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La metamorfosi

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02/07/2008

Tratto da:
Franz Kafka, Racconti, Feltrinelli, 1957

Guida alla lettura

“La metamorfosi” è il più noto e inquietante racconto di Franz Kafka. Gregorio Samsa è viaggiatore di commercio e unico sostegno economico della famiglia. Ama in particolare la sorella Grete, che fa studiare al Conservatorio. Un giorno il giovane si risveglia trasformato in un enorme insetto. Inizia così un’angosciante vicenda in cui Gregorio scoprirà la fondamentale estraneità e avversità dei suoi familiari, colpiti da una sventura che sentono come un marchio d’infamia di cui liberarsi a tutti i costi. Il figlio e fratello diventa un “mostro”, e la sua morte verrà salutata come la liberazione da un incubo.
Il racconto è stato universalmente interpretato come una spietata lettura dei rapporti sociali della nostra epoca, e anche come un’anticipazione dell’analisi che dell’abbandono e della solitudine farà l’esistenzialismo. Noi lo proponiamo come spunto di riflessione intorno all’handicap e alla malattia invalidante.
Nello sviluppo della vicenda emergono tutte le tensioni che in questo tipo di situazione, come spesso traspare da dolorosi fatti di cronaca, possono toccare e deformare anche le relazioni umane più strette: la perdita del lavoro da parte di Gregorio getta la famiglia nell’indigenza, e la costringe a subaffittare parte della casa, moltiplicando e inasprendo le occasioni di imbarazzo; il dolore sconfina facilmente nella rabbia, e proprio in un accesso d’ira il padre ferisce gravemente Gregorio, scagliandogli addosso una mela; l’amarezza dell’emarginazione sociale e il peso della fatica quotidiana portano nel tempo a percepire la presenza dell’infelice giovane come una “eterna tortura”. A tutto ciò si contrappongono i sentimenti intatti di Gregorio, che continua a pensare ai familiari “con tenero affetto”.
Nel brano che riportiamo – nella fondamentale traduzione di Giorgio Zampa – la famiglia si riunisce per decidere la sorte di Gregorio. La più accanita sostenitrice della rescissione di ogni rapporto è la sorella: «Devi solo cercare – dirà al padre – di liberarti del pensiero che quel coso è Gregorio». Soltanto la madre sembra non adattarsi alla crudele decisione perché, nonostante tutto, al di là del mostro, forse vede ancora il figlio un tempo amato. Ma Gregorio, rientrato nel carcere della sua camera, morirà quella notte stessa, permettendo alla famiglia di ritrovare la sua unità e di pensare ai “freschi sogni” del futuro, come con tremenda intuizione osserva l’autore nel finale del racconto.
Il destino di Gregorio ci avverte che ognuno di noi, in condizioni estreme, può arrivare a vedere il mostro in un figlio, un fratello, un genitore che soffra per un malattia gravemente invalidante. Leggiamo questa pagina, dunque, non per trarre conclusioni moralistiche, consolanti quanto illusorie, ma per approfondire il nostro senso di compassione e solidarietà verso chi si trovi a vivere un dramma simile – ammalati e familiari. Una presenza discreta e generosa nella sventura può salvare dall’abbrutimento e aiutare ad attraversare il dolore senza smarrire l’umanità che è in noi.
«Cari genitori – disse la sorella, picchiando la mano sulla tavola a guisa d’introduzione – così non si va avanti. Se non ve ne accorgete voi, me ne accorgo io. Davanti a questo mostro, non voglio pronunciare il nome di mio fratello, vi dico solo: dobbiamo cercare di liberarcene. Abbiamo fatto quanto era umanamente possibile per curarlo e sopportarlo, credo; nessuno potrà farci al riguardo il minimo rimprovero».
«Ha mille ragioni», disse il padre tra sé. La madre tossiva sordamente nella mano tenuta contro il viso, con un’espressione da folle negli occhi. La sorella le corse vicino e le sostenne la fronte...
«Dobbiamo cercare di liberarcene – disse la sorella rivolgendosi, ora, solo al babbo, perché la mamma, con la sua tosse, non udiva nulla – Altrimenti finirà con l’ammazzarvi, ne sono certa. Quando si lavora duro come noi, non è possibile sopportare, di giunta, questa eterna tortura in casa. Anch’io non ne posso più». E scoppiò in un pianto tale che le lacrime presero a colare sul viso della mamma, mentre lei, con gesti meccanici, le asciugava.
«Figlia mia – disse il padre impietosito, con insolito spirito di comprensione – che dobbiamo fare?».
La sorella si strinse nelle spalle, esprimendo così la perplessità che l’aveva colta durante il pianto, in contrasto con la sicurezza di prima.
«Se lui, almeno, ci capisse!», disse il babbo, come ponendo una domanda; ma la sorella, tra le lacrime, scosse con veemenza la mano, per significare che non c’era da pensarci.
«Se lui ci capisse – ripeté il babbo chiudendo gli occhi quasi per dimostrare che, d’accordo con la figlia, escludeva tale possibilità – forse potremmo intenderci. Ma così...».
