I colpi che la morte aveva in serbo non tardarono molto ad arrivare. Un bell’arsenale, niente da dire, tenuto nascosto fino al momento opportuno. Fino al momento in cui la morte del corpo, l’ultima delle morti che lo attendevano, non decise di togliersi i guantoni e andare fino in fondo.
Non fu un fuoco a volontà, a tappeto, uno di quelli da spazzare via l’avversario in pochi secondi: sarebbe stato troppo comodo per tutti, e la mano fredda non ne avrebbe forse tratto alcuna soddisfazione. Si trattò piuttosto di una tattica sapiente, con attacchi inaspettati, che lasciavano sul campo sempre nuove perdite, sempre nuove vittime. E costringevano al ripiegamento su posizioni più arretrate, a difesa di lembi di terreno ogni volta più sottili.
L’offensiva cominciò una domenica mattina, in giugno. Lazzaro era in bicicletta, lento ma paziente. Stava andando a messa, tranquillo come chi faceva una cosa normale e possibile. La pedalata non gli aveva mai dato affanno, per brevi tragitti, e lui si sentiva orgoglioso di poter ancora vincere piccole sfide come quelle, di superare i limiti che la malattia gli voleva imporre. Non si trattava di soddisfazioni: erano vittorie, volute, conquistate.
Quella mattina, però, non andò come previsto. Sin dai primi metri avvertì come una carenza d’aria, una insufficienza. Volle non farci caso. Faceva caldo, forse era quello. Ma non solo quello. Non bastava respirare, non bastava nemmeno respirare forte. Era un po’ come sulle scale. La vista sembrava sfocarsi, come se il campo visivo si incenerisse. Si fermò sul ciglio della strada, le gambe a cavalcioni di una bicicletta ignara, ormai inutile, ormai ricordo anche lei. Riprese fiato, a occhi chiusi, gomiti sul manubrio. E capì, sospirando, che un altro articolo stava per essere aggiunto alla lista dei “mai più”. Fu brutto dover rientrare a casa, spingendo la bicicletta come un pensionato, perché aveva tutto il sapore della ritirata. Fu umiliante salire sull’auto, e affidare alla meccanica i compiti che il suo corpo più non reggeva. Quando abbassò il cavalletto della bici, lo fece come chiedendo scusa, perché fu sicuro che non lo avrebbe più risollevato. Tutto aveva l’aspro sapore dell’umiliazione, e tutto, purtroppo, lasciava presagire che si trattasse solo della prima tessera di un domino.
Dalla settimana successiva anche camminare divenne un problema. Camminare per casa no, non ancora. I suoi movimenti erano perlopiù limitati a segmenti tavolo divano, divano cucina, cucina bagno, l’importante era solo evitare le scale, il più possibile. Il problema si manifestò in occasione di una visita di controllo, dal Dott. Mandelli. Lazzaro parcheggiò al solito posto, a circa un chilometro dall’ospedale, dove le condizioni del traffico consentivano a un macchinone come la Uno di infilarsi in un pertugio sulla strada senza dover girovagare per ore invocando grazia e misericordia. Che erano beni da conservarsi per altri impieghi più lungimiranti e momenti più critici.
Il suo passo partì deciso, pieno di volontà e di desiderio, ma l’ardore da bersagliere poco poté, supportato dal polmone da carcinoma. Le gambe c’erano ancora, le sentiva toniche, ma erano come un accessorio inutile, senza la spinta pneumatica. Una sosta, poi un’altra. Panchine e muriccioli, mai presi in considerazione, diventavano improvvisamente necessari alleati, con il loro conforto di pochi attimi, di poche boccate d’aria. E su quelle panchine, altre speranze se ne rimanevano sedute, ormai stanche, ormai incapaci di risollevarsi. Come respiri presi in prestito, da dimenticare.
La lucidità dell’occhio di Lazzaro, all’arrivo in reparto, non doveva essere molto diversa da quella di un turista in infradito all’arrivo sul K2. Anche il suo respiro, regolare con un pezzo di musica tecno, implorava una pietà propria di altri mondi. Le infermiere gentili gli attaccarono l’ossigeno, così, come un aperitivo di benvenuto. Due litri al minuto, tanto per gradire. Per darsi un po’ di arie.
«Da quanto tempo ti trovi in questo stato?», gli chiese il dottor Mandelli, lasciandosi scappare un “tu” da amicizia e un tono generale di moderata preoccupazione.
«Pochi giorni... è stata una cosa improvvisa. Una specie di scalino in un grafico che comunque scendeva lentamente». Abbozzò con un dito in aria una specie di curva, in omaggio al tempo in cui i grafici avevano significato per lui.
Eseguì una serie di test spirometrici, tanto per avere una conferma dell’evidenza. Un disastro. Il saggio dott. Mandelli decise che il supporto dell’ossigeno non dovesse più essere una cortesia, ma una terapia e una necessità. Quotidiane.
Una ditta convenzionata con l’azienda sanitaria si presentò il giorno successivo a casa di Lazzaro, con due capienti bombole piene di ossigeno refrigerato, una per la zona giorno e una per la zona notte, in maniera da soddisfare ogni sua esigenza respiratoria, fisica o onirica che fosse. In dotazione gli fu consegnato anche un simpatico dispositivo portatile, ricaricabile, che consentiva lo sfrenato lusso di uscire di casa e di respirare allo stesso tempo.
A cercare il pelo nell’uovo, la vita di Lazzaro cessò di essere wireless, perché è da quegli eccentrici tubini infilati nel naso, così ricchi di aria e speranza di vita, era saggio non staccarsi. Sì, periodi senza le bombole potevano essere ipotizzati, in teoria, ma non dovevano contemplare la minima sovrapposizione di fatiche. Si poteva stare sul divano senza ossigeno, in posizione comoda, ma senza parlare, senza alzarsi, senza farsi venire la tosse, senza digerire un pasto. E scomodando poco i movimenti neurali. Tutto sommato, il prezzo dei tubicini valeva la pena pagarlo, anche se si trattava di un ennesimo ripiegamento sulla difensiva, dell’ennesimo territorio lasciato al nemico. Le catene di Lazzaro non erano più solo virtuali…