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La sera del dí di festa

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10/07/2013

In: Giacomo Leopardi, Poesie e prose. Vol. 1: Poesie, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2006

Guida alla lettura

Questo idillio, composto da Leopardi a Recanati, forse nell’ottobre del 1820, offre una serie di motivi che confluiscono da ricordi e annorazioni varie, al punto che se ne è parlato come insieme di “divini frammenti”. La descrizione della notte serena e lunare è negli “Appunti e ricordi”; il grido disperato al cospetto della natura bella e indifferente si legge in una lettera dello stesso anno; il motivo del canto notturno associato al pensiero della decadenza dei popoli antichi e di Roma è nello “Zibaldone”, e successivamente ripreso nel “Cantico del gallo silvestre” del 1824. Per tutto ciò, la critica ha spesso parlato di composizione non del tutto riuscita, poco unitaria e nella quale non sempre la poesia riesce a dominare la materia autobiografica.
A noi pare invece che “La sera del dì di festa” rappresenti uno dei vertici assoluti di quella poesia del vuoto dell’anima e dell’angoscia del cuore che tanta parte ha nella produzione di Leopardi. Due motivi lirici, in particolare, si innalzano con la purezza e la melodia dei canti più grandi. Il primo è il vagheggiamento di una notte lunare, dolce e chiara, resa più suggestiva e malinconica dal ricordo di una donna: un fantasma d’amore, forse il ricordo di un sogno. Il secondo è quello del canto che, spegnendosi a poco a poco nel silenzio della notte, conduce l’animo del poeta prima alla meditazione sulla caducità delle cose umane («fieramente mi si stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia»), e poi al ricordo suo di fanciullo, quando la notte festiva, sveglio nel letto, avvertiva «un canto per li sentieri lontanando morire a poco a poco» che già similmente gli feriva il cuore.
Senso di solitudine, profonda infelicità, sgomento di fronte al tempo-chrónos, che tutto cancella. E poi, ancora, una delicata sovrasensibilità alle suggestioni emotive della musica (possiamo immaginare quel canto come una melodia in tonalità minore, colma di malinconia e di rimpianto), l’attesa impaziente del giorno di festa, l’amarezza della sera che segue e che svela, di quel giorno tanto sognato, tutto il carico di illusione. E infine una tristezza pervadente e profonda, spesso inspiegabile, compagna di vita sin dall’adolescenza. Per tutti questi motivi l’idillio, oltre ad essere un capolavoro assoluto, è un ritratto clinicamente perfetto della depressione, male subdolo e crudele che può insorgere anche nei primissimi anni di vita. Torneremo presto su questo tema, sempre in compagnia di Leopardi, commentando altre due liriche immortali: “Il sabato del villaggio” e “Il passero solitario”.
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. O donna mia,
già tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:
tu dormi, che t’accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna; e già non sai né pensi
quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
appare in vista, a salutar m’affaccio,
e l’antica natura onnipossente,
che mi fece all’affanno. A te la speme
nego, mi disse, anche la speme, e d’altro
non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dí fu solenne: or da’ trastulli
prendi riposo: e forse ti rimembra
in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
piacquero a te: non io, non già ch’io speri,
al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
quanto a viver mi resti, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. O giorni orrendi
in così verde etate! Ahi, per la via
odo non lunge il solitario canto
dell’artigian, che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
e fieramente mi si stringe il core,
a pensar come tutto al mondo passa,
e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
il dí festivo, ed al festivo il giorno
volgar succede, e se ne porta il tempo
ogni umano accidente. Or dov’è il suono
di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
de’ nostri avi famosi, e il grande impero
di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
che n’andò per la terra e l’oceàno?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
bramosamente il dì festivo, or poscia
ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume; ed alla tarda notte
un canto che s’udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
già similmente mi stringeva il core.

