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La vite e la vendemmia, metafore della nostra vita

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30/09/2020

Tratto da:
Enzo Bianchi, Vendemmia metafora di vita, La Repubblica, 7 settembre 2020

Guida alla lettura

Questa bella riflessione di Enzo Bianchi, fondatore del monastero di Bose, ci presenta la cura della vite e la vendemmia come metafore della vita. Analizziamo gli snodi che motivano questo giudizio.
La raccolta dell’uva – soprattutto in passato, prima dell’industrializzazione dei processi produttivi – è una festa che coinvolge tutti: metafora della vita di relazione, di cui nessuno può fare a meno, nemmeno quando sceglie la solitudine per riflettere sul futuro, per realizzare un progetto, per superare un dolore.
La vite è capace di ancorarsi al terreno in profondità, dando frutti anche dopo molti decenni: metafora della necessità umana di avere radici, e di non tradire quelle radici, il proprio talento, il desiderio più profondo, pena la perdita della capacità di dare frutto nel tempo.
La vite richiede paziente attesa e duro lavoro: metafora del fatto che nella vita nulla viene regalato, nulla si guadagna senza sforzo e senza un’incessante esercizio della volontà.
La vite, in certe stagioni, richiede tagli che comportano la perdita di “lacrime”, piccole gocce di linfa che fuoriescono dai rami recisi e cadono a terra: metafora dei tagli che a volte la nostra vita richiede, anche se costano molto pianto. Non possiamo non pensare, in proposito, all’ingiusta vicenda di Bose, all’inumano allontanamento di fratel Enzo (e di alcuni suoi monaci), al taglio doloroso che, pure, egli sopporta in nome di una sapienza esistenziale vissuta in profondità.
Un ultimo, implicito inciso ci avverte che in Bianchi la metafora della vite è pienamente interiorizzata: quell’accenno all’autunno della vita, «l’età in cui da un giorno all’altro si può migrare da questa terra tanto amata», richiama la finitezza di tutti gli esseri viventi, anche i più longevi come le vigne, e chiarisce come l’orizzonte della morte faccia parte di un corretto approccio alla vita.
Ecco i giorni in cui nelle mie terre di origine, le Langhe e il Monferrato, inizia la vendemmia: una forza non domabile mi spinge a fare un pellegrinaggio verso di esse, nonostante le difficoltà di deambulazione dovute al mio autunno, l’età in cui da un giorno all’altro si può migrare da questa terra tanto amata.
Un tempo tornavo in quelle mie colline tra il Bormida, il Tanaro e il Po, per vendemmiare con gli amici e vivere una festa che coinvolgeva tutti, bambini e vecchi, donne e uomini, contadini e girovaghi. Ora le cose sono cambiate: la vendemmia è meccanizzata e nelle vigne ci sono immigrati, soprattutto macedoni, esperti nella scelta dei grappoli. Con fatica essi salgono e scendono le colline e i bricchi coperti da filari posti a una certa distanza l’uno dall’altro, quel tanto necessario per essere baciati dal sole.
Ora vado in pellegrinaggio per contemplare la vite, quella pianta senza la quale non ci si sente pienamente umani. Non lo dico solo io, lo affermano i contadini e l’hanno ripreso grandi letterati come Pavese e Fenoglio. La vite è come la nostra spina dorsale: può essere nodosa, tormentata, ma è sempre in grado di stare diritta, mostrando la sua speranza, che la rende capace di ancorarsi al terreno con radici profonde, senza essere facilmente sradicata, e di portare frutto anche dopo molti decenni.
La vigna è segno dell’amore per la terra, richiede attesa prima di portare frutto, ma soprattutto richiede lavoro, comporta una fatica a volte eroica per farla crescere sulle coste ripide delle colline. Piantare una vigna è come celebrare un matrimonio con la terra, perché occorre molto tempo prima che dia frutto: essa va coltivata e curata, sempre, d’inverno come d’estate. Vigna è sinonimo di fiducia…
Scriveva Pavese: «A vedere la vite ci si commuove». Verissimo, ma da essa si traggono anche grandi lezioni per la vita. Basterebbe osservare l’operazione della potatura a fine febbraio. La vite è spoglia, ha perso le foglie, ma contiene troppi tralci: il contadino deve allora intervenire e con sapienza discernere i tralci, contando le loro gemme; poi dare un colpo secco con le pinze, per potare i tralci giusti. E mentre in tutta la vigna riecheggia il suono del colpo, la vite “piange”, lasciando cadere a terra lacrime. Questo taglio sembra segnare la fine e invece apre misteriosamente a un futuro pieno di vita. Sì, curare la vigna è come curare la propria vita, attraverso potature e anche pianti.
Ma certo l’epoca della raccolta dei grappoli è un rito prima ancora che un lavoro. E’ una vera celebrazione sui pendii dei bricchi, negli anfiteatri collinari, mentre si canta, ci si chiama da una collina all’altra e si prepara in fondo ai filari la tovaglia per terra, per un veloce pasto condiviso. E già nell’aria si sente odore di mosto, che aumenta con il fresco della sera, la quale incombe e presto arriva con le sue tenebre.
Il pellegrinaggio è finito, è ora di ripartire da queste terre che l’Unesco ha definito patrimonio dell’umanità. Un pensiero mi attraversa: perché è sempre più tenue il legame tra agricoltura e cultura?

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. E’ stato priore dalla fondazione del monastero sino al 25 gennaio 2017: gli è succeduto Luciano Manicardi. La comunità oggi conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele), Ostuni (Brindisi), Assisi e San Gimignano.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
Parole chiave di questo articolo
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