrittore riceve il premio dell’Accademia dei Lincei.
Nel 1951 esce il romanzo L’eletto, e Mann diviene membro della “Academy of Letters” americana. Il racconto L’inganno, ultimo romanzo breve, viene pubblicato nel 1953.
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