e se fosse proprio la Calabria, con tutte le sue deprivazioni storico-culturali, le sue criticità strutturali e le sue endemiche contraddizioni, l’osservatorio più indicato per considerare in un’ottica non solo locale, ma anche nazionale e internazionale, gli attuali, gravissimi problemi dell’Università italiana? E se, raccogliendo le idee, rievocassimo senza nostalgia ma con la necessaria lucidità storica e politica e senso del limite e della prospettiva, la temperie riformatrice da cui circa mezzo secolo fa nacque l’Università della Calabria, con le sue Facoltà, i suoi Dipartimenti, i suoi Corsi di laurea, il suo Campus, la sua civile convivenza di docenti e assistenti provenienti dalle Università di varie parti dell’Italia e del mondo e di un gran numero di studenti calabresi poveri e meritevoli, concentrati ad Arcavàcata, gli uni e gli altri “punta di diamante” della riforma universitaria dell’intero Paese?
Ci dice qualcosa il fatto che nella classifica dell’Academic Ranking of World Universities (Arwu), stilata dall’Università Jiao Tong di Shanghai, la Matematica del Dipartimento di Matematica e Informatica dell’Università della Calabria risulti tra le prime del mondo? (Cfr. Nicola Leone, Direttore di questo Dipartimento, in Mirella Molinaro, “Numeri da eccellenza”, in “Corriere della Calabria”, 4 settembre 2014, pp. 27-29). E non è certo un caso che i suddetti risultati di eccellenza trovino conforto, da un lato, nella politica culturale del Dipartimento di Matematica e Informatica in fatto di formazione qualitativa e scelta dei nuovi quadri di ricerca (dottorati, cattedre, mobilità internazionale sia in ingresso sia in uscita); e, da un altro lato, nell’impegno quotidiano nella didattica: «Corsi di laurea in Matematica e Informatica, e numerosi Tfa, i tirocini formativi attivi per la formazione degli insegnanti delle scuole medie e superiori» (ibidem). Inoltre: «Un altro aspetto positivo del Dipartimento riguarda i dati di occupazione dei laureati. “Quasi tutti trovano lavoro in tempi brevi dopo la laurea – dice il professor Leone –, è confermato anche dalle statistiche nazionali di Almalaurea. E la maggior parte resta a lavorare il Calabria”». Perché tra gli specialisti, sui giornali italiani, nelle Università, nel Paese, non si dibatte un risultato di eccellenza di tal genere? Perché, nel sottoporre al vaglio della critica metodi d’indagine, parametri di valutazione, criteri comparativi, indicazioni di merito e prospettive politiche da perseguire, non ci si dispone all’autocritica là dove, in tutta quanta l’Università italiana, ciò sembra rendersi più che mai necessario ed urgente?
Sono queste le prime domande che mi sono affiorate alla mente nell’apprendere contemporaneamente da un giornale on line del Nord (Il Gazzettino.it) e da un quotidiano meridionale (Il Mattino) il seguente raggelante referto: «Nessuna italiana è tra le 150 Università migliori del mondo. E solo 21, contro le 146 statunitensi, nella classifica dei 500 migliori atenei del mondo, l’Academic Ranking of World Universities stilato annualmente dall’Università Jao Tong di Shanghai (Cina). Bologna è la migliore, ma ben dopo il 150° posto. Per facoltà, si salvano Matematica, a Milano (76°), e fisica, a Bologna (50°). Le ragioni di questa débâcle , con lodevoli eccezioni da valorizzare, sono molteplici». Così infatti scrive proprio Lei, professoressa Graziottin, studiosa internazionalmente nota in campo sessuologico femminile e oncologico, in un articolo dal titolo “Università italiana, dove sono i maestri?”, su “Il Mattino” di lunedì 18 agosto 2014. Dove senza peli sulla lingua, in due paragrafi ricchi di spunti critici e una suggestiva conclusione nella quale tra l’altro, sente opportunamente l’esigenza di evocare l’indimenticabile finale dell’Attimo fuggente di Peter Weir, propone un persuasivo elenco dei “perché” della “disfatta”.
Noi professori della diaspora calabrese, che operiamo in un qualche Ateneo italiano, come ci sentiamo chiamati in causa? Le dure parole della Collega che cosa ci fanno pensare di nuovo, in positivo e in negativo, a vantaggio delle realtà universitarie locali da cui proveniamo, che amiamo e per le quali vorremmo tutto il bene possibile? Come si traduce lo sfogo di Alessandra Graziottin e tutto quello che vi sta dietro in fatto di osservazioni empiriche, di esperienza accademica nazionale e internazionale qualificata, di comportamenti universitari personali?
