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Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

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22/04/2009

Tratto da:
Cesare Pavese, Poesie del disamore. In: Opere, Giulio Einaudi Editore 1968

Guida alla lettura

Scritta il 22 marzo 1950, questa tesissima lirica fa parte dell’omonima raccolta che Cesare Pavese dedica all’attrice americana Constance Dowling e nelle quali la donna perduta è tratteggiata con toni di crescente e drammatica potenza: “Sei la luce e il mattino”; “Sei radice feroce, sei la terra che aspetta”; “Sei la vita e la morte”. Metafore che esprimono con intensa plasticità la disperazione provata per la fine di una relazione breve e illusoria, e dalla quale lo scrittore non riuscirà più a riprendersi: morirà suicida pochi mesi dopo, arrendendosi a quella tentazione infera, a quel “vizio assurdo” che lo aveva accompagnato per quasi tutta la vita.
I versi spezzati e ossessivi suggeriscono con rara efficacia un ambiguo gioco di prospettive: il poeta sembra parlare a se stesso, ma poi scopriamo che quegli occhi che la morte rapirà sono anche quelli della donna amata e rimpianta, colta in quel rapido chinarsi sullo specchio; la speranza, “vita e nulla”, è il sentimento evanescente che ci illude e ci inganna ma, anche e ancora, la donna che lo ha illuso e ingannato; la morte è il vizio che ci accompagna, sorda e insonne, nella lenta scansione dei nostri giorni, ma sarà anche la liberazione dal vizio, quando “scenderemo nel gorgo muti”.
Poesia dell’amore ferito e della solitudine, la cui lettura ci invita con forza a riflettere sul dramma di chi, nell’abbandono, non riesce più a trovare una ragione per vivere.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Biografia

Cesare Pavese nasce nel 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo. Il padre, cancelliere del tribunale di Torino, muore nel 1914: questa perdita, e il rigido carattere della madre, incideranno profondamente sull’indole del ragazzo, che crescerà scontroso e introverso, amante dei libri e della natura.
Allievo di Augusto Monti al liceo “D’Azeglio”, il giovane Pavese legge le opere di Gramsci e Gobetti, e frequenta Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Giulio Einaudi, Massimo Mila: ma si trova a suo agio anche nelle trattorie, con la gente comune che un giorno sarà la vera protagonista dei suoi romanzi.
Nel 1930 si laurea con la tesi “Sull’interpretazione della poesia di Walt Whitman”. Inizia a lavorare per la rivista “La cultura” ed esordisce come traduttore: nel corso degli anni affronterà, tra gli altri, Herman Melville, James Joyce, John Steinbeck, Daniel Defoe, Charles Dickens e William Faulkner. Nel 1932, per poter insegnare nelle scuole pubbliche si arrende alle insistenze della sorella e si iscrive al Partito Nazionale Fascista: una scelta che, in seguito, le rimprovererà aspramente.
Nel 1933 viene fondata la casa editrice Einaudi, al cui progetto Pavese partecipa con entusiasmo. Questi sono anche gli anni della tormentata relazione con Tina Pizzardo, la “donna dalla voce rauca”, un’intellettuale impegnata nella lotta antifascista. Con molta imprudenza e per amore suo, lo scrittore accetta di far giungere al proprio domicilio lettere a lei indirizzate e gravemente compromettenti sul piano politico: scoperto, rifiuta di fare il nome della donna e il 15 maggio 1935 viene condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro, poi ridotti a pochi mesi. Al ritorno, scopre che la donna si è sposata: la delusione lo sprofonda in una grave crisi depressiva, che lo terrà a lungo avvinto alla tentazione del suicidio.
Nel 1936 pubblica la prima raccolta di poesie, “Lavorare stanca” e, nel 1941, il primo romanzo, “Paesi tuoi”, cui seguono “La spiaggia” (1942) e “Feria d’agosto (1946). Chiamato alle armi, viene congedato perché malato di asma. Negli anni del conflitto, avverte una ripugnanza quasi fisica per la violenza: si rifugia nel Monferrato, dove vivrà per due anni “recluso tra le colline”, con l’umiliante sensazione di non saper partecipare alla vita attiva dei suoi compagni di ideali.
Al termine della guerra si iscrive al Partito Comunista, ma anche questa scelta si rivelerà priva di conseguenze pratiche. Il suo impegno è e resta letterario: scrive racconti, romanzi, articoli e saggi, contribuisce alla riorganizzazione dell’Einaudi, si interessa di mitologia, elaborando una teoria sul mito che esprimerà nei “Dialoghi con Leucò” (1947). In quello stesso anno pubblica “Il compagno” (1947); seguiranno, fra gli altri, “La bella estate” e “Prima che il gallo canti” (entrambi del 1949) e “La luna e i falò” (1950). Saranno invece pubblicate postume le “Lettere”, le straordinarie pagine del diario (“Il mestiere di vivere”) e la raccolta di liriche “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, in cui la donna è cantata attraverso i simboli da sempre più eloquenti della sua poetica: la terra, la vigna, il vento, la vita, la morte.
Nel gennaio 1950 conosce a Roma Constance Dowling, una giovane attrice americana di cui si innamora, ma che ben presto lo lascia tornando negli Stati Uniti. A questo nuovo abbandono non riesce a reagire. Scrive sul diario: «Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più». E il 27 agosto si toglie la vita in un albergo di Torino, assumendo una forte dose di sonniferi. Sulla prima pagina dei “Dialoghi con Leucò”, posato sul comodino, annota: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
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