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Quando il dolore conduce al vero inizio

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15/05/2013

Tratto da:
Stefano Baldi, Sia fatta la tua volontà, Newton Compton, 2013. Dal capitolo 26: I colpi in canna

Selezione e recensione di Pino Pignatta

Guida alla lettura

Non è un libro religioso, anche se il titolo potrebbe indurre a crederlo: “Sia fatta la tua volontà” è piuttosto una strizzatina d’occhi beffarda al dolore e alla morte. E non è un libro che parla di Dio, anche se il protagonista alla fine riscopre anche una fede semplice, grazie a un prete, don Leonardo, che lo aiuta a capire «quanta pienezza ci possa essere a prescindere dal numero di anni su cui è spalmata questa vita...». No, questa è soprattutto una storia in grado di dare i brividi a chiunque, basta scorrere i commenti sul web: «E’ capace di farti entrare nei meandri più nascosti dell'esistenza e smascherare la paura delle paure: la sofferenza»; oppure: «Mi fa ridere e poi piangere...»; e ancora: «Ti fa capire quanto dall'oggi al domani la tua vita può cambiare, radicalmente, per sempre».
Più del titolo, è soprattutto la citazione in copertina che ha una sua forza per chi si batte ogni giorno contro la malattia o per chi s’avvicina alla lettura tra gli scaffali di una libreria: “Un romanzo che fa male e poi fa bene”. Racconta la vicenda triste, ma alla fine leggera e luminosa, di un ragazzo di 26 anni, Luca Lazzarini, detto Lazzaro, la cui tranquilla esistenza viene sconvolta da una diagnosi di tumore che non lascia scampo. Dietro la finzione, insieme ironica e pungente – senza sconti nel tratteggiare, a volte con linguaggio ruvido e iperrealistico, gli ultimi mesi di “sopravvivenza”, i giorni che passano, gli attimi sanguigni di vita e di passione – c’è la storia stessa dell’autore, Stefano Baldi, che oggi non è più tra noi perché è morto per un cancro ai polmoni, ed è riuscito a finire il libro proprio pochi giorni prima di spirare. Per cui “Sia fatta la sua volontà” è la prima e anche unica sua fatica letteraria, già alla sesta ristampa grazie al “passaparola”, cioè alla forza intrinseca che nasce dal dolore e attraverso questo, come un passaggio obbligato, diventa inno alla speranza e lezione per chi, nella malattia o nel terrore della malattia, perde di vista la bellezza del vivere comunque e nonostante tutto.
Il segreto di questo romanzo sta, secondo noi, nei due opposti: nell’apertura del libro, dove la vita del protagonista Lazzaro è definita “inutile”; e nel ribaltamento della prospettiva descritto alla fine, che in realtà è il vero “inizio”, dove il personaggio, cioè Lazzaro, cioè Stefano Baldi, agguanta il significato di ogni cosa e, soprattutto, la scoperta che pure la sofferenza e la consapevolezza della morte riescono, se vissuti con coraggio e impetuosità, a riempire i giorni e le ore che restano e a dare un senso agli accadimenti. Perché il dolore può insegnare. Il dolore può essere maestro di vita.
I colpi che la morte aveva in serbo non tardarono molto ad arrivare. Un bell’arsenale, niente da dire, tenuto nascosto fino al momento opportuno. Fino al momento in cui la morte del corpo, l’ultima delle morti che lo attendevano, non decise di togliersi i guantoni e andare fino in fondo.
Non fu un fuoco a volontà, a tappeto, uno di quelli da spazzare via l’avversario in pochi secondi: sarebbe stato troppo comodo per tutti, e la mano fredda non ne avrebbe forse tratto alcuna soddisfazione. Si trattò piuttosto di una tattica sapiente, con attacchi inaspettati, che lasciavano sul campo sempre nuove perdite, sempre nuove vittime. E costringevano al ripiegamento su posizioni più arretrate, a difesa di lembi di terreno ogni volta più sottili.
L’offensiva cominciò una domenica mattina, in giugno. Lazzaro era in bicicletta, lento ma paziente. Stava andando a messa, tranquillo come chi faceva una cosa normale e possibile. La pedalata non gli aveva mai dato affanno, per brevi tragitti, e lui si sentiva orgoglioso di poter ancora vincere piccole sfide come quelle, di superare i limiti che la malattia gli voleva imporre. Non si trattava di soddisfazioni: erano vittorie, volute, conquistate.
Quella mattina, però, non andò come previsto. Sin dai primi metri avvertì come una carenza d’aria, una insufficienza. Volle non farci caso. Faceva caldo, forse era quello. Ma non solo quello. Non bastava respirare, non bastava nemmeno respirare forte. Era un po’ come sulle scale. La vista sembrava sfocarsi, come se il campo visivo si incenerisse. Si fermò sul ciglio della strada, le gambe a cavalcioni di una bicicletta ignara, ormai inutile, ormai ricordo anche lei. Riprese fiato, a occhi chiusi, gomiti sul manubrio. E capì, sospirando, che un altro articolo stava per essere aggiunto alla lista dei “mai più”. Fu brutto dover rientrare a casa, spingendo la bicicletta come un pensionato, perché aveva tutto il sapore della ritirata. Fu umiliante salire sull’auto, e affidare alla meccanica i compiti che il suo corpo più non reggeva. Quando abbassò il cavalletto della bici, lo fece come chiedendo scusa, perché fu sicuro che non lo avrebbe più risollevato. Tutto aveva l’aspro sapore dell’umiliazione, e tutto, purtroppo, lasciava presagire che si trattasse solo della prima tessera di un domino.