«Deve andar via! – gridò la sorella. È l’unico mezzo, babbo. Devi solo cercare di liberarti del pensiero che quel coso è Gregorio. La nostra disgrazia è stata che l’abbiamo creduto per tanto tempo. Come potrebbe essere Gregorio? Se fosse Gregorio, si sarebbe accorto da un pezzo che degli uomini non possono convivere con una bestia simile e se ne sarebbe andato da solo. Avremmo perduto un fratello, è vero, ma avremmo potuto continuare a vivere e a onorare la sua memoria. Invece questa bestia ci perseguita, mette in fuga i pensionanti, vuole, è evidente, impadronirsi di tutta la casa e metterci in mezzo a una strada. Guarda, babbo! – gridò d’improvviso – Ora ricomincia!».
E in un moto di terrore che Gregorio non riuscì a capire, la sorella abbandonò così bruscamente la mamma da far vacillare la poltrona, quasi preferisse sacrificare la mamma piuttosto che rimanere vicino a Gregorio. Quindi corse verso il babbo, che, persa a sua volta la testa, si alzò levando le braccia, come per proteggerla.
Ma Gregorio non pensava a spaventare nessuno, specie la sorella. Aveva solo cominciato a voltarsi per tornare nella sua stanza; i suoi movimenti potevano sembrare sospetti perché, sofferente come era, nelle fasi più difficili doveva aiutarsi con la testa, che alzava a diverse riprese, e poi batteva sul pavimento. Si fermò e si guardò intorno. S’erano accorti, sembrava, delle sue buone intenzioni: era stato solo un momento di panico. Ora lo guardavano tristi e in silenzio. La mamma era allungata sulla sua poltrona, le gambe distese e strette una all’altra, gli occhi quasi chiusi dalla stanchezza; babbo e sorella sedevano vicini, la sorella aveva appoggiato la mano sul collo del babbo.
«Ora, forse, posso voltarmi», pensò Gregorio, e si rimise al lavoro. Lo sforzo gli dava l’affanno e ogni tanto doveva riposare. Ma nessuno gli metteva fretta, poteva regolarsi come credeva. Quando ebbe finito di voltarsi, cominciò a dirigersi dritto verso la camera. Si stupì per la distanza e non capì come prima avesse potuto coprire, debole com’era, tutto quel tratto, quasi senza accorgersene. Intento a strisciare via quanto più in fretta che poteva, non s’accorse che non una parola, non un grido della famiglia lo turbarono. Solo quando ebbe raggiunta la soglia voltò il capo, non del tutto, perché il collo gli si irrigidiva, solo quanto bastò per vedere che alle sue spalle nulla era cambiato, soltanto la sorella s’era alzata. Il suo ultimo sguardo sfiorò la mamma, immersa nel sonno.
Appena arrivato in mezzo alla stanza, l’uscio venne in fretta rinchiuso, sbarrato e girata la chiave. A quel fracasso, Gregorio si spaventò a tal segno che le zampine gli si piegarono sotto. Era stata la sorella, ad affrettarsi tanto. Aveva atteso, dritta in piedi, quel momento, ed era poi balzata avanti senza rumore. Gregorio non l’aveva sentita arrivare. «Finalmente!», gridò rivolta ai genitori, quando poté dare una mandata alla chiave.
«E ora?», si chiese Gregorio, guardandosi intorno, nel buio. S’accorse che non poteva più muoversi. La cosa non lo stupì, se mai gli parve straordinario d’essersi potuto muovere fino a quel momento, sulle sue esili zampe. D’altra parte, si sentiva abbastanza bene. Aveva, è vero, dolori in tutto il corpo, ma gli pareva che a poco a poco si facessero meno forti e che alla fine sarebbero scomparsi del tutto. Non sentiva nemmeno più la mela fradicia incastrata nel dorso né la zona infiammata intorno, ora coperta d’una polvere sottile. Pensava alla famiglia con tenero affetto. La sua decisione di sparire era, se possibile, ancora più ferma di quella della sorella. Volgendo tra sé questi vuoti e tranquilli pensieri, sentì l’orologio della torre battere le tre del mattino. Vide ancora una volta, fuori della finestra il baluginare del giorno. Poi il capo gli ricadde esanime, e dalle narici uscì l’ultimo, tenue respiro.
Quando, la mattina presto, arrivò la donna, nel fare, come sempre, la sua breve visita a Gregorio, essa non notò, dapprima, nulla di straordinario. Pensò che quello rimaneva disteso di proposito, per fare l’offeso; perché lo credeva capace di ragionare come un essere umano. Con la lunga scopa che per caso stringeva, cercò di solleticarlo, rimanendo sulla porta. Visto che neanche così otteneva nulla, s’arrabbiò e colpì più forte. Il corpo si spostò, senza resistenza; allora s’incuriosì. Quando si fu resa conto di quello che era successo, spalancò gli occhi, si mise a fischiettare, ma poi non si trattenne, spalancò la porta della camera da letto e gridò nel buio: «Vengano a vedere, è crepato; se ne sta là disteso, proprio crepato!».
I due Samsa sedettero sul letto e dovettero rimettersi dallo spavento, prima di capire quanto la vecchia aveva detto. Poi, ognuno dalla sua parte, saltarono in piedi; il marito si buttò una coperta sulle spalle, la moglie rimase in camicia e così entrarono nella camera di Gregorio. Intanto, s’era aperta anche la porta della sala, ove Grete dormiva da quando erano arrivati i pensionanti; completamente vestita, non sembrava avesse dormito, come dimostrava anche il pallore del volto.
«È morto?», chiese la signora Samsa guardando la vecchia con aria interrogativa, sebbene potesse vedere la cosa da sola e persino convincersene senza verifiche.
«Direi», disse la donna spingendo, con la scopa, a riprova, il cadavere di Gregorio e facendolo scivolare per un bel tratto. La signora Samsa abbozzò un gesto per trattenere la scopa, ma si fermò a mezzo.
«Beh – disse il signor Samsa – possiamo ringraziare Dio». Si fece il segno della croce e le tre donne ne seguirono l’esempio.

