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Leopardi: alle radici dell’amore per la vita

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Leopardi: alle radici dell’amore per la vita
26/05/2021

Tratto da:
Giacomo Leopardi, Operette morali, a cura di Laura Melosi, BUR Rizzoli, 2020

Guida alla lettura

Questa lunga riflessione contro il suicido e a favore della vita è contenuta nel “Dialogo di Plotino e Porfirio”, una delle prose più profonde e perturbanti delle “Operette morali” di Giacomo Leopardi. I due protagonisti sono filosofi neoplatonici realmente esistiti, ma qui sono semplici maschere a cui l’autore affida le tesi che agitano il suo cuore: Porfirio sostiene senza incertezza, e sul filo di un serratissimo ragionamento, le ragioni del togliersi la vita di fronte a un’esistenza in cui dominano il dolore e la noia; Plotino ribatte con argomentazioni in apparenza deboli, e sembra soccombere di fronte alla razionalità delle conclusioni del discepolo e amico. Ma, come sottolinea Laura Melosi nel suo commento, «l’ultima parola spetta a Plotino, e nel suo sostenere contro ogni logica la vita si coglie il punto di resistenza estremo di Leopardi, il suo “titanismo”: in nome del “senso dell’animo”, di quella forza inestinguibile che ci fa mente e cuore indipendenti dalla realtà e sensibili a speranze e illusioni sempre risorgenti, bisogna lottare per non soccombere all’evidenza della disperazione, traendo sostegno dagli affetti».
Tre gli snodi fondamentali dell’ultima parte del discorso di Plotino: il ruolo del senso dell’animo nel riconciliarci ogni volta con il «gusto alla vita», a volta per cause minime, quasi impercettibili; l’inumanità, la barbarie e l’egoismo del suicida, che si getta alle spalle gli affetti incurante del dolore che infligge agli amici e ai familiari, del “mai più” che sancisce il suo gesto estremo e irrevocabile; l’esortazione a confortarsi reciprocamente per sostenere la «fatica della vita», che Plotino non nega, ma pone alla base di uno scatto sempre rinnovato della speranza e della solidarietà.
Dopo le parole di Plotino il dialogo si chiude, Porfirio non replica più. La pagina rimane aperta alla nostra interpretazione: da quale parte sta Leopardi? Il silenzio del discepolo certifica l’adesione dell’autore alle tesi del maestro? La critica ci ammonisce a non trarre conclusioni affrettate: la lettura più probabile dell’operetta è che in entrambi i protagonisti ci sia qualcosa di chi l’ha scritta. E se anche la biografia del poeta ci conforta – Giacomo, in ultima analisi, non si uccise – è verosimile che le due pulsioni (il rifiuto della vita, il senso dell’animo che alla vita ci lega) siano convissute in lui sino alla fine.
A leggere le parole profondamente commoventi del dialogo, vengono in mente tanti passi del “Mestiere di vivere”, il diario che Cesare Pavese tenne a lungo prima togliersi la vita in un albergo di Torino. Ma affiorano alla coscienza anche i molti casi anonimi del nostro tempo, soprattutto fra i giovani che non riescono a trovare un significato nell’essere in questo mondo, una “cagione menomissima” per riassaporare il gusto della vita. Esercitiamoci dunque a coltivare quel “senso dell’animo” in ogni istante della nostra esistenza, a insegnare ai nostri figli a riconoscerlo e a dargli ascolto, a non chiudere la porta alle speranze nuove che ogni giorno, nonostante tutto, ci sollecitano a guardare avanti e a riprendere il cammino.
Plotino
(…) Credi a me, che non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nullità delle cose, della vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non odio del mondo e di se medesimo; che possa durare assai: benchè queste disposizioni dell’animo sieno ragionevolissime, e le loro contrarie irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo; mutata leggermente la disposizion del corpo; a poco a poco; e spesse volte in un subito, per cagioni menomissime e appena possibili a notare; rifassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente all’intelletto; ma sì, per modo di dire, al senso dell’animo. E ciò basta all’effetto di fare che la persona, quantunque ben conoscente e persuasa della verità, nondimeno a mal grado della ragione, e perseveri nella vita, e proceda in essa come fanno gli altri: perchè quel tal senso (si può dire), e non l’intelletto, è quello che ci governa.
Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragione l’accomodar l’animo alla vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee piacer più, nè vuolsi elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. E perchè anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa separazione; nè terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l’atrocità del caso? Io so bene che non dee l’animo del sapiente essere troppo molle; nè lasciarsi vincere dalla pietà e dal cordoglio in guisa, che egli ne sia perturbato, che cada a terra, che ceda e che venga meno come vile, che si trascorra a lagrime smoderate, ad atti non degni della stabilità di colui che ha pieno e chiaro conoscimento della condizione umana. Ma questa fortezza d’animo si vuole usare in quegli accidenti tristi che vengono dalla fortuna, e che non si possono evitare; non abusarla in privarci spontaneamente, per sempre, della vista, del colloquio, della consuetudine dei nostri cari. Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni; o non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici; è di non curante d’altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura nè pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo.
In ultimo, Porfirio mio, le molestie e i mali della vita, benchè molti e continui, pur quando, come in te oggi si verifica, non hanno luogo infortuni e calamità straordinarie, o dolori acerbi del corpo; non sono malagevoli da tollerare; massime ad uomo saggio e forte, come tu sei. E la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a se, non dovrebbe esser molto sollecito nè di ritenerla nè di lasciarla. Perciò, senza voler ponderare la cosa troppo curiosamente; per ogni lieve causa che se gli offerisca di appigliarsi piuttosto a quella prima parte che a questa, non dovria ricusare di farlo. E pregatone da un amico, perchè non avrebbe a compiacergliene?
Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l’amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l’anima; a me, che non ho persona più cara, nè compagnia più dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che così, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quest’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora.

