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Dietro le nubi nere, il sole brilla

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12/06/2019

Tratto da:
Jean Vanier, Vincere la depressione, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI), 2009, p. 36-40

Guida alla lettura

In questa acuta riflessione Jean Vanier, filosofo e filantropo canadese, ci porta al centro della battaglia contro la depressione: un sentimento di inutilità e di morte che colpisce molte persone del nostro tempo, e che a volte sembra prevalere senza appello sulla forze della speranza e della vita.
Il ragionamento si articola in tre snodi fondamentali. Primo: anche quando siamo depressi, esiste una chiave in grado di aprire la porta della liberazione – e quella chiave è all’assenso alla nostra identità profonda. Massimo Recalcati, da una prospettiva più rigorosamente psicoanalitica, ha scritto pagine memorabili sull’esigenza di ascoltare ed esaudire (verbi che non a caso provengono dalla medesima radice latina) il proprio desiderio più autentico e vero, contro ogni forzatura esercitata dall’ambiente esterno.
Secondo: l’animo della persona depressa è come un campo di battaglia in cui si scontrano l’aspirazione a una vita più autentica e la tristezza che divora le giornate. Orbene, la dimensione segreta del nostro essere, quella che ci chiama a essere ciò per cui siamo nati, è in apparenza la più debole, quella «già sconfitta in anticipo». E invece, come un candela nell’oscurità, è in grado di dissipare le tenebre più fitte, se solo le si dà fiducia, se si decide di scommettere sul futuro.
Terzo: scegliere la vita non pone al riparo dal rabbioso contrattacco delle dominanti tenebrose. Verranno momenti di crisi, di difficoltà, in cui saremo chiamati a riaffermare la nostra speranza, a riscegliere il nostro desiderio più vero, a non identificarci nuovamente con il mostro della depressione.
Con parole semplici e uno stile pacato, Vanier – spirato a Parigi poche settimana fa – ci insegna che non è mai troppo tardi per fare della nostra vita un’opera d’arte, il capolavoro che abbiamo sempre desiderato che fosse.
Noi, uomini e donne della terra, siamo meravigliosamente ben fatti. Vi è in noi una dimensione molto profonda, intima e misteriosa: è il cuore profondo, fatto per la comunione e la gioia. Vi è anche una parte più superficiale, fatta di sentimenti e di immaginazione. Noi abbiamo la possibilità di immaginare cose che non esistono, possiamo rinchiuderci in una gabbia di pensieri che non sono altro che fantasmi e immagini.
A volte possiamo occultare la realtà profonda del nostro cuore e della nostra vita con ogni sorta di cose immaginarie.
Per aprile una porta ci vuole una chiave. Così, anche per aprire il cuore e scoprire il senso e il ritmo della vita ci vuole una chiave. Può capitare che ci lasciamo imprigionare nella tristezza e rifiutiamo la vita. E’ allora necessaria una chiave per aprire la porta che fa accedere alla libertà, la porta della vita, la porta della liberazione.
C’è una chiave, una piccolissima chiave, una chiave segreta: consiste nel credere che, al di là dei sentimenti di tristezza e di morte, vi è il nostro essere interiore, nascosto in profondità, nel quale c’è la vita. E questo essere profondo è unico e importante, ha un destino, è chiamato a crescere e a occupare più spazio.
Non lasciarti invadere da quei sentimenti. Abbi fiducia nel fatto che al di là ci sei tu, la tua persona. Dietro le nubi nere, il sole brilla. La chiave che apre è il “sì” alla tua identità profonda, che ci cela dietro le nubi della tristezza.
La persona con la quale riuscirai a parlare ti aiuterà con il suo ascolto, pieno di tenerezza e di attenzione, a scoprire quella dimensione misteriosa e profonda del tuo essere, ti aiuterà ad amarla e ad apprezzarla.
Invece di dire «Sono un buono a nulla, sono incapace, voglio scomparire e morire», imparerai a poco a poco a dire: «Ci sono in me angosce e sentimenti mortiferi che non so da dove mi vengano». Così scoprirai che ci sono due dimensioni in te: quella misteriosa e nascosta, la sorgente del tuo essere e della tua vita, e l’altra, ferita, che invia alla tua coscienza messaggi di tristezza, di morte e di rivolta. Scoprirai in te una specie di lotta o di guerra tra queste due parti del tuo essere, come se, in certi momenti, il tuo cuore fosse un campo di battaglia.
Le dimensione segreta e luminosa sembra così piccola e debole, quasi un nulla; la dimensione dello scoraggiamento e della morte sembra enorme, schiacciante. La parte debole, che spunta dalla terra come un piccolo germoglio, sembra già sconfitta in anticipo. Eppure non è così! In una stanza completamente al buio, se tu accendo un fiammifero o una candelina, tutto si rischiara. Tutto sta nel credere a quella piccola luce che dissipa le tenebre. La dimensione più profonda in ciascuno di noi è come quella luce che può scacciare le tenebre.
Questo non vuol dire che le tenebre non siano spesse, lo sono. Non vuol dire che sia facile accendere la candela; no, a volte è difficile. Ma c’è una speranza, c’è una luce: la vita è più forte della morte, la luce più forte delle tenebre, l’amore più forte dell’odio.
Nella misura in cui non mi identifico più con la depressione, e riesco a distinguere la mia dimensione profonda dai sentimenti di tristezza e dal senso di colpa che insorgono in me non so bene da dove, io possiedo la chiave della guarigione e della resurrezione.
Dovrò affrontare, in certi momenti, lotte terribili: da una parte il mio essere profondo, così nascosto, che anela a essere riconosciuto, assetato di comunione e di libertà interiore. Dall’altra ci sono quelle dominanti di tristezza, di distruzione e di morte che mi invadono, mi giudicano e mi condannano, che asseriscono che sono un incapace, che devo scomparire.
Se tu scegli la vita, dovrai lottare contro queste dominanti tenebrose, una lotta che in certi momenti potrà essere dura come quella che ci conduce per liberare un uomo o una donna dalla dipendenza dall’alcol o dalla droga. Ma ogni volta che opti per la vita, ogni volta che scegli la tua dimensione profonda, le tenebre indietreggiano.
Non bisogna lasciarsi dominare e abbattere da angosce di tristezza e di morte, da questa immagine negativa di sé. Bisogna reagire. Evita la faccia da funerale e non vestirti a lutto. Indossa abiti chiari, cura il tuo corpo. Fa’ tutto quello che puoi a queste forze tenebrose. E’ una lotta non sempre facile, ma ne vale la pena perché porta alla vita e alla liberazione.

