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Invidia: un tormento che nasce dal rifiuto di sé

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Invidia: un tormento che nasce dal rifiuto di sé
15/03/2023

Tratto da:
Enzo Bianchi, L’invidia e la gratitudine, La Repubblica, 6 Marzo 2023

Guida alla lettura

In questa riflessione Enzo Bianchi propone una lettura insolita e profonda del sentimento di invidia: non solo acrimonia, livore, malanimo verso chi ha qualcosa che l’invidioso non ha, ma anche e soprattutto cecità verso la propria realtà, «segnata dal limite come quella di tutti, ma anche dotata di doni e di forze che l’individuo non sa più percepire proprio nella misura in cui è ossessionato dall’altro».
L’invidia, dunque, come segno del rifiuto di sé, di ciò che si fa, di ciò si potrebbe fare se solo si credesse di più nelle proprie risorse; ed esito di una forma radicale di ingratitudine: verso la vita che ci apre la possibilità di esistere, verso la terra che ci genera e ci ospita, verso chi ci ha preceduto, verso chi cammina al nostro fianco, e in definitiva verso se stessi e le concrete possibilità determinate dai talenti di cui si è stati dotati – se da Dio o dalla genetica, poco importa.
«L’invidioso – afferma Bianchi – non accetta il posto che occupa e desidera avere quello di un altro», il che ricorda altre parole da lui scritte nel 2007 a proposito di chi, ammalato di acedia (non a caso, un altro vizio capitale), «non sa essere “qui e ora”, ma sogna sempre di essere altrove». Giova rammentare che l’accidioso è l’inconcludente per eccellenza, perché incapace di concentrarsi, di prendere le cose sul serio, di portare a compimento ciò che intraprende: ancora una volta, come per l’invidia, nei sotterranei del disagio esistenziale si aggira l’ingratitudine per ciò che si è e si potrebbe essere, se solo si sapessero vedere gli spazi sconfinati del proprio destino.
Un secondo importante monito che Bianchi ci porge, quasi di sfuggita, è l’esigenza urgente di ritrovare la capacità di leggere i tempi, per intercettare le patologie emergenti e porvi rimedio. Un tempo questo era il “mestiere” dei profeti e degli indovini, poi venne il turno dei filosofi e dei poeti, e dopo ancora di ogni persona colta e capace di spirito critico: oggi questa dote sembra smarrita perché il chiacchiericcio sul presente soffoca sul nascere ogni serio pensiero su di esso, e perché la scuola, alleggerendo i programmi di studio, educa sempre meno alla comprensione delle costanti dell’agire umano, confondendo il duro lavoro di forgiatura di una mente libera con lo sfogo epidermico di opinioni superficiali – non troppo diversa, in questo, dal triste strepito dei social.
Conoscere il tempo passato, interrogare il tempo di oggi, sono premesse imprescindibili per un domani non dominato dall’incompetenza e dal furore, per un domani in cui il tentativo sempre rinnovato di costruire una società vivibile per tutti non dia risultati troppo insufficienti, e consegni alle nuove generazioni le più importanti delle virtù: l’uso retto della ragione, la speranza, e il coraggio di agire.

La parola dell'autore

Le passioni, o quelli che erano chiamati “vizi capitali” ed erano un capitolo importante nella formazione del carattere e di tutta la persona, si attestano con frequenze diverse nelle varie epoche. Chi è esercitato alla kairologia, la conoscenza dei tempi, sa riconoscere nell’esperienza storica e sociale le patologie emergenti e, come una sentinella, è capace di indicarle, addirittura prevederle, e quindi denunciarle affinché sia possibile contenerle e combatterle a beneficio della convivenza umana.
È innegabile, anche a detta dei sociologi, che nella nostra società attualmente l’invidia è dilagante, e di conseguenza si fa sempre meno presente e sentita la gratitudine. Perché se il sentimento della gratitudine è coltivato ed esercitato, l’invidia si può spegnere. La gratitudine infatti è un antidoto all’invidia, la quale si nutre sempre dell’infelicità altrui. Spinoza osservava che «per l’invidioso nulla è più gradito dell’infelicità altrui, nulla è più molesto della felicità dell’altro».
Quasi ogni giorno veniamo a conoscenza di persone che provano rabbia o dolore di fronte al successo altrui, al punto da voler distruggere chi beneficia di qualcosa di cui loro sono prive. L’invidia è sempre un sentimento distruttivo, tormenta chi ne soffre che deve riconoscere i doni, il valore che l’altro possiede e che lui non è in grado di ottenere.
Soprattutto è l’impotenza a scatenare l’invidia, perché rende impossibile o comunque difficile il giusto equilibrio tra il bisogno di autoaffermazione e la sofferenza del limite, che è insofferenza verso le possibilità di cui l’altro gode. Sì, l’invidia è il tormento dell’impotente che, come evoca il termine in-videre, non permette di vedere, o meglio ancora non sopporta di vedere la grandezza dell’altro che gli risulta inviso.
Si verifica così un accecamento, che significa innanzitutto un non vedere sé stesso nella propria realtà: una realtà segnata dal limite come quella di tutti, ma anche dotata di doni e di forze che l’individuo non sa più percepire proprio nella misura in cui è ossessionato dall’altro.
Per questo, l’invidia diventa odio, non un odio verso il nemico o chi ci ha fatto del male, ma un odio verso chi, solo a vederlo, dà fastidio e con la sua sola presenza ferisce. Come Caino invidioso di Abele finisce per ucciderlo, come i figli di Giacobbe non sopportano i doni del fratello Giuseppe e cercano di eliminarlo, così sempre l’invidioso non accetta il posto che occupa e desidera avere quello di un altro. La sua richiesta è sempre una protesta contro il limite, un rifiuto della misura. Perché in realtà tutti gli umani conoscono e patiscono il limite e devono accettarlo per sentirsi tali in verità e vivere ogni rapporto “con misura”. Non a caso nella Regola monastica di Benedetto ricorre l’insegnamento “de mensura”, perché nella vita comune se si accetta il limite e di conseguenza ci si attiene alle regole della misura si può vivere spegnendo in sé il sentimento che uccide la comunione: l’invidia. Quest’ultima è la malattia mortale che non permette il ringraziamento, mentre quanto più grande e radicata è la gratitudine tanto più schiaccia l’invidia.
Viviamo in una società nella quale non si sa più dire «grazie» a nessuno: né alla terra, né a chi ci ha preceduto, né a chi cammina accanto a noi e non ci lascia soli, anzi ci sostiene. Gratitudine è la virtù da recuperare urgentemente!

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È stato priore dalla fondazione del monastero sino al 25 gennaio 2017: gli è succeduto Luciano Manicardi, poi sostituito, nel gennaio 2022, da Sabino Chialà.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
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