Biografia

Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno 1798 da famiglia aristocratica. Il padre è un uomo colto, ma incapace di comprendere la grandezza del figlio. La madre è rigida, poco affettuosa. La fanciullezza trascorre però serena: nel canto “Le ricordanze”, il poeta ormai adulto ricorderà che nelle vaste sale del palazzo paterno rimbombavano «i sollazzi e le festose mie voci».
Negli anni dell’adolescenza Giacomo studia il latino, il greco e l’ebraico, avviando quella vita di studio intenso che più tardi chiamerà “matto e disperatissimo”. Inizia a comporre versi, traduce autori classici (Virgilio, Orazio, Mosco, Frontone), scrive lavori eruditi, fra cui una “Storia dell’astronomia”. Ma la salute inizia a risentirne: mostra i primi sintomi di depressione e i primi problemi alla colonna vertebrale. Il fratello Carlo scriverà di averlo visto più volte, svegliandosi nel pieno della notte, «in ginocchio avanti il tavolino per potere scrivere fino all’ultimo momento col lume che si spegneva».
Fra il 1816 e il 1817 vive la cosiddetta “conversione letteraria”, ossia il passaggio dall’erudizione alla poesia (“lettere belle”), e inizia a maturare quell’amore per la gloria artistica che, anche nei momenti più tristi della sua vita, gli sarà di qualche conforto. Nel 1817 si innamora della cugina Geltrude Cassi, di passaggio a Recanati: per lei scrive un appassionato “Diario d’amore” e l’elegia “Il primo amore”. L’anno successivo muore Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi: dieci anni dopo il poeta la canterà, in uno dei suoi canti più intensi, con il nome di Silvia.
Nel 1819 lo stato sempre più precario della salute, la freddezza dell’ambiente familiare, l’intolleranza per il “borgo selvaggio” di Recanati lo spingono ad abbandonare la fede religiosa e ad abbracciare una concezione materialistica della vita: è la “conversione filosofica”, che fa di lui un precursore dell’esistenzialismo. A luglio tenta invano di fuggire da casa, dopo aver scritto al padre una lettera traboccante di amarezza e di ambizione: «Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi». Forse a settembre, compone “L’infinito”, il primo degli idilli, cui seguiranno – negli anni immediatamente successivi – “La sera del dí di festa”, “Alla luna” e “La vita solitaria”.
Nel 1822 si trasferisce a Roma, ma non ne prova alcun piacere: la vita letteraria locale lo delude profondamente. Nel 1823 torna a Recanati, e l’anno successivo scrive le “Operette morali”. Fra il 1825 e il 1828 visita Milano, Bologna (ove si innamora della contessa Teresa Carniani Malvezzi), Firenze, dove conosce Alessandro Manzoni, e Pisa. Qui, sollevato dalla dolcezza del clima, compone «versi veramente all’antica e con quel cuore d’una volta»: nascono “Il risorgimento” e “A Silvia”.
Tornato per l’ultima volta a Recanati, termina di comporre quelli che verranno ricordati come “canti-pisano-recanatesi”: “Le ricordanze”, “Il passero solitario”, “La quiete dopo la tempesta”, “Il sabato del villaggio” e “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Nel 1830 parte per Firenze, ove conosce e ama appassionatamente la nobildonna Fanny Targioni-Tozzetti, e si lega con fraterna amicizia ad Antonio Ranieri, esule politico napoletano. A Firenze compone una serie di canti ispirati all’amata, fra cui “Il pensiero dominante” e “Amore e morte”. Nel 1833 si sposta a Napoli con l’amico Ranieri, e prende dimora in una villa alla falde del Vesuvio: qui comporrà “La ginestra” e “Il tramonto della luna”.
Gli ultimi anni di vita sono segnati da sofferenze fisiche sempre più crudeli, in particolare a causa dell’asma. Muore il 14 giugno 1837. Le sue ceneri riposano presso la tomba di Virgilio nel Parco Vergiliano di Piedigrotta. E’ ricordato e amato come il maggior poeta dell’Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura di tutti i tempi.
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