Guida alla lettura
La prima poesia tratteggia con pennellate brevi l’intera parabola della relazione, sino alla dichiarazione finale: ora so chi veramente sei, un’infedele; e anche se ora per me vali molto di meno, tuttavia «brucio ancora più forte», perché un simile affronto spinge «a desiderare di più, ma anche a voler meno bene». Nella seconda lirica il rimpianto e la rabbia si fanno ancora più forti: «Non conta l’aver fatto del bene, anzi, peggio, dà fastidio e porta danno», perché nel mondo c’è solo ingratitudine, e proprio chi abbiamo amato di più finisce per farci il male peggiore. Nella terza, infine, il dilemma supremo: amare e odiare una stessa persona. Una cosa impossibile, inspiegabile: ma il giovane poeta – tradito nelle sue speranze più pure – sente che accade, e si tormenta.
Parole come queste sono universali, e poco conta che a scriverle sia stato un uomo vissuto oltre duemila anni fa. Parlano del dolore di tutti coloro, uomini e donne, che in ogni tempo sono feriti nei propri sentimenti, e la cui fiducia è distrutta proprio dalle persone più care. Chiunque di noi può allora vivere la misteriosa polarizzazione tra amore e affetto, tra sofferenza e desiderio, tra odio e amore, e capire come queste antinomie possano indurci a rimanere intrappolati in relazioni aride, quando non morte, perché temiamo di ferire o – peggio – di essere feriti dall’abbandono oltre ogni possibilità di sopravvivenza.
Per una donna, però, sono parole ancora più eloquenti: perché possono significare anche l’attaccamento che resiste alla violenza, il perdono sempre rinnovato all’aguzzino, la difficoltà e la paura di chiudere una storia che condanna a morte, spesso purtroppo in senso non metaforico. Alle donne smarrite che intorno a sé scorgono solo ingratitudine, che vedono il loro affetto svilito e calpestato, che odiano e amano, e non riescono a intravvedere la luce di una vita nuova, dedichiamo questi versi immortali.
Dicebas quondam solum te nosse, Catullum,
Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem.
Dilexit tum te non tantum ut vulgus amicam,
sed pater ut gnatos diligit et generos.
Nunc te cognovi: quare etsi impensius uror,
multo mi tamen es vilior et levior.
«Qui potis est?» inquis. Quod amantem iniuria talis
cogit amare magis, sed bene velle minus.
Dicevi una volta, Lesbia, che al mondo per te c’era solo Catullo,
e che non m’avresti cambiato neanche con Giove.
Ti ho amata non come la gente ama un’amante,
ma come un padre ama i suoi figli e i generi.
Adesso t’ho capita: così, anche se brucio ancora più forte,
tuttavia per me vali e conti molto di meno.
«Com’è possibile?», chiedi. Perché un’offesa come questa
fa desiderare di più un’amante, ma anche volerle meno bene.
Carme LXXIII
Desine de quoquam quicquam bene velle mereri
aut aliquem fieri posse putare pium.
Omnia sunt ingrata, nihil fecisse benigne,
immo magisque etiam taedet obestque magis;
ut mihi, quem nemo gravius nec acerbius urget,
quam modo qui me unum atque unicum amicum habuit.
Smetti di credere che il voler bene ti crei meriti presso qualcuno,
o che sia possibile imparare a diventare onesti.
Intorno c’è solo ingratitudine, non conta l’aver fatto del bene
anzi, peggio, dà fastidio e porta danno.
Guarda me: nessuno mi perseguita di più e con maggiore asprezza
di chi proprio mi ha avuto come solo e unico amico.
Carme LXXXV
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
Odio e amo. Potresti chiedermi perché.
Non lo so, ma mi accorgo che è così. E mi tormento.
Biografia
Nel 60 si trasferì a Roma, ove si innamorò di Clodia, sorella del tribuno Clodio, moglie di Quinto Cecilio Metello Celere, governatore della Gallia Cisalpina nel 62-61 e console proprio nel 60. La donna, che egli cantò con il nome di Lesbia, aveva una decina di anni più di lui: ben presto il poeta si rese conto dei suoi disinvolti tradimenti, e nelle liriche trasfuse tutta la sua sofferenza e il suo disinganno.
Catullo è il rappresentante più importante dei “poetae novi”, che nel primo secolo avanti Cristo portarono a Roma la poetica degli Alessandrini, caratterizzata da componimenti brevi ed eruditi, aperti alle effusioni dell’anima ma anche intrisi di dottrine astruse, di riferimenti mitologici spesso incomprensibili ai più. Catullo ereditò quest’arte raffinata e la superò, irrobustendola con la forza dei suoi sentimenti, che espresse con forza e sincerità, e lasciandoci un’opera realmente viva ed eterna.
Il “Liber” a noi pervenuto comprende 116 carmi, raggruppati secondo un criterio metrico, ed è l’unica opera che egli lasciò: morì infatti a Roma intorno al 54, a soli trent’anni.