Dalla settimana successiva anche camminare divenne un problema. Camminare per casa no, non ancora. I suoi movimenti erano perlopiù limitati a segmenti tavolo divano, divano cucina, cucina bagno, l’importante era solo evitare le scale, il più possibile. Il problema si manifestò in occasione di una visita di controllo, dal Dott. Mandelli. Lazzaro parcheggiò al solito posto, a circa un chilometro dall’ospedale, dove le condizioni del traffico consentivano a un macchinone come la Uno di infilarsi in un pertugio sulla strada senza dover girovagare per ore invocando grazia e misericordia. Che erano beni da conservarsi per altri impieghi più lungimiranti e momenti più critici.
Il suo passo partì deciso, pieno di volontà e di desiderio, ma l’ardore da bersagliere poco poté, supportato dal polmone da carcinoma. Le gambe c’erano ancora, le sentiva toniche, ma erano come un accessorio inutile, senza la spinta pneumatica. Una sosta, poi un’altra. Panchine e muriccioli, mai presi in considerazione, diventavano improvvisamente necessari alleati, con il loro conforto di pochi attimi, di poche boccate d’aria. E su quelle panchine, altre speranze se ne rimanevano sedute, ormai stanche, ormai incapaci di risollevarsi. Come respiri presi in prestito, da dimenticare.
La lucidità dell’occhio di Lazzaro, all’arrivo in reparto, non doveva essere molto diversa da quella di un turista in infradito all’arrivo sul K2. Anche il suo respiro, regolare con un pezzo di musica tecno, implorava una pietà propria di altri mondi. Le infermiere gentili gli attaccarono l’ossigeno, così, come un aperitivo di benvenuto. Due litri al minuto, tanto per gradire. Per darsi un po’ di arie.
«Da quanto tempo ti trovi in questo stato?», gli chiese il dottor Mandelli, lasciandosi scappare un “tu” da amicizia e un tono generale di moderata preoccupazione.
«Pochi giorni... è stata una cosa improvvisa. Una specie di scalino in un grafico che comunque scendeva lentamente». Abbozzò con un dito in aria una specie di curva, in omaggio al tempo in cui i grafici avevano significato per lui.
Eseguì una serie di test spirometrici, tanto per avere una conferma dell’evidenza. Un disastro. Il saggio dott. Mandelli decise che il supporto dell’ossigeno non dovesse più essere una cortesia, ma una terapia e una necessità. Quotidiane.
Una ditta convenzionata con l’azienda sanitaria si presentò il giorno successivo a casa di Lazzaro, con due capienti bombole piene di ossigeno refrigerato, una per la zona giorno e una per la zona notte, in maniera da soddisfare ogni sua esigenza respiratoria, fisica o onirica che fosse. In dotazione gli fu consegnato anche un simpatico dispositivo portatile, ricaricabile, che consentiva lo sfrenato lusso di uscire di casa e di respirare allo stesso tempo.
A cercare il pelo nell’uovo, la vita di Lazzaro cessò di essere wireless, perché è da quegli eccentrici tubini infilati nel naso, così ricchi di aria e speranza di vita, era saggio non staccarsi. Sì, periodi senza le bombole potevano essere ipotizzati, in teoria, ma non dovevano contemplare la minima sovrapposizione di fatiche. Si poteva stare sul divano senza ossigeno, in posizione comoda, ma senza parlare, senza alzarsi, senza farsi venire la tosse, senza digerire un pasto. E scomodando poco i movimenti neurali. Tutto sommato, il prezzo dei tubicini valeva la pena pagarlo, anche se si trattava di un ennesimo ripiegamento sulla difensiva, dell’ennesimo territorio lasciato al nemico. Le catene di Lazzaro non erano più solo virtuali…

Biografia

Stefano Baldi muore di tumore il 10 gennaio 2009, a 34 anni. Finisce di scrivere “Sia fatta la tua volontà” pochi giorni prima della scomparsa. Questo è il suo unico romanzo. Nel settembre 2002 si sposa con Katia e si trasferisce a Minerbio, in provincia di Bologna, iniziando nella parrocchia un servizio di catechesi e di animazione liturgica. Nel giugno 2005 nasce il figlio Nicolò. Nel luglio 2007, dopo mesi di analisi, arriva la notizia del cancro al polmone, cui seguono l’intervento, la riabilitazione e la chemioterapia. Ma nel febbraio 2008 Stefano è informato dell’agghiacciante diagnosi di “recidiva bilaterale”. Compie alcuni viaggi della speranza con l’obiettivo di entrare in lista per un doppio trapianto. Precisa la sua biografia su Internet: «Gli organi non sono mai arrivati, le metastasi al costato sì. E così anche il dolore, l’affanno, le bombole, l’immobilità e l’addio. Questi sono i mesi di gestazione di “Sia fatta la tua volontà” che esce nelle librerie nel giugno 2009, quasi il giorno del quarto compleanno di Nicolò, un regalo per lui e per tutti».
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