Guida alla lettura
Il libro è suddiviso in dieci capitoli specialistici, più uno di respiro generale: disabilità; disturbi psichici; depressione; tossicodipendenza; alcolismo; leucemia; insufficienza renale cronica; malattie del cuore; HIV/AIDS; Alzheimer. L’ultimo non tratta di patologie specifiche, ma del destino di ogni essere vivente: l’esperienza del morire. Ogni capitolo offre un itinerario per comprendere meglio le patologie, non tanto dal punto di vista medico, quanto piuttosto dal punto di vista emotivo, relazionale e spirituale.
Nelle pagine dedicate alla leucemia, scopriamo che sino a cinquant’anni fa questa patologia in forma acuta era pressoché incurabile, mentre oggi l’80 per cento di chi ne è colpito guarisce. Ma per molti la speranza è rappresentata dai donatori di midollo osseo: ed è a questa speranza che è dedicata la lettera di Giovanni, ventidue anni, che oggi proponiamo.
Dalla lettera emergono in modo evidente la sofferenza di Giovanni, ma anche la sua lucidità e la sua calma, per cui la verità della malattia non smette mai di confrontarsi con la speranza di guarire, di trovare una via di uscita, di farcela anche contro il destino. E questo d’altronde è il tono di tutto il libro, i cui protagonisti guardano in faccia il dolore senza che questo prenda mai il sopravvento: perché combattere la sofferenza significa anche cercare di superare l’abisso esistenziale che essa può provocare.
Ovviamente è facile a dirsi, è facile scriverlo. Più difficile realizzarlo in un’esistenza segnata dal dolore. Ed è per questo che il libro di Pangrazzi merita di essere letto con attenzione e curiosità, in quanto propone una specie di “cordata” umana per non precipitare. Qui è tutto troppo difficile per scalare la parete da soli. E allora, oltre che analizzare dal punto di vista scientifico cause biologiche e implicazioni sociali delle malattie, si parla di dialogo, si discute delle sfide a cui sono chiamati laici e credenti, delle comunità terapeutiche che possono ricostruire la persona e non solo la fisicità, di sostegno alle famiglie perché non si sentano abbandonate, di amicizia, vicinanza umana, disponibilità, gratuità.
Insomma, il senso più profondo del libro è che il dolore non è un fatto individuale, privato, ma un territorio in cui si misurano solidarietà e prossimità: «I volti della sofferenza – osserva Pangrazzi commentando il titolo del libro – rappresentano la complessa geografia delle fragilità umane; e i cuori della speranza sono i portavoce e i testimoni della dell’accoglienza e della cura: insieme percorrono tratti di un viaggio che unisce, da sempre, aiutati e aiutanti, feriti e guaritori, morenti e viventi, in un’esperienza esistenziale in cui ognuno può essere dono per l’altro, libro di vita, fonte d’ispirazione, conforto umano e spirituale».
La seconda risposta è che sono i numeri, i maledetti numeri, a rendere le cose così difficili a me e ai miei compagni di sventura. Oggi, voci in corridoio: «Sono finite le piastrine; ma il signor Natalino ne ha assoluto bisogno. E adesso!».
Parlavo di numeri: sarò schietto, dicendo che non ci sono abbastanza persone, tra “voi”, disposte a dare un po’ di loro per tenere in vita “noi”. Ci sono una serie di elementi automaticamente pazzeschi, in questa storia. Per iniziare, è pazzesco fare, a ventidue anni, i conti con la morte. Ma basta fare un giro in pediatria per vedere di peggio. Poi, questa cosa della statistica è una di quelle che in assoluto mi indispongono di più. Mi infastidisce quasi più del cocktail di farmaci che ogni sera quasi mi soffoca, costringendomi a dosi massicce di cortisone. Insomma, per farla breve, se 100.000 di “voi” si iscrivessero al registro donatori dopo un esame del sangue, probabilmente tra essi troverei una persona compatibile con me. Questi i numeri su cui mi arrovello, mentre guardo le gocce che lentamente entrano nel mio sistema circolatorio.
Poi, stanco, decido di alzarmi e di fare due passi in corridoio. Incontro tante teste con i capelli radi o scomparsi, tante gote scavate, tanti occhi affossati. Centomila per ognuno di loro. Quanti muoiono ogni giorno semplicemente perché il loro centomillesimo, il loro uomo-medicina, non sa di esserlo? Fa impressione.
A me va anche relativamente bene, rispetto ad altri qui dentro: dei 2 milioni di staminali emopoietiche, le cellule che producono il sangue, ne ho ancora il 10%. Non posso guarire senza trapianto, ma posso sperare di rimettermi, e se mi rimetto avrò ancora una decina di anni prima che le cellule residue muoiano o impazziscano, iniziando a riversare spazzatura nel sangue. Altri numeri. Eh, ma in dieci anni salterà fuori il mio uomo-medicina, forse!
C’è qualcosa di molto amaro e di molto dolce in questo “forse”, sospeso sulle teste di così tanti di “noi”. In pratica, i nostri figli, il nostro lavoro, la nostra casa al mare, la nostra compagna o il nostro compagno, le nostre passioni, il nostro futuro sono nel corpo di qualcuno che magari non sa nemmeno quale dono, quale potere abbia. Guardando il gocciolio della mia flebo, penso a quante persone muoiono per una ragione evitabilissima, come il semplice non sapere.
Sii consapevole, per favore, che hai in mano un salvagente che puoi lanciare all’uomo in mare. Prendi il coraggio per fare la cosa giusta, la cosa migliore, ma non per Giovanni, per il tuo amico, per tua moglie, per il conoscente, per la persona nota. Spero che tu ti dia per amore di un perfetto sconosciuto, amore dovuto a un altro essere umano, anche solo per essere tale.
Giovanni