Biografia

Jean Vanier nasce nel 1928 a Ginevra, dove suo padre – Governatore Generale del Canada – è in servizio come diplomatico (il Paese nordamericano otterrà la piena indipendenza solo nel 1931).
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, si trova a Parigi. Nel 1940, la sua famiglia si rifugia in Inghilterra, su un’affollatissima nave di rifugiati. E’ questo il primo contatto del giovanissimo Jean con il dramma dell’emarginazione. L’anno successivo, tornato in Canada, Vanier sente il bisogno di contribuire alla liberazione dell’Europa e si iscrive al College della Marina Reale Inglese: inizia così una precoce carriera militare che lo vedrà prima cadetto e poi ufficiale della Marina britannica e della Marina canadese. A vent’anni, però, abbandona la vita militare per intraprendere gli studi umanistici: studia filosofia all’università di Parigi, ove consegue il dottorato, e successivamente insegna per alcuni anni a Toronto.
Nel 1963, la vera e definitiva svolta della sua vita: l’incontro con la disabilità mentale e fisica. E’ lui stesso a raccontare: «Mi trovavo di nuovo in Francia, e un sacerdote mi mise in contatto con alcuni ragazzi che non erano assetati di studio, ma si chiedevano: chi sono, perché sono così, perché i miei genitori non sono felici che io esista?». Colpito da quegli incontri, l’anno dopo Vanier accoglie con sé due giovani disabili, Raphael e Philippe, in una casetta a Trosly-Breuil, villaggio a nord di Parigi. Inizia così l’esperienza delle comunità dell’Arca.
«A poco a poco – ricordava Vanier anni dopo – mi sono reso conto della profonda ferita che segna le persone disabili. Anche se attentamente curate, non comprendono perché sono emarginate, perché non vivono come i loro fratelli e le loro sorelle. E può succedere anche che siano gravemente oppresse: ho visto, in giro per il mondo, bambini incatenati, uomini e donne ammassati nella sporcizia. L’esperienza mi ha insegnato che la loro violenza, le loro stranezze, la loro depressione sono una richiesta di vera relazione: “Vale la pena occuparsi di me? Posso essere amato come gli altri?”. La sola risposta possibile è che un altro cuore dica loro: “Sì, tu lo meriti. Sono disposto ad impegnarmi con te perché voglio che tu viva in piena dignità”».
Nel 1971, con Marie Melene Matthieu, fonda il movimento “Fede e Luce”, che riunisce persone con handicap, i loro genitori e i loro amici per condividere momenti di divertimento e di preghiera.
Fino al 1981 Vanier gestisce personalmente la comunità dell’Arca di Trosly-Breuil. La sua sensibilità e il suo lavoro per costruire una società più umana sono stati riconosciuti anche attraverso riconoscimenti come la Legion d’Onore in Francia, il Premio Internazionale Paolo VI, il Premio umanitario Rabbi Gunther Plaut.
In una intervista, ha affermato: «Fra i nostri ospiti c’è anche chi non ha la possibilità di parlare. E allora comunichiamo attraverso gli occhi. Con loro, io che prima ero sempre stato con persone vincenti ho scoperto persone che hanno perso tutto. La malattia mentale è una grossa domanda per il nostro mondo. Ma viviamo in un mondo che ancora fa fatica ad accettare chi è disabile. Eppure, siamo nati tutti nella debolezza, e moriremo nella debolezza. E tutti abbiamo bisogno di sentirci apprezzati e di essere considerati unici: di non essere un numero in un gregge, ma di essere ascoltati e amati. E’ un bisogno che va al di là di qualsiasi capacità o incapacità».
Oggi nel mondo ci sono oltre 130 comunità dell’Arca, e oltre mille comunità “Fede e Luce”. La loro carta costitutiva dice: «Le nostre comunità non sono una soluzione ma un segno, il segno che una società realmente umana deve essere fondata sull’accoglienza e sul rispetto dei più piccoli e dei più deboli».
Jean Vanier è morto a Parigi poco più di un mese fa, il 7 maggio 2019.
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