Biografia

Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno 1798 da famiglia aristocratica. Il padre è un uomo colto, ma incapace di comprendere la grandezza del figlio. La madre è rigida, poco affettuosa. La fanciullezza trascorre però serena: nel canto “Le ricordanze”, il poeta ormai adulto ricorderà che nelle vaste sale del palazzo paterno rimbombavano «i sollazzi e le festose mie voci».
Negli anni dell’adolescenza Giacomo studia il latino, il greco e l’ebraico, avviando quella vita di studio intenso che più tardi chiamerà “matto e disperatissimo”. Inizia a comporre versi, traduce autori classici (Virgilio, Orazio, Mosco, Frontone), scrive lavori eruditi, fra cui una “Storia dell’astronomia”. Ma la salute inizia a risentirne: mostra i primi sintomi di depressione e i primi problemi alla colonna vertebrale. Il fratello Carlo scriverà di averlo visto più volte, svegliandosi nel pieno della notte, «in ginocchio avanti il tavolino per potere scrivere fino all’ultimo momento col lume che si spegneva».
Fra il 1816 e il 1817 vive la cosiddetta “conversione letteraria”, ossia il passaggio dall’erudizione alla poesia (“lettere belle”), e inizia a maturare quell’amore per la gloria artistica che, anche nei momenti più tristi della sua vita, gli sarà di qualche conforto. Nel 1817 si innamora della cugina Geltrude Cassi, di passaggio a Recanati: per lei scrive un appassionato “Diario d’amore” e l’elegia “Il primo amore”. L’anno successivo muore Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi: dieci anni dopo il poeta la canterà, in uno dei suoi canti più intensi, con il nome di Silvia.
Nel 1819 lo stato sempre più precario della salute, la freddezza dell’ambiente familiare, l’intolleranza per il “borgo selvaggio” di Recanati lo spingono ad abbandonare la fede religiosa e ad abbracciare una concezione materialistica della vita: è la “conversione filosofica”, che fa di lui un precursore dell’esistenzialismo. A luglio tenta invano di fuggire da casa, dopo aver scritto al padre una lettera traboccante di amarezza e di ambizione: «Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi». Forse a settembre, compone “L’infinito”, il primo degli idilli, cui seguiranno – negli anni immediatamente successivi – “La sera del dí di festa”, “Alla luna” e “La vita solitaria”.
Nel 1822 si trasferisce a Roma, ma non ne prova alcun piacere: la vita letteraria locale lo delude profondamente. Nel 1823 torna a Recanati, e l’anno successivo scrive le “Operette morali”. Fra il 1825 e il 1828 visita Milano, Bologna (ove si innamora della contessa Teresa Carniani Malvezzi), Firenze, dove conosce Alessandro Manzoni, e Pisa. Qui, sollevato dalla dolcezza del clima, compone «versi veramente all’antica e con quel cuore d’una volta»: nascono “Il risorgimento” e “A Silvia”.
Tornato per l’ultima volta a Recanati, termina di comporre quelli che verranno ricordati come “canti pisano-recanatesi”: “Le ricordanze”, “Il passero solitario”, “La quiete dopo la tempesta”, “Il sabato del villaggio” e “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Nel 1830 parte per Firenze, ove conosce e ama appassionatamente la nobildonna Fanny Targioni-Tozzetti, e si lega con fraterna amicizia ad Antonio Ranieri, esule politico napoletano. A Firenze compone una serie di canti ispirati all’amata, fra cui “Il pensiero dominante” e “Amore e morte”. Nel 1833 si sposta a Napoli con l’amico Ranieri, e prende dimora in una villa alla falde del Vesuvio: qui comporrà “La ginestra” e “Il tramonto della luna”.
Gli ultimi anni di vita sono segnati da sofferenze fisiche sempre più crudeli, in particolare a causa dell’asma. Muore il 14 giugno 1837. Le sue ceneri riposano presso la tomba di Virgilio nel Parco Vergiliano di Piedigrotta. E’ ricordato e amato come il maggior poeta dell’Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura di tutti i tempi.
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