Biografia

Di famiglia ebrea, Franz Kafka nasce a Praga nel 1883. Oppresso dalla forte personalità paterna, il giovane rinuncia a crearsi una famiglia e un’esistenza indipendente; una grave forma di tubercolosi, contratta in età adulta, lo distaccherà ancora di più dalla vita. Da questa situazione di isolamento nascono tutti i principali temi della sua narrativa che, oltre ai “Racconti”, include i romanzi “Il processo”, “Il castello” e “America” (pubblicati postumi). Scrisse anche un diario e un epistolario, di cui fa parte la celebre “Lettera al padre”.
Nei suoi scritti Kafka analizza e approfondisce il conflitto fra arte e legge, il suo difficile rapporto con il mondo femminile e il problema della colpa come regola universale. L’uomo è sempre colpevole, in base a una giustizia incomprensibile e spesso amministrata da una burocrazia sordida e meschina (come nel “Processo”). E, ammonisce “La metamorfosi”, nella vita di un uomo può sempre manifestarsi un’improvvisa e irreparabile perdita di contatto con la realtà, cui seguono una crudele emarginazione e il naufragio esistenziale.
Kafka muore nel 1924 nel sanatorio di Kierling, presso Vienna, dopo una dolorosa agonia. Riposa nel cimitero ebraico di Praga-Žižkov, accanto ai genitori. Una lapide commemora anche le tre sorelle minori, perite nei lager nazisti.
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