Quanto a me (che oltretutto faccio parte di una Facoltà di Medicina e Psicologia), per provare a rispondere a siffatti interrogativi, mi limiterei a proporre alcune sottolineature e integrazioni, che se da un lato confermano la giustezza della diagnosi del “clinico”, dall’altro lato collaborano a conferire ulteriore validità pedagogica alla cura suggerita . Un “I care”, che sintetizzerei nell’elementarità del “circolo virtuoso” ricerca-didattica/didattica-ricerca, variamente riconducibile, oltre che al dettato della nostra Carta costituzionale e delle attuali indicazioni UE, alle virtualità comunicative e alle auspicabili incidenze critiche e autocritiche di una sorta di buon senso universitario comune. Un “uovo di Colombo” sui generis, paradossale, che quanto più si ritarda a fare stare in piedi schiacciandolo alla base, tanto più si elide sulla parte alta, perdendo la sua forma e svuotandosi dei suoi contenuti.
Perfettamente d’accordo quindi, tanto per la pars destruens quanto per la pars construens, con il ragionamento “per punti”, che Alessandra Graziottin è venuta inequivocabilmente a tradurre nell’indicazione di principio (torna in qualche modo in mente il vecchio Kant “morale” e del “conflitto delle facoltà”) del non servirsi mai dell’Università come “mezzo” per finalità individuali e sociali diverse dalla funzione istituzionale specifica (euristica e professionalizzante), ma del servire sempre l’Università sia per ciò che concerne il mandato della trasmissione del sapere, sia nella prospettiva di nuove produzioni di conoscenza (grandi o piccole che siano) nei diversi ambiti scientifico-didattici di base. Una mission accademica e politico-culturale una e bina, che dovrebbe riguardare tecnicamente e deontologicamente, senza eccezioni, tutte le istanze istituzionali coinvolte: e, anzitutto, la totalità dei docenti e ciascuno studente amministrativamente in regola, per vivere e prosperare nell’effettiva collegialità degli organi di governo nelle loro distinte e tuttavia organiche funzioni; e, dunque, nella comunità universitaria nel suo insieme e nei suoi rapporti con l’esterno.
Un dover essere niente affatto liquidabile come “utopico”, ma in qualche misura già realizzato e realizzabile – anche al di là del disinteresse dei Ministri e dell’interesse elettoralistico dei Rettori – nella concretezza dell’operare universitario quotidiano di non pochi professori, ricercatori, studenti (ma quanti? Dove? Come?). Un compito universitario comunque imprescindibile che, se assolto nella “normalità” dei suoi motivi, propositi, aspetti, obiettivi, esiti immediati e/o indiretti delle attività scientifiche e didattiche individuali e sociali coinvolte, si viene a tradurre in più vantaggiosi, interessanti e disinteressati “tassi di interesse” sul piano della crescita della cultura generale e della capacità critica.
Voglio dire, in altri termini, delle altissime potenzialità dell’utenza universitaria e dell’incontestabile numerosità dei nostri studenti studianti, effettivamente partecipi di insegnamenti-apprendimenti cooperativi, dell’eventuale trasparenza di procedure universitarie sperimentali, impartite/condivise lungo l’arco di diversi decenni, della scelta dei tirocini professionalizzanti e al tempo stesso coniugabili alla ricerca, della novità e della prospettiva di un’Università riformata “altra”, del controllo dei risultati e della durevole validità delle indagini felicemente realizzate nei dipartimenti e nei corsi di laurea, e normalmente ricche di inesauribili prospettive di ricerca e didattiche.
Di qui, come accennavo, la proposta da parte mia di concrete sottolineature e integrazioni a margine dell’intervento della professoressa Graziottin: un articolo di giornale, senza dubbio, ma “rara avis” nel panorama degli interventi fotocopia sui temi e i problemi dell’Università, veicolati solitamente dalla nostra stampa quotidiana. Dunque:
1) Necessità di un’attenzione non solo occasionale ma durevolmente “sotto esame” delle informazioni di tipo analitico-comparativo sulle Università italiane e straniere fornite nell’incipit dell’articolo, a proposito delle «ragioni di questa débâcle, con lodevoli eccezioni da valorizzare».
2) Ulteriore chiarificazione e approfondimento delle ragioni “molteplici”, che derivano anzitutto dalla «visione dell’Università come centro di potere – economico, relazionale, di ruolo e di status – e non come motore limpido e carismatico del sapere, del ricambio generazionale professionale e pensante di una nazione, del suo prestigio di fronte ai suoi stessi cittadini e al mondo».
3) Circostanziati supplementi d’indagine, a partire dalla rosa di motivi “originari” suggeriti da Alessandra Graziottin sul piano terminologico e storico; e che chiamano positivamente in causa la totalità, l’interezza e quindi l’internazionalità del sapere e, in negativo, una sorta di alfabeto (da completare) delle principali patologie dell’attuale, radicata «corruzione strutturata e viscerale della visione universitaria». Sante ripetizioni: a. assenza di meritocrazia; b. concorsi pilotati; c. nepotismo allargato; d. conseguente e sostanziale disinteresse alla ricerca; e. incuria per l’insegnamento; f. conoscenza a picco; g. motivazione alla didattica vicina allo zero; h. internazionalizzazione sostanzialmente disattesa, e a maggior ragione quando essa viene inopinatamente invocata come alibi e copertura di una documentabile inefficienza didattica e scientifica sul piano universitario locale e nazionale; i. disattenzione dei docenti verso le motivazioni, le ragioni e le scelte degli studenti rispetto alla materia universitaria specifica; l. valutazione sommativa e quasi sempre sommaria (superficiale, sbrigativa, arbitraria) della preparazione degli studenti; m. svalutazione delle pratiche collaborative, di laboratorio e seminariali ai fini della costruzione di un sapere e quindi di una valutazione procedurale dell’operare universitario congiunto di professori, ricercatori e studenti; n. sopravvalutazione dell’elemento utilitario degli accreditamenti degli esami, a danno della dimensione disinteressata della ricerca e quindi dell’intelligenza reale dei temi e dei problemi d’indagine come contenuto dell’insegnamento-apprendimento; o. “privatizzazione” degli esami con conseguente sottovalutazione della dimensione dialogica, collegiale, pubblica degli accreditamenti; p. arbitrarietà e opacità dei criteri adoperati nella valutazione degli studenti, come stile di pensiero caratterizzante la non-trasparenza dell’intero sistema delle scelte universitarie “di merito” non propriamente meritocratiche: e così negli esami, nelle sedute di laurea, come, altrimenti, nei concorsi a cattedra; q. non obbligatorietà della frequenza degli studenti, latitanza agli appuntamenti laboratoriali e scarsezza del tempo dei professori per il ricevimento-studenti, come facce della stessa medaglia negativa, anti-universitaria (anti-scientifica e anti-didattica); r. ignoranza delle precondizioni ambientali, linguistiche, familiari, culturali, scolastiche, sociali ecc. predeterminano le condizioni, l’andamento e l’efficacia degli insegnamenti e degli apprendimenti universitari nella loro specificità e nell’insieme; s. ignoranza dei contesti culturali cittadini, regionali, nazionali e internazionali in cui di colloca l’esperienza individuale e collettiva dell’apprendimento e dell’insegnamento universitario; t. ignoranza delle aspirazioni-possibilità lavorative reali verso cui si dirige l’attualità della preparazione universitaria disinteressata, direttamente e/o indirettamente finalizzata a un lavoro, di ciascuno studente; u. sfiducia verso il potenziale di intelligenza critica degli studenti; v. conseguente esaurimento del “credito”; z. sistematica ignoranza o cancellazione delle tracce oggettive dei risultati universitari in via di ipotesi positivi, replicabili, estensibili.
Conclusione “hic et nunc” provvisoria. E se partissimo invece, proprio in Calabria, ad osservare con mente libera da pregiudizi (o meschine convenienze corporative) proprio da siffatti disastrosi risultati? E se provassimo a dare un senso alla nostra vita vissuta nell’Università e per l’Università (nel mio caso, fin dal principio, proprio in Calabria), partendo per l’appunto dalla descrizione circostanziata di quanto di positivamente esemplare, in differenti ambiti universitari, riuscissimo a documentare, a rendere pubblicamente noto, a proporre all’intera comunità scientifica come degno di attenzione, di discussione, di critica, di autocritica e, se possibile, di salutare, pratica appropriazione formativa? Ce la sentiamo come calabresi non immemori, fuori da ogni retorica, della nostra storia e cultura mediterranea millenaria (Pitagora, Cassiodoro, Telesio, Campanella e quanti altri indubbi Maestri degni del nome ci riuscisse di riconoscere come nostri punti di riferimento), di dibattere a ragion veduta un discorso di tal genere?
Vive cordialità e auguri di buon lavoro,
Nicola Siciliani de Cumis